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Crisi economica, scontro geopolitico, populismo e classe

L’ultimo libro di Raffaele Sciortino, “I dieci anni che sconvolsero il mondo”, Asterios Editore, 2019, è uno di quei testi importanti che meritano, oltre che una lettura attenta, una analisi approfondita utile a mettere a fuoco un groviglio di questioni, di per sé non risolte e ancora in grado di rideterminare il nostro presente e il nostro futuro immediato. Seguiamo allora per punti il ragionamento dell’autore.

Natura della crisi

E’ opinione abbastanza comune, per lo meno agli analisti marxisti, che la crisi economica globale non cominci nel 2008 con lo scoppio della bolla finanziaria e il fallimento di Lehman Brothers, ma risalga, almeno per le sue cause profonde, agli anni ‘70(1). Questo dato non è così scontato, per lo meno se facciamo riferimento alle analisi del mainstream politico che affollano i giornali.

Certamente, nel 2008 succede qualcosa che ha ricadute immediate sugli scenari economici dapprima negli USA per poi allargarsi all’Europa e al resto del continente, ma le condizioni per cui si arriva al crack vanno ulteriormente indagate. Si badi che non si tratta di un mero vezzo teorico: la chiarezza, in questo caso, serve per inquadrare il cuore del problema e per non trasformare una crisi sistemica in una questione contingente legata a falle nei controlli finanziari, all’avidità di pochi speculatori o agli effetti della deregolazione dovuta ad un allentamento dei controlli e al venir meno della separazione tra il mondo del credito bancario tradizionale e la finanza(2).

Nel 1971 la fine del sistema di cambi di Bretton Woods, decretata dal Presidente Nixon, si unisce alle conseguenze della crisi del petrolio, ridisegnando un sistema di relazioni globali che non tarda a dare i propri effetti. La conseguenza immediata è il dominio del dollaro USA nelle transizioni globali, a cui le altre potenze regionali rispondono in maniera più o meno efficace. Proprio in quegli anni nasce infatti il primo sistema di regolazione delle monete europee (lo SME, inizialmente detto Serpente Economico e poi successivamente Sistema Monetario Europeo) che può essere considerato il primo vagito di quel sistema di relazioni che, attraverso i trattati europei, giungerà all’unione monetaria. In gioco è il futuro dell’Europa che, pur rimanendo alleato e partner strategico degli USA, tenta di acquistare peso geoeconomico attraverso la moneta unica che, in potenza, prova a sfidare l’egemonia del dollaro USA nelle transizioni economiche (3).

Qualche anno più tardi la modernizzazione capitalista cinese, il crollo del sistema sovietico e la quasi totale normalizzazione dei paesi ex coloniali disegnano un sistema mondo completamente diverso dagli anni precedenti, in cui comincia a vedersi una nuova divisione internazionale del lavoro, uno sviluppo impetuoso del sistema finanziario e si danno le condizioni per la creazione di una enorme mole di capitale fittizio.

Sempre più la geografia economica ridisegna il proprio spazio globale con la creazione delle “fabbriche del mondo”, con i riassesti societari, con la crisi dell’impresa fordista nel vecchio cuore del sistema capitalista.

Riprendere i fili di questi cambiamenti è fondamentale anche per comprendere alcune questioni. Non esiste, in realtà, nessuna separazione tra un capitalismo produttivo buono e uno finanziario cattivo. Esistono diversi pesi tra le due sfere macroeconomiche, che si compensano vicendevolmente.

La crisi che porta al fallimento di Lehman Brothers e delle altre banche di affari nel 2008 non è quindi una crisi del capitalismo finanziario che, in nome di un guadagno facile e immediato, abbia sconfitto il capitalismo dei beni e della produzione, ma è una crisi globale di accumulazione, in cui la leva finanziaria è stata gonfiata ed utilizzata per arginare un calo dei profitti dovuto alle contraddizioni intrinseche del sistema di produzione capitalista.

Riflesso geopolitico

Uno dei meriti maggiori del libro che qui recensiamo è quello di provare a trarre in salvo la questione geopolitica da una visione manichea in cui lo scontro tra nazioni e continenti diviene cosa a se stante, sganciata da qualsiasi analisi sul ruolo delle classi sociali interne ai mutevoli blocchi contrapposti.

Ovviamente, nel discorso tutto interno alla crisi teorica della sinistra radicale (nel quale l’emergere della variante rossobruna è solo l’ultimo dei virus), la parola geopolitica è divenuta quasi un tabù. Il merito di Sciortino è mettere in evidenza come la crisi economica e il suo dispiegarsi a livello planetario dopo il contagio statunitense abbiano acuito gli attriti tra aree di influenza. L’analisi è centrata sullo scontro principale tra USA e Cina e si apprezza l’accortezza di non dare per scontato l’esito di una nuova leadership globale asiatica già dispiegata o all’orizzonte in tempi brevi e certi(4). All’interno di questo scontro principale si analizzano i ruoli dell’UE e della Russia come attori globali di secondo livello, stretti tra ansie di integrazione con uno dei due partner globali e volontà più o meno marcate di autonomia.

Viene analizzata una realtà tutta dialettica in cui la Cina, per fare un esempio, sfrutta l’occasione fornita da una crisi non passeggera per ampliare il suo ruolo di fornitore globale non solo di semilavorati, mentre lavora alla creazione di un asse asiatico o euroasiatico alternativo, stringe rapporti con Russia e UE (ad esempio e non solo attraverso la Via della Seta) e allarga la sua penetrazione economica in modo da sganciarsi dal ruolo di supporto nei confronti del debito statunitense, da cui comunque non può sganciarsi totalmente.

Si tratta di una battaglia in cui una rigida separazione tra campi contrapposti (l’impero del capitale contro un “presunto” asse del proletariato) non è data per motivi oggettivi.

Se la Russia non è l’Unione Sovietica (neppure nella sua versione senile dagli anni ‘70 in poi fino all’89), la Cina è un paese contraddittorio dove lo sviluppo dell’economia capitalista è impetuoso e foriero di enormi diseguaglianze sociali, il cui futuro è tutto legato agli sviluppi economici e sociali interni ed esterni nonostante lo stretto controllo esercitato attraverso la pianificazione economica e dai residui del cosiddetto socialismo di mercato. L’Unione Europea è un vaso di coccio stretto tra una volontà di sganciarsi dalla crisi USA e l’incapacità di progettare un futuro fuori dalla cornice di un asse militare con la più grande potenza bellica del pianeta. Una unione che ha assoluta necessità di uscire da una impasse economica in cui le manovre espansive come il QE di Draghi servono solo a rallentare un declino che sembra non poter finire.

L’acuirsi di queste contraddizioni geopolitiche e geoeconomiche ha dei riflessi globali e determina alleanze temporanee anche all’interno dello stesso blocco(5). Il problema è che la crisi economica è sistemica: qui le volontà di potenza/autonomia dei singoli attori non nascono dal nulla ma sono il portato di una analisi in cui le vecchie ricette finanziarie ed economiche non funzionano più (come negli USA o nella UE) o funzionano troppo poco (Russia e Cina) e soprattutto non risolvono lo squilibrio dovuto alla creazione di nuove bolle finanziarie che incombono su tutti.

Non esiste, in questo senso, un blocco al riparo dal contagio. Non esiste un sistema in cui il “capitalismo buono” della produzione non subirà effetti perché il sistema globalizzato unisce sotto un unico destino l’economia statunitense a rischio di crollo e il sistema industriale asiatico che lo rifornisce e ne sostiene il debito finanziario anche a costo di veder risucchiato parte dei propri profitti dall’idrovora del dollaro come moneta globale.

Qui entra in gioco la lotta di classe, come attore all’interno dei singoli blocchi. Da un lato come forza che subisce la crisi e ne paga le conseguenze in termini di diritti sociali, dall’altro come attore globale in grado di interagire sullo sviluppo e determinarne almeno parte del cammino. Vediamo quindi come si sviluppa la lotta sociale interna ai vari quadranti e in quali forme si esprime.

Classi e populismo

L’autore sceglie la strada di una ricostruzione puntuale delle aree di crisi e delle rivolte popolari, più o meno spontanee, che ci hanno accompagnati in questi anni. Dalle “Primavere Arabe” all’Ucraina del golpe fino al medio Oriente con le guerre in Libia e Siria. Ciò che emerge è un quadro contraddittorio in cui, fatte salve le motivazione genuine di molti attori sociali, l’elemento decisivo è la sovradeterminazione delle scelte da parte dei diversi attori globali. Dagli Stati Uniti di Obama che intervengono in Egitto e Tunisia determinando un ribaltamento di prospettiva rispetto all’inizio delle rivolte, fino all’Ucraina dove, fin dal principio in modo abbastanza evidente, si gioca una partita in cui gli USA scavalcano la UE e creano le condizioni per un più duro accerchiamento della Russia. Gioco che invece non riesce in Siria, dove gli Stati Uniti dimostrano la loro crisi di prospettiva e la Russia mantiene salda la propria influenza attraverso l’asse sciita Iran, Siria, Hezbollah.

Gli attori sociali proletari giocano una partita che, stante i rivolgimenti globali e la debolezza interna delle forze di classe, sembra essere persa già in partenza. Ciò che all’autore sembra premere di più è la messa in evidenza dell’ineluttabilità di un carattere spurio delle rivolte, un carattere che rimanda al populismo più che alla lotta di classe, che gioca un ruolo oggettivamente marginale. Ruolo che ovviamente è tale anche in Europa, dal movimento No Tav (di cui si mettono in evidenza comunque i meriti) ai gilet gialli.

La nozione di lotta populista non viene esaltata, ma neppure denigrata. Appare infatti conseguente a una serie di cambiamenti sociali nella divisione internazionale del lavoro, oppure è diretta conseguenza dell’integrazione di molte fette di popolazione in un gioco legato al consumo indotto o al credito che ha trasformato spesso in profondità le aspettative di futuro. Gioco che ha funzionato per anni e ora entra in crisi determinando rancori, voglia di rivalsa ma contemporaneamente mancanza di strumenti e di organizzazioni guida(6).

Sarà così per molto tempo, sostiene l’autore, e bisognerà prenderne atto. Così come occorrerà avere uno sguardo globale soprattutto in riferimento ai paesi (di cui la Cina è il capofila) in cui la lotta di classe può esprimersi in tutta la sua forza dirompente in un rapporto dialettico con uno Stato che non può permettersi troppo, ma che può sfruttare l’elemento delle mobilitazioni operaie come leva per rendere autonoma la propria posizione relazionale con il resto del mondo.

Conclusioni

L’analisi iniziale atta a presentare la crisi in tutto il suo portato sistemico (quindi non transitorio) è l’elemento analitico fondamentale del testo. Lo scontro geopolitico e geoeconomico stanno quindi, non negli interessi solo immediati dei singoli attori, ma negli interessi di sopravvivenza a lungo termine. Tra i blocchi rimane per ora una dialettica tra dialogo e contrapposizione, retaggio di squilibri globali economici ma anche militari. All’interno dei blocchi la contrapposizione tra gli interessi delle classi deve e può giocare un ruolo decisivo sia dove la classe operaia ne ha gli strumenti, come in Cina (organizzazione, struttura produttiva ad alta intensità, rapporto dialettico con lo Stato), sia dove il rancore si esprime nelle forme di sollevazione populista.

Rimane scoperta la questione decisiva del “Che fare?”. Se la crisi, come appare evidente, è legata alle contraddizioni intrinseche del modo di produzione, si apre una fase ancora più buia in cui la necessità della distruzione del capitale in eccesso relativo al precedente ciclo di accumulazione diventa quasi ineluttabile. Il discorso è aperto: le lotte e le mobilitazioni per un modello di sviluppo più confacente alla massa dei disperati e degli sfruttati si inseriranno inevitabilmente in uno scontro geopolitico che diventerà sempre più aspro, in cui le mobilitazioni sociali e la direzione anticapitalista saranno una palestra all’interno della quale disegnare un nuovo mondo. Sulle macerie, più o meno fumanti, di quello vecchio (7,8).

Note:

1) A questo proposito segnaliamo, tra gli altri, gli atti del convegno “Exit Strategy, come rompere la gabbia dell’Unione Europea”. In particolare la relazione di Maurizio Donato ora reperibile nel libro omonimo Bordeaux edizioni (https://www.bordeauxedizioni.)

2) Ci si riferisce in particolare all’abolizione del cosiddetto Glass-Steagal Act statunitense nel 1999. Legge che separava gli istituti di credito in istituti bancari classici e istituti finanziari. La legge risaliva al 1933, varata durante il New Deal.

3) All’inizio l’euro sembrava riuscire nel proprio intento di divenire moneta concorrente con il dollaro. Si veda, ad esempio, l’analisi contenuta in “Appunti sulla costruzione del Popolo Imperialista Europeo” di Rete Noi Saremo Tutto. (https://www.citystrike.org/)

4) Qui si fa riferimento alle teorie espresse, tra gli altri, da Giovanni Arrighi nel “Lungo XX secolo” edizione Il Saggiatore, versione aggiornata. Qui Giovanni Arrighi analizza le possibiltà di un cambio di leadership globale indicando la Cina come il probabile vincitore della contesa globale.

5) Per restare all’attualità l’asse franco tedesco contro il blocco di Visegrad ne è un esempio.

6) La Brexit e la vittoria di Donald Trump sono degli esempi in cui la vittoria del leave e l’ascesa del tycoon statunitense sono dovute a un rancore, con forti evidenze di classe, contro un establishment insostenibile.

7) A margine, nel libro ci sono accenni poco approfonditi sul continente latino-americano, sul portato del tentativo di un “socialismo del XX secolo” e sulle sue contraddizioni interne, cadute e resistenze. Sarebbe stato interessante approfondire anche sulla questione del populismo che, in quel quadrante, ha una storia decisamente diversa dal punto di vista quantitativo e qualitativo.

8) Ulteriori approfondimenti sarebbero da fare sugli ultimi sviluppi del movimento ecologista e sulle questioni ambientali. Qui sembra essere in gioco, tra le altre cose, un tentativo di ristrutturazione del ciclo economico nel senso della compatibilità ambientale. Più che un improvviso amore per il pianeta, sembra valere la necessità per gli attori globali di reinvestire in cambiamenti di processo industriale. Questione complessa che potrebbe mettere in moto da un lato un investimento sull’economia reale e non esclusivamente basata su leve finanziarie, dall’altro una partita non semplice sul ruolo delle materie prime che potrebbe acuire ancora di più gli attriti e i venti di guerra.

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