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Cultura e formazione piegati al pensiero unico sono una umiliazione per i giovani

Al centro delle tematiche affrontate in questo intervento vi è la cultura, intesa da noi in termini gramsciani e non in termini di studio puramente divulgativo, quantitativo e certificato dalle compatibilità di sistema. Oggi anche all’interno delle scuole e delle università si è passati da una comunicazione sociale, o comunque di massa, ad un linguaggio più specifico: quello aziendale e tecnicistico (“credito” e “debito formativo”, ad esempio).

Questo perché si cerca di mercificare il linguaggio utilizzato dagli studenti trasformandoli, seguendo le logiche del pensiero unico, in veri e propri “clienti. Ed è quello che già negli anni 2000 Alessandro Mazzone, nel libro Comunicazione Deviante, cercava di anticipare e che noi (Luciano Vasapollo insieme a Rita Martufi) riaggiorniamo nel 2018 in “Comunicazione deviante. Gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore”.

Una tematica che rimanda inevitabilmente al pensiero gramsciano che già a inizio secolo XX parlava della comunicazione e propaganda fascista mirata ad «ammaestrare il gorilla».

Oggigiorno, nella continuazione di base del servilismo delle menti, dobbiamo far sì che questi “gorilla” invece di farsi ammaestrare cerchino una loro identità, un proprio percorso, e creino una nuova modalità per la costruzione di un’unità di classe e del lavoro nella sfera non soltanto della produzione diretta ma anche in quella della distribuzione, dei servizi, delle tecnologie, della scienza, del consenso di mercato etc.

Dal momento che anche il settore della cultura, della formazione, dell’istruzione verrà totalmente inserito nelle logiche di profitto tipiche del Modo Di Produzione Capitalistico (MPC) si arriverà a sempre più a creare il servilismo del capitale intellettuale omologato; la conoscenza e i saperi diventano dunque comunicazione (deviata) che viene inserita nel plusvalore.

Infatti l’attuale fase di mondializzazione capitalista si caratterizza per l’uso intensivo della scienza e della tecnologia inserite però nella sola ottica della produzione capitalistica per il profitto. Questo per giungere ad un’implementazione della conoscenza come fattore produttivo fondamentale e come elemento di vantaggio competitivo.

Attraverso la messa a produzione della comunicazione, si sperimentano nuove modalità per la gestione del controllo delle menti, ovvero per costruire un lavoratore tipo che risulti essere sul piano produttivo e ideologico un subalterno agli interessi del MPC.

Quest’attacco culturale e massmediatico, si va ad inserire nel contesto di piena crisi globale aumentando la sua dimensione, già grave, nel conflitto di classe, nel conflitto militare, nel conflitto economico, sociale e ambientale.

Viene proposta dall’alto una neutralizzazione della scienza per arrivare a negare questi conflitti e le contraddizioni che muovono la cultura e la storia stessa. Non vogliamo con ciò opporci allo sviluppo della scienza, che deve continuare il suo libero cammino per non rimanere intrappolata nell’uso e nel controllo politico capitalista ed essere quindi utilizzata con lo scopo unico di estrapolare profitto, bensì sosteniamo che il suo utilizzo deve continuare a vivere in funzione della ricerca di risoluzioni ai bisogni collettivi.

Mino Carchedi, carissimo amico e studioso marxista, sostiene che: «contrariamente a quanto proposto dai sostenitori di nozioni quali “la Nuova Economia”, o “la Società dell’Informazione” o “la Società dei Servizi”, che presumibilmente sarebbero basate sul potere e sulla creatività del lavoro mentale, la stragrande maggioranza dei lavoratori mentali non sono produttori indipendenti, liberi di creare teorie, scienze, tecniche etc. Piuttosto, essi sono soggetti al dominio del capitale.

Più precisamente, sono i capitalisti che decidono quali creazioni mentali devono essere prodotte dai lavoratori mentali e i lavoratori mentali non solo devono produrre quanto loro richiesto ma sono anche assoggettati al controllo e alla sorveglianza dei capitalisti (o chi per loro) e quindi alle nuove e vecchie forme di dominazione menzionate più sopra.

Per esempio, il lavoro mentale, come quello materiale, è assoggettato a continue ondate di innovazioni tecnologiche e ristrutturazioni che, tendenzialmente, dequalificano le mansioni dei lavoratori mentali […]».

C’è bisogno, dunque, che si formino nuovi soggetti di classe in un nuovo blocco sociale, che in un contesto storico e politico in cui si cerca di indottrinare cultura e conoscenza, agiscano in nome della storia e della Rivoluzione sociale e intellettuale.

Bisogna lavorare per escludere dal dominio culturale l’impostazione antidemocratica del pensiero unico, andando a riconsiderare e rivalorizzare il cosiddetto lavoro mentale, a carattere sociale, riaffermando il ruolo prezioso e principale che la cultura popolare e di classe ha sempre svolto, dal dopoguerra fino ai giorni nostri.

Nonostante sia evidente che il MPC abbia fallito sul piano del conflitto capitale-lavoro e capitale-ambiente, e nella gestione delle contraddizioni a ciò correlate, vediamo che continua invece a guadagnare terreno tramite una continua comunicazione deviante, utilizzando strumenti che sono nati dal più recente sviluppo tecnologico e che si sono inseriti nel dossier delle “armi capitaliste”.

Il MPC si serve dunque dei mass media come arma distruttiva e distorsiva del sapere; pertanto, dobbiamo riappropriarci della scienza, dei libri, della storia, della filmografia e dei saperi popolari, per non cadere nell’oblio dell’omologazione mainstream.

Recentemente al Faro di Roma ho voluto dichiarare l’amore per la cultura di classe, l’università del sociale, nonché per il lavoro per tutti e socialmente utile. «Noi cerchiamo di sollecitare una nuova cultura. Gli studenti sono spesso bombardati dalla cultura che permea questa società, la cultura del Grande Fratello, la cultura del centro commerciale, de L‘isola dei famosi, dell’individualismo sfrenato, del corri da solo, dell’essere il furbo, del non appartenere alla comunità. Ma non è vero che non sono interessati: noi abbiamo molti studenti che studiano che riconoscono il tuo lavoro.

Mi scrivono in continuazione mail ringraziandomi per l’educazione e per la passione che ci metto […]. Io dico no alle remunerazioni del diritto d’autore perché non voglio in nessuna maniera che la cultura vada a incrementare quella che è la logica del profitto delle multinazionali. Noi dobbiamo invece far sì che la nostra cultura esca dalla produttività dall’economia e diventi così una relazione di sviluppo fra popoli».

I brevetti, ricordiamo infatti, sono la nuova metodologia del controllo produttivo delle menti. Non bisogna essere assolutamente contro il diritto intellettuale d’autore, bensì contro la commercializzazione dell’opera e dell’ingegno che deve essere necessariamente patrimonio collettivo.

È stata la più recente pandemia da COVID-19 a dimostrare l’importanza della condivisione dei saperi, non sottomessi al dominio della brevettabilità e dei diritti d’autore, che negano la socialità e la diffusione delle conoscenze; bensì come bene collettivo che permette il superamento di ostacoli e problematiche in un’ottica di complementarità.

Inoltre vogliamo mettere in collegamento tutte le figure della classe sociale, ormai spezzettata, in un’unica fabbrica sociale. Dai lavoratori del porto di Livorno o di Genova, che bloccano il traffico delle armi rischiando il loro posto di lavoro per un giusto ideale, al professore che cerca di spiegare in maniera scientifica come il processo di proletarizzazione parta dalla concezione del materialismo storico ma soprattutto dal materialismo dialettico.

L’exit strategy a cui facciamo riferimento nel titolo, si trova dunque inevitabilmente nel materialismo storico e dialettico. Una storia che non può essere negata, ma che deve essere vissuta, conosciuta e se necessario per il futuro, come in questo momento, cambiata in meglio attraverso la ricerca e la scienza che rimangono strumenti di cooperazione fondamentali e necessari di questo grande paese che è il pianeta Terra. Per comprendere la logica del mettere a tacere, ricordiamo il clima di tensione che si è venuto a creare pochi giorni prima di quest’incontro in Francia e nel nostro paese.

Lo Stato dopo quasi mezzo secolo torna sull’area francese dei rifugiati politici italiani, richiedendo l’estradizione di compagni, che negli anni ’70 avevano chiesto e ottenuto asilo politico, per imporgli pene comminate dai tribunali speciali cinquant’anni fa; oppure irrompono in casa di Paolo Persichetti, perquisiscono e portano via libri e materiale archivistico, trattando coloro che sono stati parte attiva della storia politica di questo paese come fossero componenti di bande criminali. L’accusa principale che si rivolge a Paolo è quella di divulgazione di materiale riservato, quando in realtà è stato ottenuto previa autorizzazione da pubblici archivi.

La verità è che in quegli anni molti si sono contrapposti alle stragi, alle bande fasciste, ai servizi segreti deviati, allo stragismo impunito del paese e quindi lo Stato delle stragi, definito ormai Stato “della vendetta” torna per farla pagare a una generazione di rivoluzionari, il loro è una sorta di richiamo all’ordine, al quale non intendiamo rispondere.

Non si può lasciare un buco nero della storia di quegli anni, non si possono censurare o ritirare ricerche storiche, studi, racconti di quei giorni. Dobbiamo combattere, impegnarci, come suggerisce Contropiano: «in una giusta battaglia di civiltà, perché pensiamo che il vero motivo per cui si insegna, si indaga, si narra la storia è perché questa fornisce un’identità, ci dice cosa siamo oggi e da dove proveniamo. Anche quando la provenienza è scomoda. Pensiamo che il passato ci strutturi come individui attivi e partecipanti in un contesto sociale, mentre l’assenza di memoria storica ci rende manipolabili».

Questa è un’intimidazione politica che volge il mirino anche ai nostri ragazzi, ai disoccupati, ai senza casa e a tutti coloro che cercano di creare un fronte collettivo per un’alternativa. Ma continueremo lo stesso a raccontare la storia di classe, la storia del proletariato, questa è la Vera storia che ha fatto la differenza e che può fornire la spinta per un’ulteriore rivolta di classe e noi proseguiremo divulgandola e sostenendola.

Bisogna divulgare questi pensieri, bisogna dire esplicitamente che esistono valide alternative. I ragazzi di questa generazione devono essere parte integrante della classe che continua la nostra esperienza culturale, sociale, politica e sindacale, ognuno nel proprio contesto, ognuno con i mezzi suoi, ognuno nelle proprie forme e nei modi che il contesto sociale e politico dà, senza miti e senza estremismi.

Non c’è inoltre ad oggi un’offerta di lavoro che si presenti ai giovani, che renda le loro menti partecipi e attive, al contrario le nuove generazioni vengono colpite da disoccupazione e precarizzazione del lavoro che rendono incerto e instabile il loro futuro, delineando ancora una volta la subalternità della classe proletaria. Il problema per i giovani non è solo salariale, vi è una vera e propria umiliazione in termini di possibilità di vita poiché per la prima volta una generazione non sa dove volgere lo sguardo, c’è una sorta di apatia, di limbo, dove i giovani cadendo non riescono ad uscire dalla cultura dell’ignoranza, ovvero la cultura neoliberista. In questo modo si riesce, attraverso l’indebolimento delle menti, a manipolare l’agire umano per incanalare anche la forza mentale in un’unica direzione, quella del profitto.

Per questo bisogna attivare delle forze rivoluzionarie che agiscano in nome della cultura popolare come base dei rapporti umani. Per questo è fondamentale collegare il lavoro con l’istruzione, promuovendo anche la creazione di scuole a cultura popolare e di classe che riportino al lavoro manuale e artistico nonché intellettuale per ristimolare l’agire umano, ormai troppo appiattito, per rilanciare la fantasia e l’iniziativa creativa del lavoratore e dello studente.

Bisogna anche rompere con i vincoli coloniali eurocentrici legati all’insegnamento delle compatibilità del capitale è fondamentale, per costruire una «pedagogia decoloniale» fatta di intellettuali, militanti organici agli interessi del popolo, che agiscono rendendosi presenti con il corpo e con la mente in attività alternative e di rivolta alla standardizzazione dei processi istruttivi su modelli prettamente occidentali.

Per essere liberi, bisogna essere colti, affermava spesso Josè Martí, ed è da questo principio che bisogna ripartire per la formazione di una nuova cultura di rivolta di classe, per prendere in seria considerazione le alternative, che si devono approfondire, sostenere e aggiornare costantemente per tenere vivo l’orizzonte della Rivoluzione.

Così in Volta la carta… come in Si cantara el gallo rojo… si diffonde la critica delle relazioni internazionali, nonché si prospetta l’introduzione di nuovi progetti per la sostenibilità di un mondo multicentrico, che scalzi dal podio il primato monetario, economico, politico e culturale statunitense e che ponga invece al centro un pluripolarismo che agisca in un’ottica di vera democrazia partecipativa.

Una parte sostanziale del problema risiede nelle snaturate regole del gioco di una società nella quale il potere e l’importanza sociale si attribuisce esclusivamente in funzione del denaro che si possiede. È imprescindibile quindi nel contesto odierno continuare a lottare per riportare a galla la centralità dell’uomo e della natura a sfavore dell’ormai decrepito Modo di Produzione Capitalistico, che non fa altro che flagellare le libertà conquistate nella storia passata grazie al grande percorso di lotte del movimento di classe, che va ripreso, attualizzato e approfondito nei percorsi del socialismo rivoluzionario.

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