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Dietrologia e “caso Moro”. La scivolata del Manifesto

Botta si spera decisiva alla “dietrologia” sulla Storia degli anni ‘70, e in particolare sul sequestro Moro e le Brigate Rosse.

Tutto parte da due pessimi articoli apparsi su il manifesto in occasione dell’anniversario della strage alla stazione di Bologna. Come spiega il blog Insorgenze – di cui riprendiamo spesso le pubblicazioni per la precisione delle ricostruzioni/confutazioni – il 2 agosto Saverio Ferrari e Tommaso Di Francesco “rilasciano” nel mezzo della commemorazioni, frasi che evocano intorno a via Gradoli una presunta convergenza tra Br, servizi segreti e fascisti dei Nar.

Se voleva essere una “bomba” giornalistica, è un petardo suicida.

Una ventina di storici e ricercatori – gente che ha compulsato milioni di pagine di documenti sulle Br e quel sequestro (una delle centinaia di azioni di quell’organizzazione, su cui però nessuno solleva alcun “mistero”) – prende carta e penna per spiegare, informazioni documentali alla mano, questa fesseria.

La lettera che inviano all’ex giornale di Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Luigi Pintor (e tanti altri validissimi compagni-giornalisti, tra cui ricordiamo sempre lo scomparso Stefano Chiarini) non viene pubblicata. Quindi è inevitabile che lo faccia qualcun altro, perché una censura sulla ricerca storiografica è inaccettabile per definizione.

Un lancio dell’agenzia di stampa AdnKronos, ieri pomeriggio, rompe il muro di silenzio che come sempre circonda questi temi nel mondo dei media mainstream e dunque eccoci qui a restituirvi le informazioni di cui è necessario disporre se si vuol dire qualcosa di sensato.

Niente è mai perfetto, a questo mondo. E dunque stupisce trovare tra le molte firme in calce alla lettera anche quella di una firma storica dello stesso il manifesto, Andrea Colombo, che si è occupato a lungo e correttamente di Br e sequestro Moro, per poi diventare uno dei primi diffusori tossici della “pista palestinese” per la strage di Bologna (di fatto una diversa ed etero-finalizzata dietrologia, smentita con sentenza della stessa magistratura bolognese, non da qualche “tifoso”).

Una presenza che stona di fianco a quella di ricercatori serissimi e indipendenti, di differenti scuole di pensiero ed opinioni politiche, ma accomunati dalla serena determinazione nella ricerca della verità storica.

Riportiamo qui di seguito prima il testo d’agenzia, che ha sentito tre dei ricercatori interessati, e infine la “lettera scomparsa”.

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La lettera aperta punta a spazzare via una volta per tutte la ‘fake news’ che vuole esistente un legame occulto tra il Sisde e le Br: legame, in realtà, “sempre smentito dalle ricerche storiografiche e dalle risultanze processuali”, si spiega nel documento.

Anzi, “l’attività giudiziaria e delle diverse commissioni d’inchiesta ha accertato che Moro non è mai stato tenuto sotto sequestro nei locali di via Gradoli, che fungevano invece da base per due brigatisti, Mario Moretti e Barbara Balzerani“, scrivono i 23 ricercatori e storici, sottolineando che “l’ultima Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Moro ha addirittura effettuato un’indagine Dna sui frequentatori dell’appartamento di via Gradoli, constatando l’assenza di tracce genetiche riconducibili ad Aldo Moro“.

Insomma, il documento in questione farà discutere, perché lancia un sasso notevole nel “mare magnum delle dietrologie” che, a loro avviso, “hanno deformato le ricostruzioni sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, spesso facendo riferimento al covo brigatista di via Gradoli“.

Purtroppo via Gradoli è stata al centro di falsi misteri e montature – commenta Vladimiro Satta, già archivista del Senato e autore di numerosi saggi sul tema (tra cui ‘Odissea nel caso Moro‘) – Si tratta di falsificazioni che hanno tratto in inganno molti, anche a causa della leggerezza con cui talvolta la stampa le ha diffuse“.

Netto il parere di Elisa Santalena, professore associato di Storia italiana all’Università di Grenoble (Francia). “È sempre più incomprensibile come le fake news (perché altro non sono), continuino a spadroneggiare sulla vicenda del sequestro Moro. Eppure sono passati più di quarant’anni. In ambiti universitari si sdrammatizza il tema, lo si attribuisce alla ‘sensibilità giornalistica’, dunque a criteri sensazionalistici e grossolani. Tutto vero. Ma c’è anche una responsabilità di quei docenti e accademici che hanno supportato, o comunque non adeguatamente contrastato, le ricostruzioni falsate. La partita adesso è suscitare negli studenti una giusta capacità critica, che privilegi la verità alle fandonie dei falsi misteri“.

Tra i firmatari della lettera aperta c’è anche Davide Steccanella, scrittore (suo il saggio “Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata”, Bietti Editore) e penalista di rango (difensore, tra gli altri di Cesare Battisti e Renato Vallanzasca) con il gusto di mettere in fila le contraddizioni:

Dunque, qui ci troviamo di fronte a un tipico fatto che non sussiste. In due righe, tre falsità. Non ci sono i tempi, non ci sono i soggetti e non ci sono le correlazioni. Come mai una cosa così sgangherata ha avuto così tanto spazio? È avvilente come, a distanza di 42 anni, il nostro Paese non sia ancora stato capace di raccontare un periodo importante della propria storia senza ricorrere continuamente a quelle mistificazioni che solleticano il gusto italico per misteri e complotti. Viene da pensare che questo non sia solo frutto di superficialità ma di una volontà ben precisa: ridurre un importante e lungo conflitto sociale (peraltro mondiale) a terrorismo avulso e teleguidato“.

Ulteriori precisazioni arrivano da Paolo Persichetti, ricercatore indipendente (ed ex Br oggi in fine pena), che spiega attraverso quali meccanismi sia oggi possibile fare ricerche più valide sul fronte della lotta armata di quarant’anni fa: “Alcuni recenti aggiornamenti normativi hanno reso più democratico l’accesso agli archivi e quindi alle fonti storiche. Oggi è possibile consultare quei documenti che un tempo erano accessibili solo alla magistratura, alle commissioni parlamentari e una scia di consulenti di partito. Una circostanza che in passato ha favorito una certa opacità e a volte anche la manipolazione, in cui le carte scomode venivano omesse o citate solo in parte. Quel tempo è finito! Una nuova generazione di studiosi non è più disposta ad accettare il ricorso a narrazioni che utilizzano tecniche argomentative come il metodo dell’amalgama, la confusione di tempi e luoghi, l’uso del sentito dire, le correlazioni arbitrarie, le affermazioni ipotetiche, i sillogismi e le false equazioni. Per decenni l’accesso riservato alle carte è stato un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, per tracciare una narrazione ostile alla storia dal basso, con l’obiettivo di negare la capacità dei soggetti di muoversi e pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale. Così si è finiti ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico“.

Più laconico, ma anche più definitivo, il giudizio di Marco Clementi, storico dell’Università di Cosenza e autore di monumentali saggi sulle Brigate Rosse. “Un Paese è libero quando cerca la verità storica. Per farlo serve metodo; il costante riscontro delle ipotesi nelle prove disponibili ne è una parte fondamentale“.

AdnKronos, 17 agosto 2020

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Non se ne può più delle dietrologie sul sequestro Moro, di narrazioni complottiste costruite in spregio dei più elementari criteri logici, prive di correlazioni, del rispetto della cronologia, della verifica delle fonti, di de relato che mettono in bocca a defunti le affermazioni più improbabili e che ovviamente nessuno può confermare o smentire.

Un gruppo di storici e studiosi, con origini, percorsi e orizzonti diversi, hanno detto basta. In una lettera aperta invitano la comunità degli studiosi e il mondo della comunicazione a non avallare più simili approcci e ripristinare il rispetto del metodo storiografico.

La lettera aperta prende avvio dai numerosi resoconti giornalistici apparsi in occasione del quarantennale della strage di Bologna e nei quali, in forma diretta o allusiva, si costruiva un nesso abusivo tra la bomba alla stazione e la vicenda Moro

Diversi organi di stampa insistono nel riproporre ai loro lettori finti misteri e ricorrenti fantasie di complotto sul sequestro di Aldo Moro. È successo anche sul Manifesto del 2 agosto.

In occasione del quarantennale della strage di Bologna, un articolo di Tommaso di Francesco e un intervento di Saverio Ferrari richiamano l’argomento, benché nulla c’entri con il tema affrontato. Ci riferiamo, in particolare, al seguente passaggio «… Catracchia, l’amministratore per conto del Sisde delle palazzine di via Gradoli, dove al civico 96 si trovava il covo Br affittato dall’ingegner Borghi, alias Mario Moretti, dove Aldo Moro fu inizialmente tenuto prigioniero».

È un’affermazione priva di fondamento che induce il lettore a credere accertato un legame occulto tra il Sisde e le Br: legame, in realtà, sempre smentito dalle ricerche storiografiche e dalle risultanze processuali.

Al contrario, l’attività giudiziaria e delle diverse commissioni d’inchiesta ha accertato che l’on. Moro non è mai stato tenuto sotto sequestro nei locali di via Gradoli, che fungevano invece da base per due brigatisti, Mario Moretti e Barbara Balzerani.

L’ultima Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Moro ha addirittura effettuato un’indagine Dna sui frequentatori dell’appartamento di via Gradoli, constatando l’assenza di tracce genetiche riconducibili ad Aldo Moro.

In ordine all’episodio dell’affitto di via Gradoli, c’è da dire che in più Corti di Assise sono emerse chiare evidenze. Ci sembra doveroso segnalarle, le elenchiamo in queste poche righe:

  1. L’ingegner Borghi/Moretti ha affittato i locali di via Gradoli 96 a seguito di normale annuncio pubblicitario nel dicembre del 1975, come risulta agli atti;

  2. I locatori erano i signori Giancarlo Ferrerò e Luciana Bozzi, proprietari dell’appartamento dal rogito avvenuto in data 01/07/1974;

  3. È accertato che si è trattato di una transazione tra privati, senza coinvolgere la figura dell’amministratore;

  4. Il Sisde, il nuovo servizio segreto civile, è stato creato nel 1977, cioè due anni dopo la stipula del contratto di affitto per la base brigatista.

  5. È evidente che il contratto d’affitto tra brigatisti e coniugi Ferrerò non poteva perciò essere implicato con il Sisde, del resto inesistente in quel momento.

  6. Occorre peraltro ricordare che, com’è noto, la base Br di via Gradoli 96 ha cessato di essere “un covo” nel 1978, proprio durante il sequestro Moro.

  7. Per evitare contiguità immotivate e fuorvianti, va sottolineato che la base dei Nar era invece al civico 65 di via Gradoli e comunque il loro soggiorno risale al 1981. Un altro estremista di destra aveva in realtà abitato in via Gradoli 96 – Enrico Tomaselli di Terza Posizione – ma nel 1986, cioè molti anni dopo i fatti in oggetto. Per completezza documentale, va comunque precisato che non si trattava dello stesso vano occupato a suo tempo dalle Br. Infine, risulta che ad affittare il monolocale al Tomaselli non sia stato l’amministratore Catracchia ma un altro estremista di destra figlio di un magistrato di Cassazione: Andrea Insabato, proprietario del piccolo appartamento e peraltro futuro attentatore alla sede del Manifesto nel dicembre 2000.

  8. In ogni caso, anche i presunti 24 appartamenti legati a diverse società immobiliari – che in modo sbrigativo e arbitrario vengono attribuite ai Servizi – sono acquisiti negli anni successivi al sequestro Moro.

  9. In particolare, sono agli atti le proprietà immobiliari di Vincenzo Parisi, nel 1978 questore di Grosseto, dal 1980 in organico al Sisde (di cui diventa direttore nel 1984) e nel 1987 capo della Polizia.

  10. L’intensa attività immobiliarista del dirigente Parisi, con gli appartamenti intestati alle figlie Maria Rosaria e Daniela, non sembra richiamare reconditi misteri. Ad ogni buon conto, sono fatti notarili riguardanti il civico 75 che ricorrono una prima volta un anno e mezzo dopo il rapimento Moro mentre i successivi, inerenti al civico 96, avvengono oltre la metà degli anni 80: quattro e nove anni dopo la stipula del contratto di affitto del 1975 da parte delle Brigate Rosse.

  11. Quando si tratta dell’immobile di via Gradoli queste date abitualmente non vengono segnalate ai lettori. E invece, in questa come in molte altre occasioni, la precisione sui tempi cronologici è necessaria per un’interpretazione ponderata dei fatti ispirata al metodo storico. Un’analisi corretta dei tempi, delle fonti e del nesso causa-effetto smentisce seccamente ogni possibile coinvolgimento di entità non riconducibili alla lotta armata intrapresa dalle Br nel lontano 1970. Denunciamo pertanto il mancato rispetto dei più elementari criteri di verità e di logica nella ricostruzione di eventi e circostanze, una degenerazione particolarmente grave della e nella stampa italiana.

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2 Commenti


  • Giovanni Lamagna

    Affermare che tra BR e Servizi segreti italiani (e/o stranieri) esistesse un legame occulto, ma consapevole e dichiarato, è anche a mio avviso (che non ho certo le competenze storiche né per affermarlo né per negarlo; ma a lume di naso così mi appare) una grande sciocchezza.

    A maggior ragione lo è l’affermazione che i vari attentati organizzati dalle Br nei famosi “anni di piombo” (in primis quello contro Aldo Moro) siano stati ideati dai servizi segreti e che abbiano trovato nelle BR solo il braccio operativo.

    Altra cosa, però, è immaginare che i servizi segreti (in qualche modo) infiltrati abbiano utilizzato le azioni (del tutto autonome) delle BR verso fini e obiettivi che avevano tutt’altra natura da quelli per cui si battevano le BR.

    Questa ultima ipotesi di lavoro e di studio a me sembra meno bizzarra delle prime due e tutt’altro che incredibile e insostenibile sul piano storiografico, a giudicare dalle oggettive convergenze sociopolitiche (di natura congiunturale e tattica, pur nella totale divergenza delle strategie) che all’epoca BR e servizi segreti vari potevano avere.

    Giovanni Lamagna


    • Redazione Contropiano

      Detto così non significa nulla. Si alza un po’ di più il livello del polverone e dell’indimostrabilità della tesi. Infatti, non si potrebbe portare nessun fatto, evento, testimonianza, documento (i materiali della ricerca storica) a favore o contro. Se, come accade in ogni conflitto – politico o guerreggiato che sia – ognuno gioca seriamente la propria parte, tenderà a sfruttare i movimenti dell’avversario e viceversa. E chi vince sarà stato il più forte o il più abile. Da qui a immaginare “oggettive convergenze” il salto logico è arbitrario come ogni immaginazione “narrativa”. Ossia buona per fare fiction e letteratura, non Storia.

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