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Ciao, Maestro

Si è spento ieri, all’età di 97 anni, uno dei più grandi uomini di Teatro del ‘900.

Epoca di avanguardie e sperimentazioni, anche estreme, il secolo breve della scena ha avuto il merito di annoverare, tra le sue fila, Peter Brook.

Tra i pochissimi per cui valga la pena di utilizzare l’abusata parola Maestro!

Basterebbe ricordare il suo potente Marat-Sade (scritto da Peter Weiss) a metà anni ’60.

Oppure, la solenne ed epica cosmogonia del Mahabarata (dalle 9 alle 11 ore di durata), spettacolo per Avignone del 1985, poi divenuto anche film e, recentemente, graphic novel.

Proseguendo con Us, lavoro dai forti tratti sperimentali, che faceva riferimento alla ferocia della guerra in Vietnam.

E ancora Le Costume, opera allegorica e poetica, attraversata, allo stesso tempo, da humor e ironia, crudeltà e disperazione.

E infine, il paradossale Tierno Bokar, riflessione politica sulla guerra, sulla violenza che soggiace alle relazioni umane – perfino al concetto di tolleranza – sulla incomprensione e la natura divisiva della religione e dei suoi precetti.

Ovviamente, alla notizia della sua morte, media e social si sono scatenati, facendo a gara per ricordare questo geniale quanto schivo, misurato, laconico regista.

Tante chiacchiere. Tanta retorica. Tanti articoli. Tante foto si sono rincorse.

In una gara alla citazione da parte di chi, probabilmente, ne ignorava e ne ignora profondamente l’opera.

Il più irritante, tanto per cambiare, Stefano Massini su Repubblica. Banale, superficiale, intriso di luoghi comuni, come di consueto.

Il migliore, Davide Turrini sul Fatto.

In generale, tanta inutile sciatteria.

Lui, che aveva fatto della scena un concerto di segni.

Lui, che aveva – sulla traccia di Artaud e del suo Teatro della crudeltà – detestualizzato la scrittura e cacciato il dio del Verbo dallo spazio.

Lui, che aveva innalzato la regola del sottrarre contro la divinità dell’eccesso borghese.

Lui, che della minuziosità quasi entomologica aveva fatto la sua fede.

Lui, che con la teoria del Punto in movimento può essere considerato il più materialista e il più marxista dei registi teatrali.

Lui che aveva, sulla scia di Grotowski, abbracciato l’idea di un teatro povero di orpelli ma rivelatore di senso: lui poteva essere definito il più maoista dei teatranti.

Lui, che ha parlato mille lingue con una sola glossa.

Lui non avrebbe amato tanto insignificante rumore.

Lui era il se, il dubbio, il cerchio, la creatività che si fa rivoluzione.

La critica mai imbrigliata nelle pieghe ingannevoli della ragione, ma capace di farsi poesia.

Si potrebbe dire che la sua messinscena, datata1967, della già menzionata opera di Peter Weiss “Marat/Sade. Ovvero, La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade”, abbia segnato l’atto di nascita dei movimenti di contestazione e antisistema del 1968.

Contro il potere costituito. Contro le galere. Contro la psichiatria repressiva. Contro la società borghese.

Lui era la nudità del teatro. Lui era l’antropologia dell’attore.

Lui era Peter Brook. E fate silenzio

Ciao Maestro!

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