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La città che lo ha accolto come uno di casa, non solo come il dio del pallone. Da qui, giustamente, arrivano decine di omaggi, che testimoniano di un rapporto miracoloso e raro in quello che in genere è solo un business ideologizzato.

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Diego e io

Arrivò in estate, era il 1984. Ero solo un quindicenne e ricordo ancora i caroselli d’auto, i tuffi nelle fontane, all’annuncio dell’avvenuto acquisto. In realtà già da settimane vicoli e strade erano piene di sue immagini, di gadget di tutti i tipi con il suo volto.

Il manager di Diego si era lamentato di ciò perché i prodotti che sfruttavano la sua figura erano sottoposti a stretto, e danaroso , copyright. Se ne fece in seguito una ragione.

Insomma neanche era arrivato e a Napoli si festeggiava come a una vittoria sportiva. Si perché appariva veramente incredibile che “ il più forte calciatore del mondo” venisse proprio a Napoli. No a Torino no a Milano ma a Napoli. Pazzesco.

E me ne resi conto ancora meglio perché ad ottobre di quell’anno con la famiglia ci trasferimmo a Bergamo. Per me , tra i vari dolori del lasciare la città natale, c’era anche quello di non potermi godere le gesta del campione. Mi dicevo, con la mia ingenuità da adolescente: ma come a Napoli arriva Maradona e noi ce ne andiamo?

In realtà vivere a Bergamo ti dava la possibilità di vedere un sacco di partite del Napoli. Milano a pochi km, Atalanta, Brescia e Como in serie A. A volte pure la Cremonese. Verona a un’ora soltanto di treno. E Torino non lontanissima da andare ad espugnare.

L’11 maggio dell’87, il day after, a scuola il professore di latino accettò la mia richiesta di non essere interrogato perché ero campione d’Italia. “Mi sembra giusto”, disse il simpatico prof orobico.

Si perché era chiaro a chiunque che vincere a Napoli non era la stessa cosa che vincere altrove. Nessuna squadra del sud lo aveva mai fatto. Persino la piccola Verona ci era riuscita ma noi no.

Per un pischello come me, catapultato nella ricca Lombardia, allora attraversata dai primi deliri leghisti e con i canali Fininvest già a pieno regime, era difficile parare sempre le cazzate su Napoli e sui meridionali in genere.

Il primo giorno di scuola che feci a Bergamo, un ragazzo mi chiese se fosse vero che quando passava il boss per strada dovevamo assolutamente salutarlo. Insomma mi chiedevano cose così. Mio padre fin quando non cambiò la targa dell’auto, che era NA, aveva sempre gente che gli suonava addosso. Appena mise quella BG i clacson cessarono.

Mio fratello che faceva le scuole medie andava ogni giorno a botte con qualcuno perché lo sfottevano in quanto napoletano e terùn.

E Diego, da ragazzo sveglio e intelligente, seppe interpretare benissimo questi umori. Sia di chi a Napoli ci viveva sia di chi era dovuto andato via.

Una volta in un’intervista affermò che gli bastarono poche trasferte per capire l’andazzo generale che vigeva in Italia. Un’odio contro Napoli e contro il Sud che da argentino faticava a comprendere. Capì subito che una vittoria del Napoli non era solo un fatto sportivo ma la rottura di un tabù. Un capovolgimento di prospettiva assolutamente non previsto. Una forzatura culturale.

Basti pensare che il tanto lodato Gianni Brera, al tempo, scriveva e pontificava alla Domenica Sportiva che anche con Maradona il Napoli in quanto squadra del Sud non avrebbe mai potuto vincere uno scudetto. Perché per vincere servono organizzazione e disciplina che i napoletani non hanno, in quanto più inclini a mettersi al sole e mangiare gli spaghetti. Quanto lo schifavo Gianni Brera.

Ancora a distanza di tanti anni sembra incredibile quel processo d’empatia che si stabilì tra un ragazzo proveniente dalle favelas di un altro continente e la popolazione napoletana. E proprio per questo fu un giocatore odiatissimo. Perché difese, non solo sportivamente, la città.

Io sono tra quelli che, nell’estate del ’90, nella semifinale dei mondiali tra Italia e Argentina esultò al gol di Caniggia. Come tanti napoletani preferivo la vittoria di Diego a quella della nazionale di un paese che ci discrimina e infanga e che, per quanto mi riguardava, aveva costretto la mia famiglia a lasciare Napoli.

Avevo già festeggiato nell’82. Poteva bastare. Allora ancora ci credevo che siamo tutti “fratelli d’Italia”. Allora forse ci credevamo un pò tutti. Poi ho capito che noi eravamo i fratellastri.

La partita si giocò proprio a Napoli. Da allora la Nazionale italiana ha sempre evitato di giocare partite importanti al San Paolo. Considerato troppo poco nazionalista. Troppo napoletano. Quindi poco italiano.

Diego, poi, è uno dei pochi eroi giovanili che col tempo non mi hanno deluso. Anzi col passare degli anni, in contemporanea con il mio impegno politico e la conseguente crescita culturale, l’ex ragazzo di Buenos Aires ha dato ampie soddisfazioni.

Questa volta lontano dai prati verdi di gioco. Ma vicino alle popolazioni oppresse. Ai paesi sotto attacco dall’imperialismo statunitense. Utilizzando la sua enorme popolarità per sostenere i processi sociali di ispirazione socialista. Con Fidel, con Chavez, con Maduro, ma anche con Lula.

Niente male per un tipo considerato poco più di un tamarro. Per uno che “è solo un drogato”, un alcolizzato.

La sua fragilità, i suoi eccessi, le sue buffonerie sono stati invece elementi a tutto tondo di un personaggio comunque unico. Eroe e martire contemporaneamente. Vittima di uno showbiz violento e tritatutto come quello del football. Che ti innalza per meglio guadagnarci e che poi ti butta via se non sei più utile alla causa del profitto.

E’ caduto rovinosamente, poi ha scoperto che esiste tutto un mondo che fa altro che inseguire un pallone, e si è rialzato. Per cadere ancora e ancora perché il ghetto dove sei cresciuto non è solo un luogo fisico ma uno state of mind.

Sono pochi anzi pochissimi i campioni sportivi che hanno avuto una così forte rilevanza extrasportiva quanto Diego. Viene in mente di primo acchito Mohammed Ali. Ma Alì era ideologizzato strutturalmente, Diego invece no. Il bambino d’oro ha fatto tutto da sé, seguendo il cammino tracciato dal connazionale Che Guevara. Il suo tatuaggio più famoso.

Ciao Diego. Voglio infine ricordarti in quella fantasmagorica e allucinante conferenza stampa, da CT dell’Argentina. Con una qualificazione ai mondiali ottenuta all’ultimo minuto. Ti rivolgesti ai giornalisti, che per settimane ti avevano dipinto come incapace e inadatto, dicendogli soltanto: solo tienes que chuparlo. Appunto .

Ivan Trocchia

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Monoteismo maradoniano

Gli dei, ora, stringeranno la mano del dio monoteista. Addio genio maledetto. Porterò in eterno, nei miei occhi, l’incanto sublime della tua poesia scritta coi piedi. E sulla pelle, il gelido fremito che mi avvolgeva un attimo prima che il magma infuocato del goal travolgesse i sensi e l’intelligenza. Fino a perdersi nell’estasi idiota dell’orgasmo.

Eri la vita che celebra la morte. In ogni suo palpito. Eri il Kairos che si fa eterno. L’atto in cui si smarrisce e si smemora l’azione.

Resterai per me Dioniso con un pallone tra i piedi. Musica, immagini, versi scritti su un foglio d’erba verde. Il riscatto mai domo di un niño che dalle favelas argentine è partito e ha scalato il Machu Pichu. Sfidando il potere delle sacre icone del Calcio.

E ha vinto, perché mai ha voluto sedersi a quelle tavole imbandite di nulla. Preferendo le periferie inzaccherate di fango e di pioggia alle celebrazioni squallide di mediocrità vendute in sovrapprezzo.

Nel cuore il Che, nelle mani il dolore, nella testa la coca e nei piedi Rimbaud. Ti ho amato come fossi il primo amore. Ti ho odiato come se a letto ti fossi portato mille uomini. Ho pianto e ancora piango, quando ti vedo volteggiare folle sui campi. Come un Nureyev su puma e bulloni.

In questo presente che ha cancellato Mito e Memoria, tu sei l’ultima Leggenda. L’ultima Memoria di un mondo a dimensione d’Uomo. Poeta e guerriero di uno sport che fu. “Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”, diceva Nietzsche. E tu, tra gli astri cosparsi di bianchi cristalli, hai danzato eiaculando gioia e tragedia.

Ciao Diego!

Vincenzo Morvillo

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L’ultima finta1 di Maradona

Cos’è una finta? E’ far pensare all’avversario di andare da una parte e invece andare ad un’altra. E’ far pensare all’avversario di toccare un pallone e farlo rimanere invece nello stesso posto. E’ far pensare al portiere di mandare il pallone da un lato e mandarlo invece dall’altro. E’ far pensare di voler stoppare un pallone ed invece lasciarlo passare.

E’ far pensare all’avversario che la realtà andrà in un certo modo e mostrargli invece che può andare in tanti modi diversi. E’ far vedere che il futuro è pieno di possibilità non indagate.

Essere un fuoriclasse come Maradona nel mondo del calcio (e l’analogia la facciamo non con Pelè, ma con Garrincha2, anche lui morto prematuramente) è stato un modo di rifiutare la realtà e questo tempo che opprime.

Per lui il talento con le sue finte e le sue magie è stato un modo per fuggire dalla miseria, poi per scappare da una mentalità conformista, infine da un calcio sempre più burocratizzato e corrotto.

Maradona non era un imperatore indiscusso come Pelè3, non un leader riconosciuto come Platini, non un professionista postmoderno come Messi. Maradona era uno sciamano, un borderline, un visionario che andava a giocare partite impossibili per gli amici (spesso discutibili) nei campetti fangosi della provincia di Napoli4.

E a Napoli aveva trovato la follia, la pentola magica dove far fruttare il suo talento e farne un messaggio per l’umanità intera.

Non a caso frequentava Fidel Castro5 e Chavez6: aveva bisogno di un oltre dove lanciare il pallone del destino, il suo e quello di un esercito di appassionati che aveva capito che lui non era solo un calciatore, ma un poeta maledetto, un bestemmiatore che stringeva il rosario nelle mani sempre pronto a combattere con Dio e con qualsiasi autorità.

E’ rimasto famoso per le sue punizioni7, dove aggirava qualsiasi barriera, per i suoi cross con l’esterno del piede o di tacco8 quasi ad accarezzare qualsiasi pallone, con i suoi gol da quaranta metri9 come a dire che non c’è distanza che la magia non sappia percorrere.

Ma il ricordo più vivo che abbiamo di lui è quello della mano che ruba il primo goal all’Inghilterra nel 198610. Un gesto con cui è andato oltre il calcio.

Un gesto scorretto, certamente, ma al tempo uno sberleffo verso una nazione che rappresentava la tradizione ma anche l’arroganza calcistica11, una nazione che con la Thatcher aveva fatto guerra proprio all’Argentina12 (sia pure quell’Argentina indegna dei colonnelli), una nazione che rappresentava per il mondo di lingua spagnola un nemico irriducibile a cui non si concede nemmeno la correttezza.

Poi al poeta hanno tarpato le ali, prima con la storia del doping, poi riducendolo a rinserrarsi in qualche modo sempre di più, facendolo goffamente zampettare come l’albatro di Baudelaire13 per qualche lustro.

Forse chissà, morti Fidel e Chavez, ha pensato a quell’oltre verso cui lanciare il pallone. Ha capito che con il suo corpo ingrassato non poteva arrivarci. Ed ha progettato l’ultima rete, quella della vittoria definitiva.

Infatti ci aveva fatto pensare che l’operazione alla testa di pochi giorni fa14 fosse riuscita ed invece ha fintato ed è andato verso la libertà della sua anima, ormai detenuta da un corpo che si lesionava sempre di più e da un mondo che mortifica la fantasia e l’immaginazione.

Con un arresto cardiocircolatorio ha stoppato magicamente il pallone discendente della sua vita, ha dribblato come contro l’Inghilterra15 tutti quelli che lo ostacolavano16 e si è proiettato in rete verso la leggenda.

Italo Nobile

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