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Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav

Nicoletta Dosio è un’attivista e volto storico del Movimento No Tav. Figlia di operai e insegnante in campo umanistico dal 1973 fino al 2006, ha sempre partecipato alla vita politica e sociale del territorio piemontese.

Impegnata contro le guerre – dalla Jugoslavia all’Iraq e l’Afghanistan – a partire dalle manifestazioni contro le basi di Comiso e Sigonella, continua a battersi per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo Palestinese, spendendosi in prima persona nella lotta alla repressione ai danni tutti i movimenti sociali, dei poveri e degli emarginati.

Per questa ragione, scegliendo di violare le misure cautelari emesse nei suoi confronti, affronta un periodo di detenzione, dedicando il suo Fogli dal carcere a questa esperienza.

Ritenuta colpevole di essere parte di quel grande movimento di donne e uomini che lottano per la loro terra – il movimento No Tav –, Nicoletta Dosio viene tradotta in carcere quando ha superato le settantacinque primavere senza però aver mostrato la benché minima intenzione di arrendersi alla devastazione e al saccheggio a cui il progetto del treno ad alta velocità ha condannato la Val di Susa, in Piemonte.

Tra le sbarre delle Vallette di Torino, la Dosio riceve l’incredibile solidarietà dei tanti che, in Italia e non solo, riconoscono nella resistenza della Val di Susa un simbolo di tutto ciò che è necessario cambiare per riguadagnare la speranza di una vita davvero sostenibile.

Al tempo stesso, nel carcere, Nicoletta divide il suo angusto spazio con un’umanità sofferente e perseguitata: costretta a pagare con la galera una vita di povertà e di stenti. Reagendo alla desolazione, Nicoletta intreccia un dialogo con ciò che è dentro e ciò che è fuori il carcere, strappando alla prigione i fogli che compongono il suo straordinario omaggio alla libertà.

La sua vita e la sua personalità trasmettono un messaggio di resistenza, lo stesso che anima il  Movimento No Tav, e che deve diventare pratica per tutti i popoli e per tutte le rivendicazioni: i diritti non si possono elemosinare, si conquistano nelle strade e nelle piazze, là dove vivono le lotte.

Con scritti di Haidi Gaggio Giuliani, Daniela Bezzi, Valentina Colletta, Emanuele D’Amico e Italo Di Sabato

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La postfazione al libro di Italo Di Sabato dell’Osservatorio Repressione

Per superare la cultura della Pena

La popolazione carceraria è oggi una massa informe alla quale è sempre più difficile distinguere il colpevole dall’innocente, colui che sta bene da quello che sta male, l’indagato dal condannato.

Ancora oggi in piena emergenza pandemica, migliaia di persone sono sottoposte a misure restrittive con pene inferiori a cinque anni di reclusione e tuttavia questo non sembra scandalizzare la politica e il grosso dell’opinione pubblica.

Ancora peggio quelle poche voci che si levano nella società per porsi e porre interrogativi vengono tacciate di connivenza con le più svariate forme di criminalità.

La detenzione diventa, quindi, qualcosa di indicibile; delle condizioni carcerarie si preferisce non parlare, si accresce e si stabilizza un processo di annichilimento e di codificazione che ha precedenti amari solo nelle parti più buie della storia umana.

Il diario di Nicoletta ci parla e ci mostra il punto di vista dei “criminalizzati”, che l’orribile pensiero forcaiolo che attraversa la politica da destra a sinistra vuole seppellire vivi e insieme ad esse il dettato costituzionale che regola la privazione di libertà.

L’assunto inaccettabile è che passa la nozione che al detenuto si possa fare di tutto, con spirito vendicativo e secondo il principio che la sofferenza deve agire come deterrente verso altri.

Nicoletta ci racconta l’umanità delle “non persone”, ci fa guardare il carcere e ci mostra come negli ultimi decenni in Italia ci sia stata una criminalizzazione scriteriata, in cui la logica del diritto penale è diventata dominante e si sono manifestati tutti i sintomi del morbo populista: l’allarmismo sulla sicurezza che condiziona un’opinione pubblica sempre più insicura, eccitata dall’antipolitica e dalla spettacolarizzazione della giustizia; il ruolo moralizzatore assunto dalla magistratura; la strumentalizzazione delle vittime che trasfigura la giustizia in un risarcimento simbolico all’intera comunità e che rende insostenibile la presunzione di innocenza.

Ma dietro alla criminalizzazione, si profila lo spettro della guerra di tutti contro tutti in cui lo Stato, che non è più in grado di distribuire giustizia sociale, promette repressione. Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano una società più sicura e una diminuzione costante del livello di criminalità nell’ultimo decennio, la percezione di insicurezza e paura, alimentate da politica e media, genera consenso verso chi si propone come giustiziere.

Tornano le classi pericolose, e questo lo si rintraccia nella punizione sempre più aspra dei comportamenti ai marginali o sovversivi e nell’allargamento dell’utilizzo dei reati associativi.

Il diritto penale diviene, quindi, terreno di scontro e di conflitto. Un diritto penale del nemico, perché sempre di più la pratica e la legislazione segnano la natura di un diritto di parte verso i più forti. Attivisti, dissidenti, marginali, tossicodipendenti, migranti, poveri, di queste categorie si riempiono le carceri, e si riempiono non per l’aumentare dei diritti ma per l’irrigidimento delle norme e delle scelte dei magistrati.

Un doppio binario, da una parte il diritto “dei galantuomini” dall’altro “il diritto dei bagatellari”: se un furto con scasso è punito sempre più duramente, il falso in bilancio per miliardi di euro è di fatto depenalizzato. Se fino ai primi anni settanta del secolo scorso il conflitto sociale, le lotte per allargare i diritti erano entrate nella costituzione formale e materiale dell’Italia, oggi, invece, il conflitto viene presentato come una patologia.

Il sistema politico e istituzionale è totalmente sordo verso qualsiasi rivendicazione sociale mettendo in discussione la libertà di espressione e di dissenso e riducendo la politica all’applicazione della sanzione penale.

Lo scenario ci appare dunque come un doppio legame. Da un lato la politica si è svuotata di senso, riempendosi solo dell’universalismo repressivo della categoria di ordine pubblico, per cui la qualifica della condizione di cittadino non è più definita in virtù della provvigione di servizi come diritto universale, ma in funzione dell’essere sottoposto a norme, dall’altro l’apparente neutralità della norma si riempie invece di politicità, poiché la norma (e i dispositivi che ne garantiscono il rispetto) diventa lo strumento principe per far fronte alle diverse emergenze sociali.

Un dispositivo politico-governamentale frutto di una sua strategia egemonica che è ben rappresentata da quello che si può definire un dogma politico: “il rispetto della legalità”, che si è velocemente fatto senso comune.

L’educazione civica alla legalità ha progressivamente perso il suo carattere di tensione alla giustizia per cristallizzarsi in una militaresca propaganda sull’osservanza dovuta all’obbligo di legge, producendo gradualmente l’impossibilità di mettere in discussione il già “sancito”.

La legalità si è quindi trasformata nell’occasione di produrre l’accettazione acritica della legge, e l’illegittimità del dissenso e della contestazione. E infatti, gradualmente, il concetto di legalità ha finito di stigmatizzare qualsiasi forma di protesta e dissenso, fino alla completa criminalizzazione.

L’ideologia della “legalità”, quindi, costituisce oggi il cardine discorsivo di quel dispositivo che legittima la trasformazione in soggetto politico degli apparati di polizia e sicurezza.

Il suo meccanismo di fatto opera un rovesciamento tra causa ed effetto: i comportamenti istigati dalla necessità di attingere all’economia informale (sia essa strettamente criminale o no) diventano, nell’economia del discorso legalitario, la certificazione di una colpa, quella di essere, appunto, fuori dalla legalità, il che a sua volta diventa, nella percezione comune, il vero stigma della condizione di marginalità.

Nicoletta ci fa capire come la sfera del giuridico non esprime solo tecnica ma anche aspetti profondamente politici: la continua ridefinizione dei confini del lecito e dell’illecito, della legittimità e dell’illegittimità, quella sorta di pendolo che è la legalità di come la sfera del giuridico è un terreno di conflitto dove però oggi ad essere attrezzata è solo una delle parti.

Il punto è proprio qui, non ci si può più esimere dal costruire un intervento politico sulla giuridicità. Se si vuole tornare a far respirare la società bisogna allargare il più possibile le maglie che la contengono.

Rivendicare l’amnistia è una battaglia politica anche per cancellare i reati anacronistici o meno gravi commessi in passato nell’attesa che, in futuro, gli stessi siano abrogati. L’amnistia è di fatto l’anticipazione di un sistema penale diverso (e non una semplice, ancorché preziosa, aspirina per diminuire temporaneamente la sofferenza di un carcere che scoppia).

L’amnistia è una battaglia politica per chi coltiva l’idea di una società giusta e fatta di uguali sapendo di andare incontro a scomuniche e veti bipartisan.

Ma parlarne significa aprire, finalmente, un dibattito sul diritto penale che vogliamo, sulle regole della nostra convivenza, sulle modalità di gestione del conflitto sociale e porre la necessità di abolire il carcere in quando retaggio della premodernità, in quanto non solo tradisce la sua mission preventiva, cioè non produce sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola sistematicamente i diritti fondamentali.

Liberarsi dalla necessità del carcere perché pena inutile e crudele non comporta affatto rinunciare a tutelare il bene pubblico della sicurezza dalla criminalità. Anzi: per il solo fatto di rinunciare al carcere si produce più sicurezza dal pericolo criminale, stante che il carcere è fattore criminogeno esso stesso. Una società senza prigioni è più sicura, come più sicura è una società senza pena di morte.

La risposta al delitto non può che essere un intervento volto ad educare a una libertà consapevole attraverso la pratica della libertà. Questa deve essere la regola. Per superare la cultura della pena e del carcere e riportare le persone che hanno violato la legge è assolutamente necessario che anche le regole siano rispettose delle persone.

Quest’orizzonte ideale, dopo anni di ossessione sicuritaria e di sfrenato panpenalismo, può apparire un puro esercizio di parole in libertà, ma lo sforzo è quello di realizzare un’utopia concreta.

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