L’intervento di Vincenzo Morvillo al convegno “L’estate del nostro fermento”, sugli anni di Maurizio Valenzi come sindaco di Napoli e la straordinaria stagione culturale degli anni ’70.
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Innanzitutto, vorrei ringraziare Luciana Libero per avermi invitato qui, oggi. Per quanto io sia notoriamente logorroico, non amo parlare in pubblico.
Ciò detto, Luciana mi ha invitato con un preciso obiettivo: quello di farmi assumere il ruolo, all’interno di questo consesso, del marxista, del comunista “cattivo”, del rompiscatole. Insomma, del critico, non tanto inteso come figura professionale, ma del critico a trecentossessanta gradi. Critico contro il sistema, contro il potere, contro l’attuale organizzazione del mondo della cultura e del teatro. Critico contro le regole del mercato. Critico contro la stessa critica. E io, devo dire, ci sto ben volentieri.
D’altra parte, se c’è da fare polemica – ovviamente costruttiva e corretta – non mi tiro indietro. Non l’ho mai fatto. Ritengo che il conflitto e la dialettica (armi e pilastri concettuali del marxismo) il confronto anche duro, siano generatori di idee e stimolino la creatività e la crescita, individuale e collettiva. Inoltre, Luciana mi ha invitato qui non solo a titolo personale ma anche in qualità di arzigogolatore di tematiche culturali e di giornalista di Contropiano.org. Quotidiano comunista online e fuori, quindi, dal perimetro del mainstream.
Un invito quanto mai opportuno, credo io, considerando la storia e l’impegno di questa testata. Contropiano infatti, ha sempre svolto e continua a svolgere, nel campo del movimento comunista e della sinistra antagonista e rivoluzionaria, un importante ruolo di analisi e di riflessione teorica ed intellettuale, tanto sul piano politico quanto su quello culturale. Ponendo, perciò, nel campo dei linguaggi espressivi e delle forme d’arte, grande attenzione al cinema, al teatro, alla letteratura, alla poesia, alla musica e alle arti figurative. Interessandosi, per naturale inclinazione, soprattutto alle realtà marginali, alle creatività borderline, alle produzioni indipendenti e, quindi, fuori dal recinto delle grandi case editrici, dei Teatri Stabili e dei colossi produttivi e distributivi.
Realtà poco curate quando non addirittura snobbate, tanto dalla critica dei giornaloni borghesi quanto da quella online. Una critica tutta protesa a recensire, per lo più tiepidamente, svogliatamente e riduttivamente spettacoli, film, libri o eventi culturali che poco apportano alla crescita intellettuale e civile dello spettatore, del lettore e del critico stesso. O che, qualora abbiano un effettivo valore estetico, politico, filosofico, poetico, civile, non trovano quasi mai una critica che sappia farsi interprete di quelle istanze presenti nell’opera, sia sul piano linguistico-formale, che su quello ideologico-concettuale.
Noi, dunque, come giornale di chiara impronta marxista, ci proponiamo di svolgere esattamente quel ruolo che oggi manca nella società e nel circuito delle arti. Una critica analitica, densa, approfondita e soprattutto militante. Una critica che si attesti su posizioni dichiaratamente di classe, capace di mettere in discussione, anche e soprattutto nel campo della cultura e delle arti, le strutture di dominio che regolano il presente, l’egemonia globale del pensiero neoliberista, la scienza borghese e quella visione elitaria della cultura tanto cara alle gruppi sociali dominanti.
Una visione sostenuta oramai anche dal Pd e da quel centrosinistra funereo che, ancor oggi – a quasi sessant’anni di distanza dal primo esperimento di tale formula – con indicibile mancanza di senso del ridicolo e con assoluta vocazione al sadomaso, le sinistre italiche,invariabilmente radicali e liberal, ripropongono.
Riproponendo addirittura Franceschini al Mibac. Niente meno! In altre parole, il ministro dell’algoritmo quantitativo. Il ministro che ha sancito il consumismo culturale. Il ministro che ha trasformato la cultura in prodotto. In merce. Il ministro dei musei messi a valore, e ridotti a luoghi per manifestazioni sportive (la Reggia di Caserta) o a sale per cine vip. Il ministro del mecenatismo cinquecentesco, del credito d’imposta per i ricchi, del cinema come business e volano turistico. Il ministro delle film commission con cui il cinema diventa spot pubblicitario di un luogo, al solo scopo di gettarlo in pasto al turismo selvaggio. Per non parlare, ovviamente, della scadente qualità delle pellicole così prodotte.
Il ministro del turismo del pensiero. Il ministro che ha devastato il teatro, schiacciandolo sotto il tacco dell’ideologia aziendalista, con attori trasformati in operai-massa alla linea di montaggio. Il ministro, insomma, di quel Pd che si oppone, per storia e vocazione, ad ogni forma di pensiero critico e antagonista.
Ecco, nella pelle dura dei corpi dell’èlite finanziaria, italiana ed europea, che stanno, con le loro politiche di austerità, producendo una macelleria sociale e culturale come non si vedeva da oltre quarant’anni, Contropiano e la nostra critica militante affondano il coltello. Perché torni a nascere una speranza rivoluzionaria e di mutamento del sistema produttivo capitalistico, proprio cominciando dalla cultura!
Come negli anni di quel fermento evocati da Luciana Libero nella sua presentazione. Gli anni della contestazione e dell’attacco frontale alle strutture tradizionali e conservatrici della società. Alla morale borghese, alla sua cultura reazionaria, al patriarcato, al sistema scolastico gentiliano e nozionistico, all’università elitaria. Gli anni della liberazione sessuale, dei movimenti di liberazione della donna, della Legge Basaglia e di quello che fu definito l’assalto al cielo. Gli anni dell’immaginazione al potere. Gli anni del’operaio sociale e di una nuova cultura di classe. Anni in cui fiorivano gruppi Maoisti (Servire il Popolo) Marxisti-Leninisti (W il Comunismo) Operaisti (Potere Operaio e Autonomia). Fiorivano gruppi armati e di guerriglia urbana come Prima Linea e le Brigate Rosse. Insomma, anni in cui la società -non solo italiana- sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro.
Un’intera generazione insorgeva, contro le iniquità del sistema capitalistico e contro i vieti pilastri dell’opprimente conservatorismo reazionario e conformista. Le lotte operaie e le lotte studentesche si saldavano di fronte alla violenza della ristrutturazione capitalistica, seguita agli anni del boom e in piena crisi petrolifera.
Anni durante i quali, all’interno di questo quadro sociale e politico – colorato fortemente di rosso, tanto dinamico e in pieno sommovimento magmatico – la cultura, l’arte, il teatro, la letteratura, il fumetto, diventano forme, codici, linguaggi della stessa contestazione, carichi di valenza rivoluzionaria. Struttura economica e sovrastruttura ideologica, nella visione rivoluzionaria di quegli anni, si compenetravano, si fondevano ed erano in costante rapporto dialettico. Come, d’altra parte, teorizzava lo stesso Engels nella sua lettera a Bloch.
L’intellettuale collettivo diventa intellettuale di classe. Intellettuale diffuso. Pur lungi dall’allontanarsi dai presupposti teorici fondamentali del marxismo, molti gruppi ne reinterpretano la dottrina alla luce della filosofia nietzschiana della trasvalutazione dei valori e dell’esistenzialismo di Heidegger. Erano gli anni della soggettività desiderante di Deleuze e del deisderio rivoluzionario, espressi nell’Anti-edipo: Capitalismo e schizofrenia dello stesso Deleuze e Guattari; di Sorvegliare e Punire e della Microfisica del Potere di Foucault; dello strutturalismo di Lacan e del decostruzionismo di Derrida. De L’uomo ad una dimensione di Marcuse. Della concezione antistoricistica di Benjamin, con la sua critica al tempo lineare del progresso e dello sviluppo tecnologico. Gli anni delle teorie estetiche di Lukacs, Adorno, Benjamin stesso. Avanguardia, sperimentazione, ricerca diventano le parole d’ordine di ogni espressione artistica. Il bisogno di cultura si diffonde ovunque. Insieme alle idee marxiste di libertà, uguaglianza, giustizia sociale.
Ora, una cosa va assolutamente detta. Tutto questo fermento rivoluzionario originava da una critica profonda – che io ritengo giustissima – da parte della sinistra extraparlamentare, al Pci, ai partiti e agli apparati della sinistra operaia tradizionale.
Ma fu possibile proprio grazie all’egemonia culturale esercitata da quel Pci. Un’egemonia che permetteva dibattiti sulla società, l’arte, la cultura, il teatro. E che non consentiva, almeno sul versante intellettuale, un appiattimento e un’omologazione asfittica. Il contrario, in poche parole, di quanto accade oggi. Un oggi in cui si naviga in un mare morto di conformismo, in assenza di qualunque pensiero antagonista. Ma in presenza della dittatura del consenso e del like.
In quegli anni, il cinema d’impegno, politico, d’autore non prescindeva mai da un’analisi stringente della società e da una critica, anche spietata, delle sue strutture più reazionarie e borghesi. Si sperimentavano nuovi linguaggi e nuove estetiche in letteratura, poesia, nelle arti cosiddette figurative.
Il Teatro era una vera e propria fucina rivoluzionaria. Entrava nelle fabbriche, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle cantine, nelle carceri, nei manicomi. Si azzardavano le sperimentazioni più estreme. Dagli studi sulla sensorialità e la sessualità come segno oscuro, alla incontenibile supremazia del corpo come insieme sinfonico; dalla frammentazione del gesto alle sincopate modulazioni della gola; dal teatro come “jam session” jazz di Leo de Berardinis fino a quelle esperienze di smembramento fonematico del testo, puro significante, portate avanti da quel grande neo demiurgo teatrale che fu Carmelo Bene.
In tutte queste esperienze, la drammaturgia scritta, com’è comprensibile, si riduceva ad una sorta di pre/testo, laddove il testo vero diventava quello scritto sulla scena. La scrittura scenica. Si tratta di percorsi di ricerca che ebbero una loro contestualizzazione storica, politica, sociale, in quegli anni. Percorsi poetici capaci di rispondere ad istanze non solo di semplice provenienza artistica ma anche e, forse soprattutto, di carattere politico e filosofico-conoscitivo. Insomma, il Teatro e gli altri linguaggi si fecero interpreti di un più vasto sentimento di rottura con quella morale, quell’estetica, quella concezione ammuffita della vita e dell’arte, che tutto rendeva uniforme, omologato e, soprattutto, lontano da quel pubblico popolare, che non appartenesse alla classe intellettuale e colta.
Non mancarono, com’è ovvio, estremismi e radicalismi, quasi dottrinari o spinti fino al punto di configurarsi come mere e astruse speculazioni intellettualistiche.
Erano gli anni in cui cominciava ad affermarsi quel postmodernismo, all’epoca rivoluzionario e che oggi si è trasformato in mera formalizzazione, estetismo, metalinguaggio di potere. Manifesto sfavillante ma vuoto della società liquida e del relativismo etico ed ermeneutico, in cui galleggiamo. Parafrasando Bauman!
Ovviamente, quel Pci – il partito dell’opposizione istituzionalizzata, contestato nelle piazze – rispondeva a tutto questo in maniera disomogenea e controversa, attraversato da una complessa dialettica interna. Se sul versante squisitamente politico si opponeva (almeno ai vertici dell’apparato) ai gruppi extraparlamentari e rivoluzionari che nascevano alla sua sinistra, avallando repressione poliziesca, delazione in fabbrica, leggi speciali, legislazione emergenziale e carcere (basti pensare al Teorema Calogero); sul quello più prettamente artistico, culturale, intellettuale, lasciava ampi margini di manovra. Anche perché un simile fermento gli faceva decisamente gioco per incassare consenso e voti, specie giovanili.
Ecco dunque che, accanto ad intellettuali, artisti e linguaggi più istituzionali e tradizionali, se ne affiancavano molti decisamente più iconoclasti e innovatori. Quasi sempre molto critici nei confronti della cultura propugnata dallo stesso Partito Comunista.
è proprio in tale dialettica e in tale contesto che, nel ’77, un giovane architetto, un visionario appassionato dei nuovi linguaggi della comunicazione artistica, chiamato da Carlo Giulio Argan -all’epoca sindaco comunista di Roma- a ricoprire il ruolo di assessore alla cultura della capitale, elabora una formula che verrà studiata e imitata da molte altre amministrazioni comunali, in Italia e all’estero.
L’assessore era il compianto Renato Nicolini, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente e con cui ho collaborato in uno dei primi giornali online sulle arti sceniche: Tuttoteatro. La Formula, era L’estate romana. L’intento di Nicolini – oltre ad incanalare le energie rivoluzionarie e le paure dovute alle azioni dei gruppi armati – era quello di indurre i cittadini a usufruire degli spazi pubblici della metropoli (La basilica di Massenzio e la Spiaggia di Castelporziano, per esempio) in risposta all’emarginazione delle periferie.
Lo spunto veniva dalla grande domanda di convivialità e richiesta di cultura, dai “nuovi bisogni” provenienti dal basso che avevano trovato espressione nell’adesione di massa al festival del proletariato giovanile, tenutosi al Parco Lambro di Milano l’anno precedente; o, qualche anno prima, a Licola, in provincia di Napoli. Musica pop, avanguardia teatrale, balletto, teatro di strada, film popolari e d’autore, si mescolano giocando sulla contaminazione delle pratiche, sulla possibilità di far reagire “cultura alta” e “cultura bassa”.
Un’espressione ed una prassi, quella della reazione tra cultura alta e cultura bassa, che diventeranno quasi rituali negli anni a venire ed i cui precursori erano stati, in ambito teatrale, autori come Carmelo Bene e Leo de Berardinis. Quel Leo de Berardinis che di Nicolini fu amico – lo chiamò a partecipare anche ad un suo spettacolo – ma che sull’Estate Romana manifestò, non sempre a torto, più di qualche dubbio.
Happening, bricolage, patchwork, performance, transavanguardia – prima di trasformarsi nei simulacri di quell’espressività postmodernista ed autoreferenziale, che oggi soffoca ogni impulso contenutistico – divengono, in quel particolare momento storico, le parole d’ordine di un’effervescenza culturale segnata da nuovi orizzonti sperimentali e politici. Si vuole portare la cultura sui territori della marginalità periferica. Lasciare incontrare pubblici diversi tra loro. Rendere collettiva la fruizione culturale, con lo scopo di consentirne il godimento anche a quelle fasce tagliate fuori da una concezione elitaria del sapere, propugnata da sedicenti arbitri e custodi della cultura alta.
Il progetto di Nicolini non verrà compreso fino in fondo, ed anzi sarà avversato e criticato da burocrati e vecchi intellettuali di partito, che lo accuseranno di consumismo culturale, in contrapposizione ai cosiddetti interventi strutturali degli enti locali. Laddove, invece, l’intelligente assessore romano – cui si deve la coniazione della categoria dell’effimero – non intendeva certo propugnare una politica priva di programmazione, usa e getta, calibrata essenzialmente sui grandi eventi; bensì, come disse lui stesso «la ricerca di una dimensione politica alternativa in grado di conseguire, non tanto la prefigurazione di un avvenire ipotetico possibile, la formulazione di modelli di società virtuosa, ma la capacità di scegliere quegli elementi che sono in grado di produrre movimento, di formulare nuove ipotesi, di rinnovare la cultura e la politica stessa».
Quella politica dei grandi eventi invece, stravolgerà, a partire dagli anni ’80, l’idea iniziale di Nicolini. E proprio molte giunte di sinistra daranno vita a manifestazioni che si trasformeranno in ribalte degli assessorati promotori e per gli assessori stessi, affogando in parate di valore culturale nullo e che rasentavano lo sperpero di denaro pubblico.
Fino a giungere alla distorsione completa di un oggi in cui la Cultura viene accorpata addirittura al Turismo, anche in ambito ministeriale. Una perversione ideologica, modellata sulle logiche del profitto e del mercato, che ha ridotto la cultura a pura merce. Anzi, a vera e propria Merce/Feticcio, con le conseguenze che Marx ben descrive in merito all’alienazione e alla reificazione di un soggetto dominato addirittura dalla merce culturale.
Un soggetto, dunque, incapace – o meglio reso incapace – di elaborare un pensiero autonomo e critico. Sussunzione della cultura al mercato, al profitto e al turismo, cui fa seguito il consequenziale scempio di una turistificazione selvaggia, che sta sventrando i centri storici di moltissime città italiane, compresa Napoli. Un concetto massificante della cultura che, lungi dal tradursi in cultura per il popolo –come voleva l’assessore romano- si caratterizza per il suo rapporto diseducativo con le masse e, di conseguenza, per la sua valenza elitaria. Insomma, un po’ come dare le brioche al popolo perché ha fame, mentre a Versailles si mangiano fagiani e aragoste. Un’ideologia mercantile della cultura che nulla aveva a che vedere con Nicolini.
E che nulla aveva a che vedere con Maurizio Valenzi – cui questo incontro/convegno è dedicato – sindaco comunista di una Napoli anch’essa in tumulto in quegli anni. Una Napoli il cui tessuto sociale era, come sempre, disgregato, contraddittorio, frammentato e ancor più complesso e composito di quanto non fosse in altre città del Nord. Straordinario paradigma paesaggistico, sociale e culturale della coincidentia oppositorum, Napoli era – ed è tutt’oggi – un microcosmo all’interno del quale coabitano, tra attrazione e repulsione reciproca, tutte le marginalità e precarietà possibili.
Città/contenitore, ammorbata da una peste vagamente camusiana. Quel colera che ne flagellò la pelle nel 1973. Valenzi – che divenne sindaco nel 1975 – in quella città e in anni difficilissimi (cinque anni dopo Napoli fu colpita dal sisma) ancor prima di Nicolini, puntò sul valore della cultura per aggregare le masse. Ma anche, certo, per distrarre gli impeti insurrezionali e rivoltosi di una città per sua natura anarchica.
Un anno prima dell’Estate Romana, perciò, Maurizio Valenzi diede vita all’Estate a Napoli, coagulando intorno a sé, come dice Luciana Libero nella presentazione del convegno, «il meglio dei suoi artisti, a cominciare dal “nemico” Eduardo, quello che se ne era andato gridando “fujtevenne”.Eduardo era il capostipite di una folla di interpreti straordinari, i Maggio (Pupella, Rosalia e Beniamino) che insieme a Pietro De Vico venivano rilanciati da regie innovative. Concetta Barra recitava con il figlio Peppe; Nino Taranto recitava con la Stabile di Luisa Conte; lo stesso Eduardo curava le regie per il figlio Luca e Viviani ritornava, riveduto e riletto, nelle regie di Roberto De Simone o di Mariano Rigillo. Se la tradizione dominava, la sperimentazione non era da meno: la Nuova Spettacolarità esordiva negli spazi di Vittorio Lucariello, nel nascente Teatro Nuovo di via Montecalvario o nella Galleria di Lucio Amelio; Massimo Troisi con La Smorfia dilettava il pubblico del Sancarluccio e di lì a poco avrebbe sfondato nel cinema con “Ricomincio da tre”mentre debuttavano i primi Santanelli, Ruccello e Moscato; nell’82 a Castel Sant’Elmo “Zona d’osservazione” radunò la meglio gioventù della sperimentazione e segnò il debutto dell’ ”Otello”di Mario Martone, a poca distanza dal sorprendente “Tango glaciale”. Mario Martone, Toni Servillo e Antonio Neiwiller non erano ancora Teatri Uniti ma si muovevano già con poetiche ed estetiche affini mentre si aprivano nuovi spazi e teatri nei quartieri, il Biondo dei Santella, il Bracco, il Bellini e a Fuorigrotta il Centro di produzione Rai sfornava produzioni coinvolgendo l’intero vivaio attoriale napoletano. Anche la musica fece la sua parte, con concerti memorabili come quello dell’81 in Piazza Plebiscito con De Piscopo, Zurzolo, Esposito, Senese. Fu in quel periodo che si cominciò a discutere di un Teatro Stabile al Mercadante, primo tentativo di dare un’organizzazione istituzionale alla creatività teatrale».
Erano gli anni del Neapolitan Power e Pino Daniele rivoluzionava completamente la musica napoletana, fondendo tradizione, blues, jazz e sonorità etniche.
Agli inizi degli anni ’70, tra l’altro, Leo de Berardinis e Perla Peragallo avevano sconvolto la periferia di Marigliano, dove diedero vita all’intensa esperienza del Teatro dell’ignoranza, che coincideva con il lavoro di ricerca e sperimentazione in un contesto geografico che de Berardinis identifica sia con le sue radici – in particolare con la sua natura di emigrante del Sud – sia con le radici stesse della tradizione teatrale.
Renato Carpentieri muoveva i suoi primi passi col gruppo la Lega del vento rosso, per dar vita poi, nel ’75, al Teatro dei Mutamenti. Insomma, Napoli, come molte realtà di quel decennio, vive una strepitosa fase di rinnovamento culturale, artistico, musicale e teatrale. Non certo però dovuto – trovo doveroso sottolinearlo – alle sole politiche messe in atto dal partito comunista in quel settore. Anzi!
Il Pci e lo stesso Valenzi – pur con tutta la sua buona volontà e passione intellettuale – non fanno altro che sfruttare a loro vantaggio (molto intelligentemente, bisogna dire) quell’annuncio di rivoluzione politica e quel segno marcato di innovazione dei linguaggi e dei codici espressivi che, tanto a Napoli quanto nell’intero Paese, trovano slancio a partire dal movimento del ‘68/’69.
D’altra parte, come dice Antonio Grieco: «il vento del cambiamento soffia a Napoli in modo estremo e irripetibile. Qui, forse più che altrove, i gruppi studenteschi e le organizzazioni rivoluzionarie giovanili si trovano a fare i conti con una drammatica emergenza sociale, che ha portato a scontri durissimi in altre aree del mezzogiorno già molto tempo prima dell’autunno caldo. Tutto ciò avviene mentre, inarrestabile, continua l’esodo dalle campagne; e città come Torino, in modo convulso, assumono il volto di una grande metropoli meridionale». Immigrazione interna che darà vita, poi, alle categorie sociologico-filosofiche e dialettico-materialistiche di operaio-massa e operaio-sociale, elaborate dalla corrente dell’operaismo.
Orbene, di tutto questo fermento rivoluzionario e innovativo sul piano politico-culturale, a partire dagli anni ’80, con l’inizio del riflusso nella sfera privata e dell’edonismo nel campo delle arti e della cultura, verrà cancellata ogni traccia.
La “marcia dei quarantamila” segna la fine della stagione rivoluzionaria e dell’avanzamento delle forze operaie e progressive; il neoliberismo – con la Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Usa – comincia ad imporsi come pensiero dominante; di lì a poco, la crisi delle ideologie si farà essa stessa ideologia con il trionfo di quell’omogeneizzazione politica e sociale, che ha trovato, nel nostro presente, il suo compimento nell’insulso qualunquismo interclassista del Movimento Cinquestelle; mentre, sul versante culturale, il postmodernismo, lontano dal suo originario significato di denuncia della crisi della modernità e delle grandi narrazioni, ha finito col riflettere, compiacendosene, la decadenza di una società dominata dal relativismo etico ed ermeneutico, dalla globalizzazione, dal caos entropico nell’informazione, dall’individualismo e dal pensiero debole.
Una decadenza che nel campo delle arti, della letteratura e del cinema, si traduce in puro e irritante linguaggio, esercizio di stile, fomalizzazione estetizzante, poetica del nulla, infarcita di rimasticamenti e citazioni. Risultato, una società iper-tecnologizzata ed iper-efficientista, imbarbaritasi nelle relazioni interpersonali, politicamente restauratrice e reazionaria, al punto da riproporre una sorta di schiavismo, e culturalmente ripiombata in una specie di moderno arcaismo patriarcale.
Correo di quest’omicidio politico-culturale, è stato senza dubbio, nel nostro paese, il Pci. Il suo riformismo, la sua progressiva vocazione statolatra, la sua degenerazione giudiziaria e manettara, la sua ansia normalizzazitrice, il Compromesso storico – con cui abbandonò, nelle mani dei padroni, i ceti popolari – la sua subalternità al modello di produzione capitalistico, il suo sbandierato pacifismo, il distacco dal blocco storico, il suo farsi borghesia ed èlite intellettuale.
Fino a provocare la completa polverizzazione e la più grottesca atomizzazione di un patrimonio politico-culturale e di lotte, che avevano permesso non solo l’avanzamento, sul piano dei diritti sociali, delle forze progressive; ma addirittura il farsi soggetto della Storia dei dannati della terra.
Il Pci, prima, la Sinistra largamente intesa, poi, hanno preferito, invece, farsi Stato e Potere, abbandonando a sé stessi i lavoratori, la classe operaia il proletariato, vecchio e nuovo. Uno stravolgimento che ha prodotto, pian piano, sul piano politico, l’avvento di una destra parafascista, addirittura rincorsa sulle politiche securitarie dal Pd e da quel Minniti cresciuto proprio nel Pci; mentre, sul piano delle arti e della cultura, la loro volgare sudditanza alle logiche del mercato e del profitto.
Certo, non si tratta di una deriva solo italiana, ma di una situazione piuttosto diffusa in tutto l’Occidente, seguita al trionfo della globalizzazione e del mercato, come paradigmi regolatori non solo dell’economia ma anche delle relazioni intersoggettive. Questa circostanza, però, non ci deve esimere dal criticare gli errori di quello che doveva essere il partito della classe operaia e della sovversione dello stato borghese. Perché, è bene ricordarlo – soprattutto ai pasdaran del pacifismo di sinistra – il Pci nacque proprio con quest’obiettivo rivoluzionario!
E la critica, mi direte voi a questo punto? Ebbene, la critica per me non esiste. Non è una dichiarazione schizofrenica, ovviamente. Semplicemente, non esiste nella misura in cui essa si fa, ancora una volta, oggi più di ieri, gendarme di una sedicente cultura ufficiale, custode di un sapere elitario e sacerdote officiante di una classe intellettuale materialmente lontana dalle classi subalterne e dai ceti popolari.
Non esiste nella misura in cui il critico è sempre più cratico. Espressione di un Potere che non condivido – in un regime come quello della dittatura del mercato, che ha trasformato la cultura, a seconda dei casi, in prodotto di svago (per il popolo) o di lusso (per le èlite) – e al quale mi rifiuto di partecipare.
Potere di indirizzare il gusto. Potere di manipolare le opinioni. Potere di consentire ad uno spettacolo, ad un film, ad un libro, ad un quadro di avere un seguito o meno, vendere o meno. Potere di determinare il successo o meno di un attore, di un regista, di un autore, di uno scrittore, di un artista. Potere politico che si esercita nelle Università, nelle Accademie, nei Ministeri, nelle direzioni di Festival, in qualità di membri di giurie in premi prestigiosi. Un conflitto di interessi istituzionalizzato, in poche parole, che si badi bene, però, esiste da sempre.
E allora, potrei dire che faccio mie le parole di una critica e di una femminista come Carla Lonzi, che espresse un giudizio radicale nei confronti di questo ruolo, che pure lei si trovò a ricoprire: «L’atto critico completo e verificabile è quello che fa parte della creazione artistica; per questo è necessario negare il ruolo del critico, in quanto potere ed ideologia sull’arte e sugli artisti». E ancora: «La nostra società ha partorito un’assurdità quando ha reso istituzionale il momento critico distinguendolo da quello creativo e attribuendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti. Senza rendersi conto che l’artista è naturalmente critico, implicitamente critico, proprio per la sua struttura creativa».
Un enunciato contro la critica ufficiale che non mancò di esprimere anche Carmelo Bene. Il quale, notoriamente, a teatro non voleva critici ma poeti!
Dunque, personalmente, quando vado a vedere uno spettacolo, un film, leggo un libro e decido di scriverne, di “recensirlo”, non mi percepisco come critico, ma come uno spettatore o un lettore politico, filosofico ed estetico, che decide di elaborare una riflessione, su quanto ha visto o letto, ma anche e soprattutto sulla connessione che quello spettacolo, quel film, quel libro hanno con la realtà che ci circonda. Quanto essa incida sul film, sullo spettacolo, sul libro, e quanto, allo stesso tempo, l’autore vada a fondo nell’analisi e nel significato della realtà storica contingente; quanto si interroghi su essa e quanto sciolga i suoi nodi centrali e decisivi; quanto sia in accordo o in contrasto con le sue tendenze di sviluppo; in che modo esprima i rapporti di produzione e di forza, economico/strutturali e ideologico/sovrastrutturali, intrinseci alla realtà stessa. Per riprendere la lezione di Lukàcs!
La critica, insomma, dovrebbe connettere politica, cultura ed economia. D’altra parte, come diceva Volonté: «Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita».
Ecco, la critica – che io pure nego – dovrebbe fare esattamente questo: ricercare la verità di un’opera e stabilire, gramscianamente, un rapporto rivoluzionario tra l’intellettuale e la vita. Oltre che, possibilmente, predisporsi poeticamente all’ascolto dell’opera stessa.
Insomma, le chiavi, o se si vuole le griglie interpretative di uno spettacolo, di un film, di un libro, di un quadro o di una scultura non possono limitarsi al mero giudizio formale. Si deve passare dal giudizio estetico a quello contenutistico, a quello filosofico-concettuale, a quello ideologico, storico, politico fino al considerare l’autenticità o meno dell’ispirazione autoriale.
Il tutto, ovviamente, attenendosi ad una deontologia rigorosa e ad una onestà intellettuale, che arrivi finanche a sfiorare l’ingenuità. Ecco perché nego l’esistenza della critica. Perché, in buona sostanza – non me ne vogliano i colleghi – non ne colgo quel candore di giudizio che dovrebbe risiedere, quanto più è possibile, in una verità personale, priva di compromessi. In un rapporto dialettico, con sé stessi e con la realtà circostante, arando continuamente il terreno di una ricerca intellettuale e di una riflessione che sia sempre lucida e intransigente.
In altre parole, o la pur negata critica -come l’arte, del resto- riesce a coltivare l’alterità di un pensiero antagonista, contro il conformismo, contro le strutture di potere, contro le logiche economico-finanziarie che governano, oramai, anche le linee editoriali dei giornali e delle produzioni artistico-culturali: esclusivamente dimensionate sul profitto e sulla cultura in quanto prodotto, distrazione, rassicurazione e narcotizzazione delle coscienze; oppure, come dice Volonté, ci si accontenta di essere dei robot nelle mani del potere. Insomma, per farla breve, una recensione dovrebbe essere – secondo il mio opinabilissimo parere – un atto politico e una performance artistica e poetica.
Atto politico non significa, però, compiacere il partito e, con esso, l’autore, l’attore, lo scrittore o l’artista legato alla propria corrente partitica. Significa affondare il coltello, anche con violenza, nella carne viva dell’opera, dello spettacolo, del libro, del film e della realtà contestuale, storica e materiale, ponendosi con essi in un serrato confronto dialettico. Avere il coraggio di andare contro i propri preconcetti, le proprie convinzioni, lasciandosi spiazzare, quando è possibile. In positivo o in negativo. Non essere acquiescenti. E non avere riguardo del nome di grido o del protetto a livello politico. è chiaro che sto tracciando il profilo di una critica militante, marxista, anti sistema, attualmente poco diffusa. Anzi, direi inesistente.
I grandi giornali, del resto, danno poco spazio alla cultura, a meno che non si tratti di grandi eventi o di grandi spettacoli. E la critica,soprattutto quella di sinistra – che è poi quella che m’interessa – colpevolmente si adegua. Anche per torna conto personale. Si limita al giudizio impersonale, tiepido, poco profondo e articolato, fatto di generici assensi o dissensi, che non servono a nessuno. Non agli attori, non ai lettori, non agli spettatori, e neanche al critico.
La critica dovrebbe rischiare, invece di accomodarsi sulla poltrona confortevole dell’ovvietà e del conformismo. Ma, rischiare significherebbe perdere quei privilegi di cui i grandi critici godono, E si torna al punto di partenza. All’assenza del pensiero critico e, dunque, della stessa critica.
In sostanza, nell’epoca della società liquida, dello Spettacolo trionfante, del mercato quale indice distorcente di qualità, dei social media, a dominare sono l’opportunismo, il disincanto, lo stimolo just in time, la velocità e il multitasking. C’è un equivoco della presenza che impone di scrivere di tutto, anche quando non si ha molto da dire. C’è un diktat della velocità, come se fare passare anche solo una settimana fra visione e pubblicazione sia il male assoluto, guadagnando in visibilità ma spesso perdendo in pregnanza e sfiorando l’opinionismo.
Si mescola, ormai pericolosamente – sui giornali o sui social – il tono da ufficio stampa con quello dell’analisi critica. E, infine c’è un tecno-entusiasmo convinto che la rete sia “ingenua”, un mezzo neutro, dimenticando la natura commerciale e non libertaria, democratica, emancipativa di tutti i social media.
Insomma, l’analisi, l’inchiesta, l’approfondimento hanno lasciato il posto alla suggestione impressionistica e alla critica smart sui social. In breve, almeno per il momento, sembra aver vinto la finanza globale. Ha vinto la cultura del pensiero turistico. Hanno vinto la merce e il profitto.
Dice Goffredo Fofi: «La cultura, tra le “grandi fabbriche di oggi” insieme alle armi, al mercato del cibo e a quello rivolto ai bambini, è diventata il vero oppio dei popoli. Serve a manipolare coscienze e finisce per imporre modelli di vita. Oggi gli intellettuali sono meri funzionari del sistema, mentre si avverte la mancanza di figure del passato (è accaduto fino a Italo Calvino) che riuscivano a parlare alla nazione additando responsabilità e problemi. Mentre un tempo la cultura è stata una fondamentale leva a disposizione di chi si opponeva al mondo così come è, la comunicazione ormai ha sopraffatto tutto. Si è passati da una cultura popolare che poteva essere strumento per fare prendere coscienza alle persone, a un’idea di comunità esclusivamente corporativa, familistica, mafiosa. Che fare, oggi?».
Che fare? Una fondamentale e tragica domanda alla quale, temo, segua un ancor più tragica risposta di inconsapevolezza. Specie a sinistra.
Ho scritto più volte che, nella Società dello spettacolo, non possono esistere spettacoli contro. Lo Spettacolo, dunque il Potere, sembra avere assorbito ogni forma di opposizione.
Pertanto, quest’orgia dannunziana e decadente del potere può essere debellata solo se si torna a pratiche dialettiche di conflitto, antagoniste e quindi rivoluzionarie. è in questo crogiuolo di atti ed eventi, carichi di contraddittorietà, che caratterizzano il nostro presente, che può e anzi deve tornare ad esprimersi un elemento di rottura culturale, complessiva ed organica. Viatico che ci consenta di ripercorrere la strada che conduce a quella necessaria “battaglia delle idee”, che resta la sola arma per il cambiamento.
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