Il padre lo vedeva come futuro orologiaio ma, fin da giovane, Arthur Penn era attratto dalle arti audiovisive, dapprima il teatro e poi il cinema.
Nato a Filadelfia il 27 settembre 1922, poco più che ventenne comincia a recitare nella compagnia di Joshua Logan e negli anni ’50 si perfeziona come regista lavorando a lungo per importanti reti televisive. Inoltre frequenta l’Actors studio di Lee Strasberg e nel 1958 realizza la sua prima regia teatrale: Two For The Seesaw di William Gibson, con Anne Bancroft e Henry Fonda.
Successivamente mette in scena un altro lavoro di Gibson, Anna dei miracoli, una commedia che lo coinvolgeva particolarmente perché ne aveva curato l’adattamento televisivo (con Teresa Wright) e che porterà sullo schermo nel 1962, dove a tutti i costi volle la Bancroft nonostante i produttori preferissero Audrey Hepburn.
L’attrice si aggiudicò l’Oscar per il ruolo dell’istitutrice Annie Sullivan che riesce a far “conoscere” il mondo a una bambina cieca e sordomuta. Il suo debutto alla regia cinematografica con Furia Selvaggia – Billy the Kid (1958) era passato quasi inosservato nonostante la presenza di Paul Newman.
Fu un grande stimatore di Jean Luc Godard e di François Truffaut e nel suo terzo film, Mickey One (1965), cerca di riprodurre l’atmosfera europea. Durante la lavorazione diventa amico del protagonista, Warren Beatty, che di lì a due anni gli proporrà di girare Gangster Story (1967).
Malgrado le scene di violenza e la sparatoria finale in cui vengono uccisi Bonnie e Clyde, il film è un fiume in piena di passione e sentimento, ingredienti a cui Penn non rinuncia mai, nonostante il suo cinema sia caratterizzato dalla tensione, dalla denuncia e dalla morte. Si pensi alla faccia tumefatta dello sceriffo Calder-Marlon Brando in La caccia (1966) che non riesce a salvare l’evaso Robert Redford dal suo tragico destino.
Il film è una spietata e dettagliata denuncia della società americana, all’interno della quale si tenta di esorcizzare l’inettitudine, il conformismo e il cinismo attraverso la creazione del tabù che, nel caso specifico, è rappresentato dall’evaso.
Negli anni in cui il mondo è incendiato dal vento del Sessantotto progetta un film sulla conquista del West e rilegge la storia americana attraverso gli eccidi del generale Custer. Dustin Hoffman è Piccolo grande uomo (1970), l’ultracentenario che ricorda come si è salvato dalla battaglia di Little Big Horn e il suo vagabondare tra i visi pallidi (a cui appartiene per nascita) e la tribù Comanche (a cui appartiene per formazione e cultura).
Per Alice’s Restaurant (1969) Penn utilizza quasi esclusivamente non professionisti pur se nel corso della sua carriera può dirigere sempre grandissimi attori, come Marlon Brando e Jack Nicholson in Missouri (1976).
Successivamente, si allontana dal cinema per dedicarsi ancora al teatro, ma negli anni ’80 torna dietro la macchina da presa per raccontare la vita di alcuni immigrati in un’America dei primi anni ’60 (Gli amici di Georgia, 1981). Diventato direttore dell’Actor’s Studio, nel 1996 gira, in Sudafrica, Inside, una storia sull’apartheid, mentre continua sempre più a prendere le distanze dall’industria cinematografica hollywoodiana.
Arthur Penn muore a New York il 28 settembre 2010. Ha rappresentato uno dei più significativi esempi dell’altra faccia del cinema americano. È tristemente noto che gli Usa continuino a voler essere un modello sociale, culturale e economico da esportare in tutto il mondo. La libertà, l’eguaglianza e il potere – come li raccontano i prodotti cinematografici e televisivi – hanno invaso l’Europa e tutto il mondo provocando contraddizioni e false illusioni.
Gli Usa, partendo da una logica etnocentrica, basano la loro legittimazione sulla possibilità di esportare tranquillamente il loro modo di vivere, contraddizioni incluse. In ottemperanza a tale logica tutto confluisce in un sistema di accumulazione-differenziazione. Se la Cia fa il golpe in Cile gli Usa producono il film Missing, un atto di accusa nei confronti … delle complicità americane.
Questo è spiegabile in base alla logica del profitto e dell’accumulazione per cui anche il prodotto culturale diventa una merce di scambio attraverso i contenuti sviluppati; quindi, non importa che Platoon ed Easy Rider – o molti film di Penn – siano critici nei confronti dell’America: conta solo che il prodotto venda, tanto i contenuti espliciti saranno successivamente riassorbiti.
Il rapporto che si instaura verso questo tipo di cultura “alternativa” rientra essenzialmente in una logica di tipo economico. Platoon non è stato fermo tanti anni alla sceneggiatura perché aveva contenuti pericolosi – come ingenuamente sostenne certa sinistra italiana – ma molto più semplicemente perché rappresentava un’incognita dal punto di vista economico.
Alcune volte l’industria cinematografica Usa produce film con contenuti diversi ma raramente film diversi. Infatti un film si diversifica e si caratterizza non tanto dal punto di vista dei contenuti ma dalla modalità di presentazione dei contenuti stessi.
Arthur Penn ha fatto sicuramente un cinema diverso perché non schiacciava l’occhio a meccanismi di partecipazione identificativa, che tolgono allo spettatore la possibilità di un’analisi distaccata e critica, ma si limitava a presentare l’azione nel luogo e nel tempo.
Nel film La Caccia il fatto che tutto sia convogliato vero il rogo finale è una indicazione del tipo di denuncia che il regista intende effettuare. Tutta l’azione si svolge in una logica metaforica fino all’epilogo con l’inevitabile dramma.
Il regista offre pochissime indicazioni relative all’evaso, ma focalizza l’attenzione sulle reazioni che la sua evasione ha provocato nei concittadini. Marlon Brando, ad esempio, non è uno sceriffo senza macchia e senza paura, ha avuto l’incarico grazie all’intervento del padrone del paese e quando si rende conto che il suo lavoro è funzionale al potere lascia l’incarico.
Il cinema di Arthur Penn ha rappresentato una spietata critica al “sogno americano” ed è stato un funzionale strumento in grado di offrire significativi spunti di riflessione sulla modalità di distribuzione dei ruoli all’interno della società capitalistica e sulla ipocrita pace sociale sancita dallo “status quo”.
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SE TIRAR CALCI ALLE PALLE SIA MOLTO AMERICANO/AMERIKANO
A completare o forse in parte contraddire le valutazioni di Chief Joseph vale riportare alcune frasi di un breve commento di db – I calci traditori di Arthur Penn – dopo la morte del regista.
«Ho amato Penn, come tante/i, per i film che sono stati ricordati in questi giorni, da “Il piccolo grande uomo” a “Gangster Story” a un western insolito come “Missouri”, al rivelatore “La caccia” e al potente “Furia selvaggia” che smonta e rimonta il mito di Billy Kid. Ma anche stavolta è stato quasi rimosso, o citato solo di sfuggita, un piccolo capolavoro (del 1981), “Gli amici di Georgia”.
Non sono il solo a pensare che sia un gran film: Morandini gli assegna tre asterischi e mezzo, scrivendo “Uno dei migliori film di Penn – e il più sottovalutato – per il sagace equilibrio tra dramma e commedia, nostalgia e riflessione critica, fine delle illusioni e crisi di tutta una generazione; e per la sapienza con cui sa iscrivere i processi storici nella vita dei personaggi”.
E’ esattamente così che lo giudicai quando lo vidi e lo ricordo anch’io per queste ragioni. Se la memoria non mi tradisce, proprio verso la fine del film, il difficile cammino di “integrazione” del protagonista (figlio di immigrati jugoslavi) si completa con un calcio da lui sparato a tradimento in una rissa e la sua frase “finalmente sono americano anch’io”.
Il regista non ci spiega – siamo in un equilibrio fra dramma e commedia, ricordate? – se essere americano (amerikano) significhi prender parte alle risse o sparare calci a tradimento. Mi pare che il cinema di Penn sia stato molto americano in tutti i sensi: anche per i tanti calci sparati a tradimento contro mamma Hollywood».
** da La Bottega del Barbieri
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