A venti anni dalla sua scomparsa, se mi domando che cosa abbia significato per me Carmelo Bene non trovo altra risposta se non questa: egli è stato, innanzitutto, il simbolo e la personificazione, in campo teatrale, cinematografico, letterario e generalmente artistico, di una rottura provocatoria e radicale con il perbenismo piccolo-borghese, con il cretinismo dei ‘massmedia’ e con il cialtronesco anticonformismo che imperversano nella nostra società.
Alla fine degli anni ’60, frequentando il cineforum universitario, lo ‘incontrai’ nel film “Nostra Signora dei Turchi”, di cui egli era autore, interprete e regista, e quella satira dell’imbecillità religiosa, quella minuziosa spigolatura (e conseguente parodia) dei luoghi comuni, con cui egli dava vita ad una sorta di caustica versione italiana del flaubertiano “Bouvard e Pécuchet”, mi convinsero che un simile artista avrebbe impresso con la sua intelligenza, con la sua sapienza, con la sua oltranza, un segno profondo non solo sulle scene, ma altresì, quanto meno a livello di indicazione esemplare, nel costume intellettuale del nostro paese.
Carmelo è stato un grande italiano e, come tutti i grandi italiani, non poté che apparire, nel plateale contrasto con le tendenze politico-culturali dominanti, un anti-italiano.
Documenti straordinari di questa sua italianità, da lui intesa e declinata secondo una triplice accezione, umanistica barocca e moderna, sono le emozionanti ‘lecturae Dantis’, che rinnovarono nelle maggiori città italiane la magia dell’incontro fra il sommo poeta e il popolo italiano, ponendo al servizio di una “Divina Commedia” mai così cantabile, musicale ed espressiva, le risorse teatrali di una voce (quella che egli con un pregnante vocabolo greco definiva ‘Phoné’) densa di vertiginosi ‘climax’ e ‘anticlimax’, generatrice di un affascinante caleidoscopio di ritmi, colori, timbri, volumi e intensità.
Altri documenti di questa sua opera di scavo nella tradizione italiana sono opere teatrali come il “Pinocchio” del Collodi e l’“Adelchi” del Manzoni, emblematiche figurazioni di quei caratteri nazionali assai efficacemente esemplificati in quella battuta di Salvemini, secondo cui, quando si ha a che fare con tre italiani, si può essere sicuri che uno è un galantuomo, uno è una spia e il terzo uno sciocco.
Ma Carmelo Bene non è stato solo un grande, geniale e sulfureo dissacratore; egli è stato, anche e soprattutto, un grande, geniale e versatile artista, un uomo coltissimo nutrito di vaste e profonde letture di testi teatrali, letterari e filosofici ed autore egli stesso di testi teatrali, letterari e filosofici.
Come attesta, fra l’altro, la sua stretta collaborazione con un pensatore del livello di Carlo Sini nella comune ricerca sui temi ontologici, estetici ed etici del Linguaggio, della Soggettività, della Presenza, dell’Assenza, della Voce…
Di lui, nel concludere questo sintetico e personale omaggio, desidero ricordare quattro aspetti: il primo è costituito dal suo tenace disprezzo per le ‘gazzette’ e per i ‘gazzettieri’ (che si manifestò, ad esempio, nell’inviare alle redazioni dei giornali, dopo un suo debutto, altrettante copie di una recensione scritta da lui, ma firmata con il nome del critico di ciascun giornale…).
Il secondo è legato al modo paradossale con cui egli, velando di ironia il suo pudore, amava ripetere che lui, la sua giovinezza tutta comunista, non l’aveva appesa al muro come un quadro del Della Robbia…
Il terzo aspetto è rappresentato dalla giusta ferocia con cui Bene demoliva il mito democraticistico della accessibilità ‘della’ cultura e ribadiva correttamente il principio della accessibilità ‘alla’ cultura, intesa come possesso che può essere raggiunto solo da chi dedica a questo scopo tutto il suo impegno intellettuale e tutta la sua tensione morale.
Il quarto aspetto è stato la sua morte, un ‘coup de théâtre’ del tutto degno di lui: nessun rito funebre, ceneri sparse al vento.
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