Le prime ore del crepuscolo. Una passeggiata oziosa – un flânerie, per l’ appunto – tra i vicoli di Napoli.
Due botanici da marciapiede – per usare il termine che Baudelaire coniò, riferendosi ai flâneurs parigini e napoletani – si incamminano, pigri, per le strade laterali della Storia.
Nel labirinto ebbro, narcotizzante, di una città puttana, i due si smarriscono; tra le macerie di un passato che sussurra di generazioni di vinti, in cerca di riscatto nell’urlo ammutolito del presente. Sulle tracce di un assassino e di un crimine. Il crimine commesso – secondo il commissario Walter Benjamin – dall’uomo su sé stesso. Sulle orme del tempo, i due flâneurs si lasciano andare all’oblio di sé. Depensati, al contatto mimetico con la Storia.
Lentamente, approdano all’interno di quelle venuzze poste sotto l’epidermide della metropoli contemporanea, enfia per la troppa cosmesi, per il troppo belletto. Gonfia di turismo flaccido e di ossa all’ammasso. Di patatine e Coca-Cola.
Fondoschiena adagiati con indifferenza, sul sofà buono di una città sventrata del suo popolo. Della sua cultura antica. Per far posto a baretti e localini di cartapesta. Cool nel loro valore inautentico: postmoderno e cosmopolita.
Ai tavoli, la Storia viene barattata con un sorso amaro di cocktail Neoliberal kitsch. Colorato e sgargiante, come un trenino sulle montagne di Disney World.
Mano nella mano, con Marcella scivoliamo tra le luci soffuse dell’Anticaglia. Lontani dalle arterie cittadine, che pompano sangue di mare infetto di accumulazione a buon mercato.
Lontani dalla metropoli e dal suo frastornante, quasi destabilizzante intrecciarsi di sguardi. Occhi sfuggenti ed estranei che si ignorano e si sfidano, annientati dall’idolatria degli ego.
Lontani dal rocambolesco urtarsi di corpi simili ad automi. Da quel brusio di fondo che ne costruisce la colonna sonora, oramai non più blues. Suoni trap si avventano sulle palpebre bianche di fosforo e ammoniaca, accecandone l’udito.
Ci lasciamo inghiottire da Napoli. Dalla Napoli popolare e senza maschera. Volto struccato e profumato di vecchio. Dove l’odore del sangue si mescola a quello della merda e dello sperma. A quello della morte e dell’eros.
La Napoli del sottoproletariato pulsante maledizione. E del proletariato artigianale e resistente. Respiriamo, come feti nel ventre, il soffio materno di questa città ancestrale. Bloccata sulla soglia di un modernismo rigettato agli empi sacerdoti del nulla.
La Napoli dei bassi apparecchiati come ville sullo scoglio di un’isola greca; tra edicole votive, che urlano paganesimo, e mura antiche, che piangono le lacrime dello sfruttamento umano sull’Uomo e sul suo Tempo. Sulla pietra filosofale che rivelò, generosa, i segreti della Natura.
D’improvviso, un arcaico vortice spazio/temporale ci proietta in un’epoca altra. L’epoca del sogno dello sviluppo delle forze produttive. Quando la macchina era ancora a servizio dell’uomo. Quando ancora la tecnologia non era il soggetto di una storia lanciata a bomba dentro il buco nero del tempo .
Una bottega si materializza nelle porosità delle mura. Sembra un’ illusione ottica, di quelle provocate da una repentina curvatura della luce. O, forse, da un acido di trent’anni anni fa, che ha deciso di ritornare su per alterare le nostre percezioni.
Dinanzi agli occhi si apre un minuscolo gioiello di stamperia vittoriana. Caratteri a piombo, Carta da stracci. Rilegatura in rame cucita a fuoco. E un torchio come stampante.
Nessun 3d. Nessun toner colorato. Tutto è affidato alle esperte mani di un sapere artigiano, smarritosi tra gli inganni dell’incedere ansiogeno delle lancette sul quadrante delle ere. Libriccini curiosi ci guardano da uno scaffale sonnacchioso. Ci manca solo il Cappellaio Matto, che ci conduca al di là dello specchio.
E all’improvviso appare. È lì, nelle sembianze moderne di un antico stampatore. Dice di chiamarsi Carmine Cervone e, con il papà, sono i proprietari di quello che hanno definito Il più piccolo museo del mondo della tipografia.
Ci fermiamo a parlare e ne nasce una piacevolissima conversazione sul loro lavoro, sul perché di una scelta tanto estranea alle logiche produttivistiche del capitalismo contemporaneo. Sul senso di un simile concetto di stampa, nel mondo ipertecnologico delle stampanti 3d. Ma anche sulla politica, la vita, il tempo, la bellezza, le passioni. E sul modello produttivo imposto dal neoliberismo dilagante.
Carmine mi mostra un dvd. È un documentario girato su di lui è sulla sua antica stamperia, dal regista Antonio Manco. Il titolo non può non incuriosirmi e appassionarmi: Resistenza Artigiana. Lo trovo struggente e carico di sentimento rivoluzionario. E gli chiedo il perché di quel titolo, che evoca altre resistenze.
«Prima di tutto vorrei chiarire – dice Carmine – che il titolo non è mio ma di Antonio Manco. È stato lui a capire che stavo opponendo una resistenza. Ma da cosa? Beh io pensavo soltanto di realizzare una bottega artigiana per lavorare, ma non essendoci “ufficialmente” riuscito, mi sono ritrovato a resistere pur di esistere».
Guardiamo il documentario (il link qui sotto, ndr). È bellissimo nel suo cogliere la realtà di territori concettuali diversificabili: cittadini, immaginari, psicologici. Nel suo lento incedere alla velocità dell’uomo. Nel suo scovare volti e corpi antichi, impastati della porosità del tufo e della pietra tipica dalla Magna Grecia. Un documentario che apre suggestioni e interrogativi.
Decido quindi, sul momento, di fargli una breve intervista. Carmine è disponibile e, d’altronde, ama chiacchierare.
Nel documentario parli di “rinnovamento tornando al passato”. Puoi spiegarmi il concetto?
«Quando penso a fare qualcosa, penso al diverso, differente da ciò che già esiste. Nel mio percorso creativo, però, ho sempre presente il prima che è già accaduto, il preesistente, la storia. Mentre pensavo la mia bottega, mentre la realizzavo, mentre cercavo le cose di cui “sentivo” il bisogno, era per me come montare un’installazione con la quale avrei addirittura lavorato. Mi sembrava veramente una cosa “nuova” rispetto al passato.
Non stavo rincorrendo il progresso, la velocità, stavo andando contro corrente; il mio “nuovo” proporre veniva dalle mie (o di chissà chi) vecchie macchine, antichi attrezzi, strumenti di un tempo che fu, un tempo dimenticato. Strumenti che tornavano a raccontare loro stessi, si offrivano a quanti li avessero visti, toccati magari. E sentivo che il prodotto che ne veniva portava con sé le storie di quanti avevano posseduto, usato, amato quegli oggetti, quei ferri vecchi, meccanici, che certamente avevano fatto bestemmiare. Perché la meccanica fa anche bestemmiare».
Prima mi hai detto che il tuo lavoro di artigiano è anche un atto di resistenza anticapitalista. In che senso la intendi?
«Non sono contro i capitali, ma contro chi li detiene. Sono contrario al modo in cui vengono utilizzati. Il capitale come potere oppressivo su chi non ne ha.
Sarà forse che, non avendone mai avuti a disposizione, mi ero reso conto che il mio solo capitale erano le mie mani, il mio bagaglio di esperienze e, perché no, le mie idee e la mia fantasia.
Volevo dimostrare che, pur senza avere denaro avrei potuto realizzare una bottega dove poter lavorare. I miei acquisti erano al pari del valore del ferro vecchio, di cui gli oggetti stessi erano composti. Un investimento bassissimo insomma, alla portata di un “furbo rigattiere”, che poi avrebbe messo in funzione quelle cose e lavorato. Prodotto.
Quindi opporre il famoso “capitale umano” al capitale finanziario; ovviamente senza avere la presunzione di batterlo, ma quanto meno di affrontarlo. Resistere!».
Gli faccio un’ultima domanda. Inevitabile, considerati i tempi che corriamo e l’immediatezza di una realtà che, proprio in questi giorni, si sta facendo cronaca.
In una società in cui impera il consumismo e i rifiuti sono diventati il nuovo “oro nero”, cosa vuol dire per te lavorare con macchine e strumenti che sono configurabili come scarti del sistema?
«Vorrei ribadire prima di tutto che la mia scelta non aveva alternative. Lungi da me il sentirmi il fratello maggiore di Greta Thunberg.
Non avrei mai potuto impiantare una “normale” tipografia date le mie sostanze.
Comunque, alla tua domanda, la prima cosa che mi viene in mente è: soddisfazione.
Si, soddisfazione di andare anche in direzione ostinata e contraria al consumismo sfrenato, all’usa e getta. La mia bottega, anche come monito contro la “produzione” continua di rifiuti che ci stanno sommergendo. Un piccolo segnale: si può fare bene anche con ciò che era stato destinato al macero.
E forse questa è la maggiore contraddizione della mia attività: essere fuorilegge per l’utilizzo di cose che erano state destinate allo smaltimento, all’enorme ammasso di rifiuti che non sappiamo più come gestire; un pericolo per me, un pericolo per chi mi circonda, molto più grande delle discariche ove gli oggetti che ho salvato, a cui penso di aver restituito dignità, sarebbero finiti, come tantissime altre cose che potrebbero ancora avere un senso».
Scatto delle foto e lo ringrazio. Con Carmine ringrazio il padre, il signor Giuseppe, gentilissimo «artigiano resistente e comunista utopico», come lui stesso ama definirsi.
Marcella ed io ci incamminiamo verso casa, grati all’ozio per questa flânerie entre l’histoire. Un viaggio nell’estasi dell’emozione estetica e nel solco profondo lasciato dall’ evidente spaccatura sociale provocata dal ritmo veloce del Capitalismo.
Per qualche minuto, abbiamo camminato nell’800. E sulle vestigia del Tempo. Prima di ripiombare tra le cosce aperte della contemporaneità.
Grazie a Giuseppe e Carmine Cervone. E al loro minuscolo museo della tipografia. Grazie all’Anticaglia. Una piccola feritoia nel cunicolo della Storia di Napoli!
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