Prima di assumere la medicina, leggere attentamente le avvertenze. Le avvertenze sono pubblicate su foglietti di istruzione che, con allusione scherzosa, ma nemmeno più di tanto, sono chiamati Bugiardini (Treccani.it).
Per quanto riguarda la Medicina (con la M maiuscola) i fogli illustrativi sono pubblicati su 2/3 riviste di consolidata fama mondiale, tipo Science, Nature, Lancet, eccetera.
Un abbonamento annuale a Lancet costa 255 euro, a Nature 217 e a Science 125. Ma sono soldi spesi bene. A patto di conoscere l’Inglese e un certo linguaggio tecnico, impreziosito da latinismi.
La corsa di molte università occidentali, compresi alcuni prestigiosi politecnici italiani, nell’adozione dell’inglese come lingua di insegnamento, non rappresenta un adeguamento tardivo a una moda, ma l’accettazione (con gaudio) di un docile imperialismo linguistico.
Se i rettori accettano questa subalternità, non bisogna biasimare quei ricercatori e giovani professori che pagherebbero, pur di vedere un loro saggio (paper) pubblicato su una di queste riviste.
E non importa che il saggio tratti di filosofia e, addirittura, di italianistica. Se nel curriculum non puoi contare una pubblicazione su uno di questi sancta sanctorum del Sapere globale, puoi scordarti di poter accedere a una carriera che abbia a che fare con la scienza, le lettere e la filosofia.
Il sistema è noto, ed è in vigore ormai da tempo. Lo chiamano Peer Review (cooptazione). Per assere accettato nel mondo della scienza e delle lettere devi scrivere un papiro in inglese, il quale deve essere preliminarmente accolto da una rivista di fama, essere sottoposto ad esame e ottenere l’imprimatur.
La procedura non è semplice. Esistono veri e propri manuali (HowTo), come il libro di Irene Hames, Peer Review and Manuscript Management in Scientifi Journals: Guidelines for Good, libro consigliato da Lancet e rivolto a operatori di ogni livello del processo di cooptazione: Reviewers, Editor-in-Chief, Editorial Assistant.
Persino gli authors, dice Lancet, potrebbero giovarsi della lettura di questo bigino. Gli authors, prima di inviare papelli illeggibili, dovrebbero conoscere la procedura di selezione e le tecniche di trattamento del testi.
Quando si comincia a parlare di queste cose lo dico in difesa dei poveri ricercatori che ambiscono alla carica di professore – quando si entra in questa palude, si inizia a copincollare termini tecnici e, prima di rendersene conto, si finisce per essere risucchiati dall’inglese scientifico.
Non mi sarei inoltrato su questo terreno se non fosse per il recente papocchio combinato proprio da Lancet, rivista scientifica di primo livello, la quale, il 22 Maggio scorso, ha pubblicato uno studio sui farmaci antimalarici che, dice la consorella Science (sciencemag.org), sembravano non solo inefficaci, ma addirittura mortali (MORTALI).
Il 2 giugno, a proposito dell’articolo sugli antimalarici, Lancet ha dovuto pubblicare un EOC (Expression of Concern), ovvero una ammissione di colpa, per aver accolto alla Peer Review e pubblicato un articolo pieno di panzane.
Non sto qui a dilungarmi sulla vicenda, e sul coinvolgimento nell’affare di una presunta pornostar e cose del genere, ci sono persone più autorevoli e titolate di me, capaci di trattare la questione.
Il fatto è che tutta questa vicenda mette in discussione proprio l’autorità di queste persone che dovrebbero distinguere le verità scientifiche dalle stronzate che anche io so sparare. Che fare allora? Come comportarsi, a chi chiedere lumi?
Il comitato di cooptazione di Lancet decide della vita e della morte di intere filiere scientifiche mondiali. Il motto «o pubblichi o muori», noto agli aspiranti professori, non è un modo di dire. Pubblicare un articolo su Lancet o Nature significa davvero vedere la luce, uscire dalle biblioteche e salire in cattedra.
Da una verifica empirica che ho fatto tra alcune mie conoscenze – sparo anch’io un po’ di numeri – in Italia, per vedersi riconoscere un posto di serie B in un’università, bisogna attendere almeno 10 anni dopo il conseguimento della laurea.
Quando ho visto questi numeri (che ripeto non hanno valore scientifico) ho pensato a mio cugino, alla sua voglia di entrare in quel mondo e alla decisione di ritirarsi dalla contesa dopo solo sei mesi di tentativi. Ho sempre pensato che non avesse la stoffa, che si fosse ritirato per paura, consapevole di non di poter colmare la differenza tra lui e i suoi compagni di corso. D’altronde, quando arrivò a Milano, non masticava bene nemmeno l’italiano, figurarsi l’inglese.
Dopo aver visto i numeri, mi sono convinto che la scelta di mio cugino era molto ponderata. Nessuno dei miei cugini, e vi assicuro siamo in tanti, e alcuni hanno un talento speciale, è mai arrivato a occupare una posizione prestigiosa, che so, di professore di diritto canonico, di filosofia morale, di antropologia culturale, di gastroenterologia.
Solo mio cugino Nicola è diventato internista in un piccolo ospedale di campagna. Un figlio di un usciere può aspirare a diventare medico, avvocato, anche imprenditore di successo, ma non può aspirare ad una professione che abbia a che fare con la scienza pura, i diritti dell’uomo, l’antropologia culturale, il teatro o la filosofia tedesca.
Per occuparsi di queste cose bisogna stazionare nel limbo post-universitario per una decina di anni, e avere qualcuno che manda i piccioli. E poi avere la fortuna (ma si tratta di fortuna?) di pubblicare un paper (rigorosamente scritto in inglese tecno-scientifico) su una rivista di quelle che contano, e aspettare che Google Scholar Citations cominci a macinare e contabilizzare la nostra valenza nel mondo delle scienze e delle lettere.
E pensare che Google si era ispirata proprio al sistema del ranking universitario per costruire il suo motore di ricerca! Adesso sono i professori a ispirarsi al modello di business di Google, e se lasciano passare qualche panzana non vuol dire che il loro algoritmo è imperfetto, vuol dire che oggi il mondo va così, che i controllori controllano solo il conto profitti e perdite, del resto non gli frega una mazza.
Il resto, la verità, la scienza, la ricerca, è affare nostro. Solo che a noi hanno levato i soldi per fare andare avanti la macchina. Come diceva Kartana, che citava un suo amico, che citava Virginia Woolf, «non si pensa bene con la pancia vuota».
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