Come presentare “la causa di” tutti i problemi come “la soluzione a” tutti i problemi
Circa due mesi dopo l’annuncio da parte del premier Conte della sua costituzione, la task force guidata da Vittorio Colao ha partorito il suo piano di 56 pagine, diviso in 6 aree di azione (Impresa e Lavoro; Infrastrutture e Ambiente; Turismo, Arte e Cultura; PA alleata di cittadini e imprese; Istruzione, Ricerca e Competenze; Individui e Famiglia) con il programma di ricostruzione, ripartenza e rinascita dell’Italia dopo la pandemia di Covid-19.
Al di là dell’assordante silenzio sul tema della sanità (è bene ricordare che lockdown e relativa crisi economica sono stati causati dall’emergenza sanitaria, conseguenza a sua volta di decennali tagli e privatizzazioni), nei 6 punti del Piano Colao ne appare uno, già nel titolo, più inquietante degli altri “Turismo, Arte e Cultura, brand del Paese”: 5 paginette di cui oltre 4 dedicate al turismo.
Ancora una volta “Arte e Cultura” vengono relegati ad accessorio del turismo, a brand del paese, cioè a retorico marchio di fabbrica, segno distintivo ed esclusivo per la pubblicità e il marketing, “vero DNA del Paese e fonte primaria di attrattività turistica dell’Italia”.
Sotto la voce “Arte e Cultura” anche il più sprovveduto dei lettori si aspetterebbe di leggere ricette e risorse (sia finanziarie che umane) per il patrimonio culturale (musei, biblioteche, archivi, aree e parchi archeologici, dimore storiche, etc.) e per le attività culturali (teatro, cinema, mostre, rassegne, eventi d’arte, etc.). Nulla di tutto ciò.
Nelle poche righe dedicate al tema “Arte e Cultura” si parla di:
-Attrazione di capitali privati attraverso “la creazione di un piano integrato per rafforzare la dotazione dedicata ad Arte e Cultura” ovvero “incentivi fiscali e strumenti di promozione internazionale per sollecitare donazioni e sponsorizzazioni” (praticamente si vuol rafforzare l’Art Bonus, un incentivo fiscale introdotto nel 2014 con la legge sulle “Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo” che consente attualmente un credito di imposta, pari al 65% dell’importo donato, a chi effettua erogazioni liberali a sostegno del patrimonio culturale pubblico italiano, con cui sono stati raccolti negli ultimi anni oltre 400 milioni, confluiti verso progetti e interventi relativi ai principali attrattori culturali del Paese, lasciando a secco il patrimonio meno “famoso” e meno turistico) e “fondi di impact-investing”, ovvero investimenti in cui gli investitori hanno l’obiettivo di realizzare un impatto sociale e raggiungere un rendimento di mercato; anche in questo caso il mercato non potrà che prediligere i grandi attrattori turistici a discapito dei piccoli;
-Riforma modelli di gestione enti artistici e culturali “per permettere un pieno sfruttamento del potenziale del paese e maggior libertà e creatività specifica nelle forme di fruizione” eliminando i “vincoli gestionali attuali (ad es. codice appalti, scadenze concessioni) e favorire iniziative di sviluppo pubblico-privato” e sviluppando “nuovi sistemi di incentivi per le aziende titolari di concessioni al fine di premiare le gestioni virtuose”;
Potenziamento competenze museali per integrare “l’offerta artistica e culturale esistente (ad es. musei) con percorsi formativi universitari o di formazione specialistica”;
Potenziamento competenze di artigianato specialistico con “percorsi di formazione universitaria, creando un archivio digitale delle competenze specifiche e incentivando lo sviluppo di progetti imprenditoriali”.
Con la ricetta Colao torna tutto come prima e peggio di prima.
La task force è risultata sorda e impermeabile all’ampio e variegato dibattito, alle numerose e interessanti discussioni che si sono registrate da diverse settimane su questi temi, solo parzialmente riassunti nella relazione del Consiglio Superiore del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo (consultabile qui).
Ha ascoltato esclusivamente il mondo delle grandi imprese del settore. Nessuna visione strategica. Nessuna idea innovativa. Non si prevede un euro di investimento pubblico per i beni e le attività culturali. Nulla si dice sulla assoluta necessità di implementare le risorse umane e assumere nuove leve, con le dovute competenze, nella pubblica amministrazione, sotto organico da anni, con il rischio paventato (che si fa sempre più reale) di non vedere riaprire al pubblico e ai cittadini molti luoghi della cultura (musei, archivi, biblioteche, etc.).
Ancora una volta, in linea con le politiche più recenti, il Patrimonio Culturale è relegato ad accessorio del turismo, succube delle logiche mercantili e, dunque, delle crisi fisiologiche del mercato (mancano i turisti, mancano gli introiti, dunque cerchiamo di attrare turisti e ritroviamo gli introiti: ne abbiamo parlato qui a proposito di crisi post Covid-19).
Quindi la cultura si conferma come brand nazionale, quale asset da spremere e sfruttare per ricavare soldi e per fare affari privati attraverso la gestione dei luoghi più redditizi, svincolando quanto più le imprese dalle norme del Codice degli appalti.
Un tuffo indietro negli anni Ottanta e nel mito dei giacimenti culturali, ove la “valorizzazione”, da creazione di valore aggiunto in senso culturale ed economico, diviene mero “sfruttamento” (s– privativo e frutto) nella sua accezione negativa, appunto, di levare tutti i frutti: la parte più preziosa dell’albero, con dentro i semi a cui è affidato il futuro.
Il tutto in antitesi al concetto di “eredità culturale” sancito nella Convezione di Faro, di eredità come patrimonio materiale e immateriale di cui prendersi cura collettivamente per consegnarlo alle generazioni future. Un prendere senza dare, come lo sfruttamento del lavoro dei tanti precari della cultura, invisibili alla task force, che più di tutti hanno accusato il contraccolpo della crisi, o dei tanti volontari che, senza dignità, hanno mantenuto in piedi un sistema al collasso e al quale si chiederà ancora una volta di immolarsi.
Senza accorgersi, infine, che il sistema è collassato nel lockdown proprio a causa di queste scellerate politiche degli ultimi decenni, che oggi si vuole replicare e incentivare, in un circolo vizioso senza uscita. Non può che venir in mente di parafrasare il grottesco Homer Simpson con il suo paradossale brindisi dedicato all’alcool: «alla “turistificazione” della Cultura, “la causa di” e “la soluzione a” tutti i problemi!»
* Luigi Di Gioia opera da oltre venti anni nel settore della gestione e valorizzazione dei beni culturali con cooperative e aziende private, associazioni e enti del Terzo settore e a stretto contatto con gli Enti pubblici, occupandosi anche di formazione ed educazione al patrimonio culturale con Istituti scolastici ed Enti di formazione. Ha conseguito diversi titoli accademici e formativi, tra cui una laurea magistrale in “Management dei Beni Culturali” presso l’Università di Macerata, una laurea in “Conservazione dei Beni Culturali” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, un diploma universitario in “Operatore dei Beni culturali” presso l’Università di Bari, un master del FSE attuato dalla Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa presso il Pastis di Brindisi in “Turismo e Beni Culturali”.
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Davide
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