“Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici […] La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri […] ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee” (Antonio Gramsci, Torino, 1916).
La relazione pedagogica e gli strumenti didattici utilizzati per la sua attuazione non sono mai neutri, sono sempre sottesi da una dimensione politica.
l’Indire, centro di elaborazione dell’ideologia delle competenze, oggi si dichiara al fianco delle 27 Scuole Polo del Movimento di Avanguardie Educative che ha elaborato il “Manifesto della scuola che non si ferma” nel quale si afferma che “Le scuole del Movimento delle Avanguardie educative credono in una scuola che si rinnova e non si ferma, anche in condizioni di emergenza, facendo leva sulla forza della condivisione delle idee e del supporto tra scuole”.
Gli assi portanti del succitato manifesto sono “crescita, innovazione, responsabilità, sistema, rete e comunità”. Se da un lato appare evidente la natura pianificata e strumentale della propaganda nazional-popolar-patriottica (“la scuola non si ferma” è un messaggio che fa pendant con quello tanto caro ai padroni che enfatizza “l’Italia che non si ferma”), dall’altro è palese l’ulteriore traghettamento della scuola verso i bisogni del libero mercato.
Il nuovo Moloch sono le piattaforme, le connessioni, le videoconferenze: non-luoghi, non-classi, non-relazioni. La connessione non avvicina, ma divide, non crea comunità, ma segmentazione, non accomuna. Eppure, al tempo della shock economy, i messaggi sono chiari e univoci: continuare a quantificare, valutare, misurare, trasferire informazioni.
La scrivente, rivoluzionando obtorto collo la propria azione didattica, ha registrato le proprie lezioni, le ha inviate in maniera sistematica ai propri studenti (triplicando peraltro – aspetto non secondario – il proprio tempo di lavoro e rinunciando al legittimo crinale tra il tempo di lavoro e quello privato): un trasferimento continuo e unidirezionale di informazioni che non si apre a reali interazioni neanche nelle video conferenze, nelle classi virtuali, quelle che sostituiscono bit alla relazione, innanzitutto umana, docente/discente.
L’azione didattica a distanza si configura come un travaso continuo di dati in un altro soggetto, riproponendo, in maniera amplificata, quel modello di educazione “depositaria e bancaria” di cui parlava il pedagogista Paulo Freire nell’opera “Pedagogia degli oppressi”.
Questa forma di educazione, per il pedagogista brasiliano che ha dedicato parte della sua vita a un impegnativo progetto di alfabetizzazione delle classi disagiate nel Brasile degli anni Sessanta, divide l’umanità in due gruppi, oppressi e oppressori: i primi sanno e impongono il proprio sapere, i secondi non sanno e si limitano ad assimilare passivamente informazioni e modelli imposti da altri.
Così afferma Freire in proposito: “Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma diritto di tutti gli uomini […] il dialogo è questo incontro di uomini, attraverso la mediazione del mondo per dargli un nome, e quindi non si esaurisce nel rapporto io/tu. […] Perciò il dialogo è un’esigenza esistenziale. E se esso è l’incontro in cui si fanno solidali il riflettere e l’agire dei rispettivi soggetti, orientati verso un mondo da trasformare e umanizzare, non si può ridurre all’atto di depositare idee da un soggetto nell’altro, e molto meno diventare semplice scambio di idee come se fossero prodotti di consumo ” (P. Freire, Torino, 2002, pp. 78 – 79).
La didattica, al tempo della connessione emergenziale, va nella direzione opposta, favorendo, invece, la passivizzazione, rafforzando la distinzione gerarchica tra chi sa, parla e comanda (nel caso della classe virtuale, il docente tramutato in “host”, gestore della video conferenza) e chi non sa, il deposito, e si limita a obbedire, fatta salva qualche richiesta di ulteriore spiegazione salutata con emoticon di vario tipo.
La pedagogia non è mai neutra e l’emergenza rappresenta un’occasione d’oro per rafforzare l’ideologia del libero mercato già ampiamente metabolizzata attraverso la famigerata controriforma della scuola. La legge 107 del 2015 così recitava: “Tali insegnamenti […] sono parte del percorso dello studente e sono inseriti nel curriculum dello studente, che ne individua il profilo associandolo a un’identità digitale e raccoglie tutti i dati utili anche ai fini dell’orientamento e dell’accesso al mondo del lavoro, relativi al percorso degli studi, alle competenze acquisite.”
Senza tanti infingimenti, già la legge 107 aveva svelato la sua natura politica, sussumendo la scuola alle logiche della competitività e del profitto e imponendo un modello pedagogico funzionale al libero mercato, non certo alla ”conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri” ovvero al libero sviluppo dello studente.
Aggressiva iper-competitività, contabilizzazione, gerarchizzazione delle conoscenze, tracciabilità dello studente, utile alla sua potenziale immissione nel mercato e, dunque, al suo sfruttamento futuro e asservimento agli interessi del capitale: questi erano gli ingredienti del modello pedagogico della 107.
La situazione emergenziale, determinata dal coronavirus, ha favorito ulteriori torsioni nella relazione apprendimento/insegnamento, rafforzando quel taylorismo educativo che trasforma gli studenti, come affermerebbe il caro maestro Manzi, in “semplici ripetitori di cose e non in creatori di cultura”.
Il docente, trasformato in “host”, nella classe virtuale, ha il diritto di ammettere lo studente con un click sulla voce “admit”, di decidere se lo studente deve essere in condizione “mute” o “unmute”, di dare o togliere la voce o registrare cliccando “rec”: un vero controllo automatico a distanza che produce e riproduce situazioni di dominio.
È un modello molto distante da quello della pedagogia della “coscientizzazione” e della liberazione proposta da Freire, tutta declinata sull’idea di un rovesciamento dialettico permanente in grado di trasformare vicendevolmente, in un’ottica problematizzante, le figure coinvolte nell’attività didattica.
“Perciò la liberazione è un parto. Un parto doloroso. L’uomo che nasce da questo parto è un uomo nuovo, che diviene tale attraverso il superamento della contraddizione oppressori/oppressi che è poi l’umanizzazione di tutti.” (P. Freire, Torino, 2002, p. 34).
L’educazione, senza precostituiti/pregressi significati impressi al mondo, diviene così un atto creativo che affiora dalla relazione pedagogica stessa, in grado di cancellare la distinzione gerarchica tra chi sa, la leadership dominante, e chi non sa e obbedisce, l’asservito.
“La prima sopravvive nella misura del suo antagonismo con le masse, la seconda nella sua comunione con esse” (P. Freire, Torino, 2002, p. 172).
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