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Il negazionismo storiografico si nutre di dietrologie e complottismi

In un articolo apparso sul manifesto del 9 settembre 2020, Marco Rovelli sostiene che vi sia una fondamentale differenza nella cultura del sospetto che anima gli attuali negazionismi complottisti sul covid, no vax ecc… e la cosiddetta «controinformazione applicata su piani spazio temporali specifici»: strategia della tensione, rapimento Moro, trattativa Stato-mafia (leggi qui).

Questo assunto non è affatto dimostrato, al contrario esistono decisive affinità tra i due modelli di negazionismo: il primo scientifico, l’altro storiografico.

Il dispositivo cognitivo è lo stesso e le tecniche narrative analoghe: false correlazioni, approssimazioni, de relato di “pentiti” spesso attribuiti a defunti, spregio della cronologia e molto altro, condito da un approccio paranoico che rifugge ogni confutazione.

La questione per altro è stata paradossalmente posta proprio al manifesto da un gruppo di storici e ricercatori per quanto aveva scritto sui rapporti tra Br-Sisde in via Gradoli, su alcuni articoli apparsi peraltro in occasione del quarantennale della strage di Bologna (La lettera degli storici e ricercatori contro fake news, dietrologie e complotti nella vicenda Moro)

In passato mi è capitato di sostenere che si tratta del confronto tra due paradigmi contrapposti: uno galileiano e l’altro orweliano.

Dietro la pretesa di svolgere «controinformazione» c’è in realtà un processo cognitivo che ha introiettato una sorta di culto ossessivo dei poteri occulti, dei poteri invisibili. Si tratta di una degenerazione delle vecchie teorie delle élites, che almeno avevano un fondamento nelle matrici sociali ed economiche di società oligarchiche.

L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve “gettare luce” perché “dominata dall’ombra” e dall’invisibile, dal nascosto fino all’esoterico, piuttosto che tentare di andare alla radice, scavare, scarnificare, approfondire, scendere al fondo delle cose, fare l’anatomia della società non l’alchimia, come scriveva Marx,  è divenuto il nuovo modo di giustificare una sorta di contronarrazione che si pretende autonoma, libera e indipendente dai «poteri».

Una visione che ricorda terribilmente le narrazioni reazionarie elaborate contro gli scossoni della modernità politica, e che vide nell’abbé Augustin Barruel un capostipite, con le sue «memorie per la storia del giacobinismo», ridotto ad una cospirazione della setta degli Illuminati di Baviera.

E’ sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni: uno schema cognitivo che riporta all’epoca dell’Inquisizione, ai paradigmi interpretativi che i frati domenicani impiegavano individuando il “disegno del maligno” nei fenomeni incompresi o inaspettati che la società presentava.

L’ idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti, piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade, i luoghi di lavoro, lì dove scorre la vita e si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, è il segno tragico di una malattia della conoscenza.

Che la comprensione della società, del mondo, della storia, si risolva con una risalita verso l’alto, ricostruendo l’ordito della cospirazione, quell’apice dove i burattinai tirano i fili, regolano i giochi, è divenuta una forma di pensiero povero, di semplificazione consolatoria.

Un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione dei poteri del capitalismo attuale, mai rimessi in discussione, che con le dietrologie vuole insegnarci che ribellarsi, non solo non è mai stato giusto, anzi è stato sempre sbagliato perché non è mai servito a nulla, conducendo “inevitabilmente” alla sconfitta.

Ma che – in realtà – dietro ogni ribellione non c’è genuinità, sincerità, ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.

* da Insorgenze.net

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