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I grandi uomini che non fanno la storia

Questa riflessione di Mike Davis è interessante a dispetto dei suoi molti limiti teorici. Fornisce infatti una fotografia impressionistica della crisi radicale di idee e visione che attraversa le leadership del pianeta. E di conseguenza anche i loro oppositori.

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L’egemonia richiede un grande disegno? In un mondo in cui oligarchi dorati, sceicchi miliardari e divinità del silicio governano il futuro umano, non dovremmo sorprenderci nello scoprire che l’avidità genera menti rettiliane.

L’aspetto che mi sembra più rilevante di questi strani giorni, in cui le bombe termobariche squagliano i centri commerciali e attorno ai reattori nucleari infuriano gli incendi, è l’incapacità dei nostri attuali superuomini di esercitare il loro potere verso la produzione di una qualsiasi narrazione plausibile del prossimo futuro.

Putin si circonda di astrologi, misticismo e perversione come facevano i Romanov nell’ultima fase del loro potere. A detta di tutti è sinceramente convinto di dover salvare gli ucraini dall’Ucraina, perché il destino celeste della Rus’ possa compiersi. Il presente deve essere distrutto per trasformare in futuro un passato immaginario.  

Putin non è l’archetipo di uomo forte o il mastro ingannatore ammirato da Trump, Orbán e Bolsonaro: è semplicemente un uomo spietato, impetuoso e incline al panico. Le persone nelle strade di Kiev e Mosca che hanno irriso la minaccia finché i missili non hanno iniziato a cadere sulle città ucraine hanno dimostrato ingenuità soltanto nel pensare che nessun leader razionale avrebbe mai potuto sacrificare l’economia russa del ventunesimo secolo per innalzare sul Dnieper il vessillo fittizio dell’aquila bicefala. Nessun leader razionale lo farebbe, è proprio questo il punto.  

Sull’altra sponda dell’oceano, Biden è immerso in una seduta spiritica non-stop con Dean Acheson [il ministro degli esteri Usa durante la Seconda guerra mondiale, interventista ndt] e tutti gli altri fantasmi delle guerre fredde.

La Casa Bianca è sperduta in un deserto che ha contribuito a creare. Tutti i think tank e le menti geniali che presumibilmente informano le mosse della corrente Clinton-Obama del Partito democratico si stanno rivelando rettiliani tanto quanto gli indovini del Cremlino. Non riescono a immaginare nessun altro quadro intellettuale per il declino del potere americano se non la competizione nucleare con la Russia e la Cina.

Abbiamo quasi sentito il loro sospiro di sollievo quando Putin gli ha tolto il peso mentale di dover elaborare una strategia globale nell’Antropocene. Alla fine, Biden si è rivelato un guerrafondaio al potere come pensavamo sarebbe stata Hillary Clinton.

Anche se ora è distratto dall’Europa dell’est, chi può dubitare della determinazione del presidente nel cercare uno scontro con Pechino nel Mar cinese meridionale, acque molto più pericolose del Mar Nero?

Nel frattempo, sembra che la Casa Bianca abbia buttato nella spazzatura il suo già debole impegno progressista. Solo una settimana dopo la pubblicazione del report più spaventoso della storia, in cui l’Ipcc ha messo nero su bianco la prossima decimazione dell’umanità, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione Biden non ha menzionato il cambiamento climatico. Del resto, come si può paragonare questo rischio all’urgenza trascendentale di ricostruire la Nato?

Trayvon Martin e George Floyd sono tornati a essere solo le ennesime vittime della violenza della strada, rapidamente scomparse dallo specchietto retrovisore della limousine presidenziale che porta Biden in giro per l’America a rassicurare i poliziotti della sua imperitura amicizia. 

Non è soltanto un tradimento dell’establishment. Anche la sinistra americana ha le sue responsabilità in questo triste esito. Quasi nessuna delle energie generate da Occupy Wall Street, Black Lives Matter e dalle varie campagne di Sanders è stata diretta verso lo sforzo di ripensare le questioni globali ed elaborare una rinnovata politica di solidarietà internazionale.

Allo stesso modo è mancato l’aggiornamento generazionale del pensiero radicale, che una volta (con autori come I. F. Stone, Isaac Deutscher, William Appleman Williams, D.F. Fleming, John Gerassi, Gabriel Kolko, Noam Chomsky per citarne solo alcuni) focalizzava come un raggio laser tutta la sua critica sulla politica estera statunitense. 

Nemmeno l’Unione Europea ha saputo essere all’altezza dei problemi che caratterizzano questa epoca e porre le basi di una nuova geopolitica.

A rischiare più di tutti lo spaesamento è la Germania, che ha fondato il suo orizzonte politico degli ultimi decenni sul commercio con la Cina e l’importazione di gas naturale della Russia. La coalizione che governa ora a Berlino è a dir poco mal equipaggiata per trovare un percorso alternativo di prosperità per il paese.

Allo stesso modo Bruxelles, anche se temporaneamente rivitalizzata dalla scossa del pericolo russo, rimane la capitale di un super-Stato fallito: un’Unione che non è stata in grado di gestire collettivamente la crisi migratoria, la pandemia o l’avvento degli uomini forti al potere a Budapest e Varsavia.

In tutto questo, una Nato allargata e trincerata dietro un nuovo muro orientale è una cura peggiore della malattia.

Tutti corrono a citare Gramsci e il suo «interregno». Il concetto presuppone la nascita, o la potenzialità, di qualcosa di nuovo. Io dubito che accadrà. Penso che quello che va fatto è diagnosticare un tumore cerebrale della classe dirigente: la crescente incapacità di raggiungere una qualsiasi comprensione coerente del cambiamento globale come base per definire interessi comuni e formulare strategie su larga scala.

In parte è la vittoria del presentismo patologico, ovvero l’istanza per cui tutti i calcoli vengono fatti sulla base di ragionamenti a breve termine che consentano ai super-ricchi di consumare tutte le cose buone della Terra nel corso della loro vita (è stato Michel Aglietta, nel suo recente Capitalisme: le temps des ruptures, a sottolineare il carattere inedito di questo nuovo e sacrificale divario generazionale).

L’avidità si è radicalizzata, al punto che non ha più bisogno di pensatori politici e intellettuali organici, ma solo di Fox News e di una connessione 4G. E se tutto andasse male, Elon Musk guiderà i miliardari verso la migrazione su un altro pianeta.

Può darsi che i nostri governanti siano ciechi perché non hanno la vista penetrante della rivoluzione, borghese o proletaria che sia. Un’epoca rivoluzionaria può vestirsi con i costumi del passato (come spiega Marx nel Diciotto brumaio), ma si definisce sulla base del riconoscimento delle possibilità di riorganizzazione della società derivanti dalle nuove forze tecnologiche ed economiche.

In assenza di una coscienza rivoluzionaria esterna, o di una minaccia di insurrezione, il vecchio ordine non avrà mai bisogno di produrre i suoi (contro)visionari.

Mi si lasci notare, per inciso, il curioso caso del discorso tenuto da Thomas Piketty il 16 febbraio alla National Defense University del Pentagono, nell’ambito di una serie di seminari sul tema «Rispondere alla Cina». L’economista francese ha sostenuto che «l’Occidente» deve sfidare la crescente egemonia di Pechino abbandonando il suo «datato modello iper-capitalista» e promuovendo invece un «nuovo orizzonte egualitario ed emancipatorio su scala globale».

Una sede piuttosto singolare – il Pentagono – per sostenere il socialismo democratico.

In tutto questo la Natura sta riprendendo le redini della Storia, con i suoi titanici movimenti di compensazione. Movimenti che vanno a spese dei poteri, soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture naturali e ingegneristiche che gli imperi hanno creduto di controllare.

Da questo punto di vista il termine «Antropocene», con tutta la sua vaghezza prometeica, sembra particolarmente inadatto a descrivere la realtà del capitalismo apocalittico che abbiamo di fronte.

Si potrebbe obiettare al mio pessimismo affermando che la Cina ha al contrario una visione ben chiara del mondo, e che i ciechi sono gli altri. Senza dubbio l’idea di unificare l’Eurasia e la Belt and Road Initiative rappresentano un grande disegno per il futuro, che non trova eguali dall’epoca in cui il sole del «secolo americano» è sorto sul mondo devastato dalla guerra.

Ma il genio cinese è stata la pratica neo-mandarina di applicare una leadership collettiva, tra il 1949 e il 1959 e il 1979 e il 2013, centralizzata ma plurivoca. E da questo punto di vista Xi Jinping, nella sua ascesa al trono di Mao, appare come il verme nella mela: il suo governo ha potenziato economicamente e militarmente il paese, ma il suo ricorso incauto all’ultranazionalismo per realizzare questo progetto rischia di aprire il vaso di Pandora nucleare.

Insomma, stiamo vivendo nella versione horror della teoria che «i grandi uomini fanno la storia». A differenza dell’alta Guerra fredda, quando politburo, parlamenti, uffici di gabinetto e stati maggiori lavoravano tutti, in qualche misura, per contrastare la megalomania dei vertici, oggi le valvole di sicurezza che separano i massimi leader mondiali dal bottone dell’Armageddon sono pochissime.

Non era mai successo che tanto potere economico, mediatico e militare si concentrasse tutto insieme in così poche mani. Contro tutto ciò, rendiamo omaggio alla memoria degli eroi anarchici Aleksandr Ilyich Ulyanov, Alexander Berkman e all’incomparabile Sholem Schwarzbard.  

 * Mike Davis, scrittore e sociologo urbano, è autore di diversi libri, tra cui Planet of Slums e City of Quartz (tradotto in italiano da Manifestolibri). Questo articolo è uscito sulla New left review. La traduzione è di Riccardo Antoniucci, per Jacobin Italia.

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2 Commenti


  • EuroDeliri

    “molti limiti teorici”…
    “fotografia impressionistica”…
    Effettivamente, ‘ste cose le potevo scrivere anch’io. Forse nemmeno peggio di così


    • Redazione Roma

      L’Italia è un paese di santi, poeti, navigatori…e commentatori

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