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L’Italia delle disuguaglianze sociali. Rovesciare il tavolo è l’unica ricetta

Nel suo Rapporto sulla coesione sociale reso noto nei giorni scorsi, l’Istat ha evidenziato come nel 2012, il 12,7% delle famiglie residenti in Italia si trovasse in condizione di povertà relativa (+1,6 punti percentuali sul 2011) e il 15,8% degli individui (+2,2 punti). Secondo il Rapporto si tratta dei valori più alti dal 1997, anno di inizio della serie storica.

C’è poi la povertà assoluta, che colpisce invece il 6,8% delle famiglie e l’8% degli individui. I poveri in senso assoluto sono raddoppiati dal 2005 e triplicati nelle regioni del Nord (dal 2,5% al 6,4%). A conferma di ciò, il rapporto evidenzia che, sempre l’anno scorso, la retribuzione mensile netta è stata di 1.304 euro per i lavoratori italiani e di 968 euro per gli stranieri. Rispetto al 2011, i salari netti mensili sono rimasti praticamenti fermi (solo 4 euro in più). Quasi un pensionato su due (il 46,3%) ha un reddito da pensione inferiore a mille euro, il 38,6% ne percepisce uno fra mille e duemila euro, solo il 15,1% dei pensionati ha un reddito superiore a duemila euro. Dal 2010 al 2012 il numero di pensionati e’ diminuito mediamente dello 0,68%, mentre l’importo annuo medio e’ aumentato del 5,4%.

A fronte di tutto questo, il rapporto dell’Istat rileva che il tasso di disoccupazione nel 2012 ha raggiunto il 10,7%, con un incremento di 2,3 punti percentuali rispetto al 2011 (4 punti percentuali in piu’ rispetto al 2008). Il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 35%, con un balzo in avanti rispetto al 2011 di oltre 6 punti percentuali (14 punti dal 2008).

Il lavoro poi non aiuta. Il numero medio di lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato nel 2013 è diminuito rispetto all’anno precedente (-1,3%) attestandosi a quota 10.352.343. Si lavora in meno e si guadagna di meno. I lavoratori dipendenti nel nostro Paese hanno perso circa 832 euro ogni anno anno dal 2010 al 2012, a causa del calo negli stipendi netti. E’ quanto certifica la Banca d’Italia, che ha pubblicato il suo rapporto sulle economie regionali. In questo studio si evidenzia che laretribuzione media dei lavoratori in questo periodo è passata da 1.328 a 1.264 euro. Il totale annuale arriva a 832 euro persi, includendo la tredicesima. Ad essere colpiti da questa riduzione dei salari sono soprattutto i lavoratori più giovani. Nel meridione si è verificato il calo maggiore nelle retribuzioni orarie dei giovani laureati; al nord ovest sono invece stati più colpiti i giovani diplomati.

Se questo è il nostro paese visto “dal basso”, quello che emerge dolorosamente è che l’Italia è sempre più disuguale sul piano economico e sociale.  Gli indici con cui le statistiche misurano le disuguaglianze sociali crescono inesorabilmente dal 2007, l‘ultimo anno prima della recessione. La crisi infatti non ha reso i ricchi meno ricchi. con quote in più di ricchezza nazionale a scapito del resto del Paese. In basso e nelle ex classi medie invece si è scesi vorticosamente. In confronto ai ricchi, infatti, i poveri, a cominciare dai ceti medi in declino, sono diventati più poveri.

I castigatori dei “vizi della Prima Repubblica” o dei terribili anni Settanta, dovrebbero essere costretti ad ammettere che l’Italia più egualitaria era quella dei primi anni ’80. Nel 1983, secondo quanto calcolato da Paolo Acciari e Sauro Mocetti nel loro studio (“Una mappa della disuguaglianza del reddito in Italia”) pubblicato dalla Banca d’Italia, i 4 milioni di contribuenti, che costituiscono il 10 per cento più ricco degli italiani, assorbivano il 26 per cento del reddito nazionale. Occorre tenere conto che lo studio analizza le dichiarazioni dei redditi e non tiene conto dell’evasione o dei redditi fuori Irpef, in particolare gli interessi sui depositi, le cedole dei titoli, i dividendi azionari, insomma, le rendite finanziarie in genere che, per i ricchi, fanno la differenza. Dieci anni dopo, nel 1993 (l’anno successivo alla terapia shock dei governi di Maastricht nel ’92), il 10 per cento più ricco aveva già intascato quattro punti in più,  il 30 per cento del reddito dichiarato, lasciando il 70 per cento a tutti gli altri. Da quel momento l’economia italiana si è praticamente fermata – a conferma che le politiche del “ce lo chiede l’Europa” sono state fallimentari e negative per il paese – ma ciò non ha impedito ai 4 milioni di italiani più ricchi, quelli con un reddito sopra i 35 mila euro, di ritagliarsi una fetta di torta sempre più grande: al 2003, sono arrivati sopra il 33 per cento. Nel 2007, alla vigilia della crisi, sono saliti ancora, sopra il 34 per cento. In meno di 25 anni, la fetta del 10 per cento è cresciuta di quasi un terzo.

E’ possibile censire ed individuare almeno 40 mila superstipendi, superpensioni, superparcelle, superrendite, che costituiscono lo 0,1 per cento dei redditi trasparenti all’Irpef, è andata anche molto meglio. Nel 1983, questa categoria di maxiredditi assorbiva meno dell’1,50 per cento del totale delle dichiarazioni. Nel 1993, già sfiorava il 2 per cento. Ma il passo lo hanno allungato dopo, a ristagno iniziato: nel 2007, la quota dei 40 mila straricchi era salita oltre il 3 per cento. In pratica, in 25 anni è raddoppiata. E la crisi? A queste altitudini è un venticello, che non compromette la presa delle classi più agiate sulla torta nazionale. Fra il 2007 e il 2009, la quota del 10 per cento più ricco scende dal 34,12 al 33,87 per cento.

Ma se il 10 per cento più ricco diventa più ricco, cosa succede nell’altro 90 per cento?  Il processo di progressiva crescita dei ceti medi che riduceva gli indici di disuguaglianza si è bruscamente interrotto con il 2007. Oggi la disuguaglianza sociale del paese è inferiore nel Centro-Nord, anche se i poveri in senso assoluto sono raddoppiati dal 2005 e triplicati nelle regioni del Nord (dal 2,5% al 6,4%).  Ma nel Centro-Sud le cose cambiano radicalmente. l’Italia meridionale, con l’eccezione della Basilicata, registra tassi di ineguaglianza paragonabili a quelli della Turchia. Nel Nord, il quarto più povero della popolazione dispone del 5,7 per cento del reddito complessivo. Nel Sud, questa quota crolla al 3,7 per cento. Una frattura geografica che si affianca a quella sociale, sempre più profonda.

E’ evidente come a fronte di questa realtà i pannicelli caldi ipotizzati da Renzi (il Job Act) o dal governo Letta (vedi il Jobs for youth) sono del tutto irrisori per invertire la tendenza all’aumento delle disuguaglianze sociali. Solo rovesciando il tavolo, le sue regole del gioco e i suoi vincoli europei sarà possibile sarà possibile mettere in campo una agenda di priorità sociali radicalmente diverse. L’anticapitalismo sta diventando un aspetto decisivo della sopravvivenza.

Redditi più bassi, prezzi più alti. Ecco perchè la crisi in Italia si sente più forte che in altri paesi europei

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