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Colombia. Antropologia di una guerra interminabile

Colombia. Antropologia di una guerra interminabile racconta la storia di un conflitto senza fine visto con gli occhi di una colombiana, Ana Cristina Vargas, che ha elaborato i suoi periodi di ricerca sul campo sia per la sua tesi di laurea sia per la stesura della sua tesi dottorale.

Ciò che ne emerge è un libro che analizza nel dettaglio i motivi del fallimento del processo di pace, il fenomeno della sparizione forzata, il dilagare della criminalità e dei gruppi paramilitari, l’urgenza della memoria storica da parte di un popolo stanco di guerra.

Docente di Antropologia culturale e medica all’Università di Torino, Ana Cristina Vargas affronta il conflitto armato colombiano a partire da una prospettiva antropologica ed etnografica, ricordando che, per lei, “la Colombia è il paese dove sono nata e cresciuta: parlare di violenza vuol dire entrare in un territorio in parte noto, che ha forti risonanze emotive”.

Caratterizzato dall’ampio ricorso a interviste, fonti giornalistiche, atti dei processi e verbali delle deposizioni dei testimoni, senz’altro uno dei maggiori pregi di questo lavoro, il libro inizia da quel 26 settembre 2016 che sembrava segnare una nuova era per il paese, la firma degli accordi di pace tra le Farc – Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – e l’allora presidente Juan Manuel Santos.

In realtà, nota l’autrice, lo stesso strumento con cui furono firmati gli accordi di pace aveva un significato ambiguo. Il cosiddetto balígrafo, la munizione trasformata in stilografica con sopra scritto “Le pallottole segnarono il nostro passato, sarà l’educazione a segnare il nostro futuro” si faceva portavoce, per quanto in modo insito, della difficoltà costruire un futuro di pace distanziandosi dai linguaggi della guerra.

Peraltro, ci penserà poi il duque-uribismo a far fallire il referendum sull’accordo di pace, senza che i suoi promotori avessero previsto un piano B, convinti che la maggioranza dei votanti sarebbero stati favorevoli alla pace.  La paura, diffusa ad arte, che la ex guerriglia prendesse il potere, unita alle dichiarazioni dell’ex presidente Uribe, tra le quali la più sconcertante riguardava la richiesta di amnistia per i militari responsabili dei crimini di lesa umanità, finirono per destabilizzare il voto e favorire i partiti come il Centro Democrático (di estrema destra, a dispetto del nome), contrari fin dall’inizio anche ai negoziati con le Farc.

Oggi, la realtà colombiana, segnata costantemente da una persistente violenza, è fatta dalla serie quasi quotidiana di omicidi ai danni di lottatori sociali, ambientalisti, indigeni, contadini ed esponenti dei partiti politici di sinistra, come ai tempi dello sterminio dei militanti di Unión Patriótica.

A questo proposito, Ana Cristina Vargas cita il sociologo Orlando Fals Borda che, nel 1986, parlava della Colombia come una democrazia svuotata di contenuto, di uno stato costruito sulla base di una violenza strutturale e della presenza di clientelismo, repressione, manipolazione e burocrazia.

Se negli anni Settanta e Ottanta era prevalsa la lotta politica, soprattutto tramite la presenza e il consolidamento degli eserciti guerriglieri, la crescita del narcotraffico e lo sviluppo dei gruppi paramilitari finì per mutare, in peggio, l’assetto socio-politico del paese. Di fronte alle Farc, al gruppo M-19, all’Esercito popolare di liberazione e all’Esercito di liberazione nazionale (con quest’ultimo i negoziati di pace sono arenati da tempo), lo Stato rispose con la Doctrina de Seguridad Nacional, mutuata dagli Stati Uniti a seguito del pantano vietnamita e con l’Estatuto de seguridad nacional, varato nel 1981 dall’allora presidente Turbay Ayala, che assegnava all’esercito poteri straordinari.

La tortura, le esecuzioni extragiudiziarie e  la sparizione forzata rappresentarono, e rappresentano tuttora, la quotidianità di un paese sottoposto ad una continua violenza statale promossa spesso da attori armati tollerati dalle istituzioni al loro interno, dai narcos ai paras.

Non più, quindi, soltanto guerra sporca contro le guerriglie e la protesta sociale, ma un vero e proprio genocidio politico volto ad annientare l’”altro politico” al fine di eliminarlo per abolire qualsiasi forma di dissenso e di diversità sociale.

Ana Cristina Vargas insiste sul concetto di degradación, riferendosi sia al caso dei falsos positivos, in cui peraltro è coinvolto anche l’ex presidente Juan Manuel Santos e relativo ai civili disarmati uccisi e presentati dallo Stato come guerriglieri, sia ai labili confini tra attori armati parastatali e criminalità organizzata.

La narcocultura, insieme alla necropolitica, caratterizzata dall’utilizzo sistematico della tortura da parte dei paramilitari, responsabili spesso anche di feroci atti di mutilazione, servono per annullare l’identità dell’”altro” e trasformare l’inumano in qualcosa di razionale. Gli episodi di vera e propria ferocia commessi da paramilitari e narcotraffico sono molto simili a quelli di cui si resero protagonisti gli squadroni della morte che in Guatemala provocarono il genocidio maya nell’ambito dell’operazione tierra arrasada.

Ha ragione Ana Cristina Vargas a parlare di “conclusioni provvisorie su una storia inconclusa” nella parte finale del suo libro, sottolineando i molteplici ostacoli ancora presenti sulla strada che porta ad una reale fine della guerra, esprimendo la propria preoccupazione e confidando che la memoria rappresenti il punto principale da cui ricostruire un’idea più democratica, più plurale ed inclusiva di nazione.

Colombia. Antropologia di una guerra interminabile

di Ana Cristina Vargas, Rosenberg&Sellier, 2019

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