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“Diamo a Marx quel che è di Marx”, ma davvero

Una recensione “ultraliberista” di un testo dichiaratamente marxista consente, non paradossalmente, di chiarire meglio il concetto di “legge scientifica” e perché, pur essendoci chiare differenza tra la fisica e la critica dell’economia politica, si possa parlare di “legge” in entrambi i casi.

Scrive infatti Carmelo Ferlito – in riferimento a La guerra capitalista di Brancaccio, Giammeti e Lucarelli – “La parte sul conflitto imperialista appare come la più debole all’interno di un volume altrimenti molto interessante e sorgente di numerosi spunti per un dibattito serio sulla dinamica del capitalismo contemporaneo. Infatti, gli autori non riescono ad ingabbiare il legame tra concentrazione e guerra nella stessa logica convincente che invece caratterizza la prima parte sul legame tra concorrenza e concentrazione.”

In estrema sintesi, mentre il legame scientifico tra concorrenza e concentrazione del capitale appare logicamente e scientificamente comprovato, nel libro dei tre studiosi, quello tra crisi e guerra sarebbe ai suoi occhi una “forzatura ideologica”, un tributo quasi fideistico ad una concezione del mondo non scientifica.

A noi, e a tutta l’umanità, crediamo, risulta abbastanza chiaro che molte crisi economiche, specie se di dimensione sistemica, si sono “risolte” con la guerra e la relativa distruzione del “capitale in eccesso” (industrie, infrastrutture, esseri umani, ecc). Dunque un legame tra i due processi (crisi e guerra) ci deve essere. La dimostrazione scientifica non è altrettanto semplice, se la si vuole svolta alla maniera della fisica  o della biologia.

Bisogna innanzitutto constatare che neanche tra fisica ed economia (quella liberista, insegnata nelle facoltà universitarie) c’è un simile parallelismo metodologico. Tant’è vero che della seconda – definita anche “scienza triste” – si usa dire che prevede il passato. Mentre in qualsiasi altra disciplina scientifica si pretende – e si ottiene – una previsione precisa al millimetro, rendendo così possibile un’infinita serie di attività umane (dalla costruzione di edifici alle imprese nello spazio).

In altri termini, le “leggi” dell’economia liberale non sono altro che constatazioni ex post di alcune relazioni sistematiche tra fenomeni economici, senza alcuna certezza (scientifica) che in futuro si ripetano nelle stesse forme e quantità. E infatti lo stesso Ferlito riconosce che tra tutte le teorie dell’economia che si pretendono scientifiche soltanto quella marxiana (ovvero di Karl Marx, non “marxista”) contiene una teoria della crisi, esclusa invece da tutte le altre.

La differenza, notoriamente, sta nelle diverse assunzioni di partenza. I teorici borghesi dell’economia presuppongono un (inesistente) “stato naturale di equilibrio” cui tenderebbero le normali relazioni di mercato. E dunque di fronte all’esplodere delle crisi – piccole o grandi che siano – rimangono sorpresi e vanno alla ricerca degli “errori” che sarebbero stati commessi da questo o quel soggetto che contribuisce alle dinamiche del mercato.

Non a caso, quasi sempre imputano allo Stato – ossia all’unico soggetto che  agisce o dovrebbe agire tenendo conto degli interessi generali e non soltanto di quelli delle imprese, quindi fuori o oltre le “pure” ragioni economiche – questo o quell'”errore” giunto a perturbare relazioni altrimenti “pacifiche”.

Pretendere dunque che la critica marxiana dell’economia politica possa anche produrre una “teoria della guerra” more geometrico dimostrata appare quasi frutto di una rivalsa da parte di chi condivide invece un approccio “classicamente liberale” ai fatti economici.

Anche perché mentre in fisica (biologia, chimica, ecc) è relativamente facile isolare ed eliminare le “condizioni a contorno” che ostacolano l’esame del fenomeno  di cui si vuol individuare “la legge” (la relazione stabile che lo rende anche prevedibile), in economia questo risulta impossibile. Non possiamo “porci fuori”, “fermare il mondo” ed esaminarlo con comodo. Se non tramite un’astrazione fatta nel pensiero, come in effetti Marx fa in ogni passaggio de Il Capitale.

Questa difficoltà non permette insomma di descrivere il passaggio tra lo stato di crisi economica e la guerra nei termini della necessità scientifica (rapporti quantitativi che consentirebbero di prevedere l’esplosione di un conflitto all’ora x del giorno y).

Ma certamente si può individuare la connessione stabile – utilizzando tra l’altro la legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto – che permette di “vedere” la tendenza alla guerra avanzare delle spire di una crisi economica irrisolvibile per via “naturale”, ossia pacifica, secondo “dinamiche di mercato”.

Se ci è permessa una semplificazione e una analogia, la critica marxiana dell‘economia politica  consente di individuare e prevedere tutte le contraddizioni che si accumulano dentro il processo di accumulazione del capitale; di vedere come queste contraddizioni si intrecciano, intersecano, avviluppano fino a diventare un groviglio inestricabile, un nuovo “nodo di Gordio”.

Il cui scioglimento – la “risoluzione della crisi” – avviene secondo la logica di Alessandro Magno: calando la spada sul nodo. Non possiamo sapere in che giorno e a che ora, certo, ma sappiamo per certo che quella spada – la guerra interimperialista, o capitalista – arriverà a calare su quel nodo. E non sarà per una motivazione “ideologica”, ma per necessità “in ultima analisi economica”.

Non basterà seguire le vicende dell’economia, per capirne i prodromi e le linee di faglia. Intervengono infatti una marea di fattori politici, militari (quante armi, di che tipo, quante munizioni, ecc), culturali e di ogni altro genere. Ma qui, per l’appunto, si passa dalla critica dell’economia politica al materialismo storico. Che ha individuato “leggi” certo meno matematiche, ma altrettanto cogenti.

Buona lettura.

*****

Il volume a sei mani di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli appare come un salto indietro non nel tempo ma nella Storia. Sin dal titolo, infatti, il testo riesuma una terminologia che appare ancora viva solo in certi ambienti marxisti e che, nei mondi intellettuali contemporanei, potrebbe essere accolta con scetticismo, una risata, una levata di spalle o – come è più probabile in Paesi giovani come quello in cui vivo – con incapacità di comprendere. Non nascondo che, a tutta prima, il titolo del libro non suonava alle mie orecchie come un invito alla lettura…

Superato lo scetticismo iniziale, però, il libro, pur non mancando di crearmi certi mal di pancia, è riuscito ad ancorarmi a quello che sembra essere il tema centrale, e probabilmente il più interessante: la ripresa dell’analisi marxiana della “legge”(1) tendenziale della concentrazione del capitale.

Gli autori in particolare notano come questo aspetto peculiare del pensiero di Karl Marx non sia stato sviluppato all’interno del mondo che fa riferimento al filosofo di Treviri, mentre invece oggi appare tornato di moda nelle discussioni economico-finanziarie sulle maggiori riviste mondiali del settore, quali l’Economist ed il Financial Times.

La cosa non mi stupisce. Va dato a Marx quel che è di Marx; del resto, fu proprio lui a rendersi conto di un altro fatto fondamentale della dinamica capitalistica: non esiste capitalismo senza fluttuazioni (Sylos Labini, 2004, p. 103).

Marx è il primo a rendersene conto e a riconoscerglielo è uno degli economisti a lui più distanti, ovvero Murray N. Rothbard (1969, p. 180); lo stesso Huerta de Soto (1988, pp. 411-412) ricorda «che uno dei punti di una certa coincidenza [tra l’analisi marxiana e quella della scuola austriaca a cui chi scrive appartiene] più curiosi si presenta, esattamente, in relazione alla teoria delle crisi e recessioni che devastano con regolarità il sistema capitalista».

Marx è «chiaramente consapevole dell’esistenza del ciclo economico. Egli fu forse il primo economista che abbia avuto una teoria della crisi. Non solo; ma è chiaramente consapevole dell’unicità del problema del ciclo e del problema dello sviluppo: il ciclo, per Marx, è la forma che l’accumulazione – lo sviluppo – concretamente assume nella società capitalistica» (Sylos Labini, 1954, p. 31) (2).

Come il binomio capitalismo/crisi economiche evidenziato da Marx fu oggetto di ripresa da parte di economisti “conservatori”, Schumpeter (1939) in primis, è ancora nell’economista austriaco che si deve ricercare un organico sviluppo della tendenza alla concentrazione del capitale come risultato della concorrenza capitalistica. Cos’è in fondo Capitalismo, socialismo e democrazia (Schumpeter, 1942) se non lo sviluppo poetico di tale tendenza?

Per Schumpeter, la concentrazione del capitale è il canto del cigno di un capitalismo “eroico”, caratterizzato da imprenditori-super uomini e sostituito dal capitalismo “trustificato”, in cui proprio la concentrazione del capitale permette all’innovazione di continuare ad esistere ma in modo non più dirompente, venendo burocratizzata e istituzionalizzata all’interno dei centri di ricerca delle grandi compagnie.

Quel canto del cigno, che Schumpeter descrive con una tristezza di fondo, è riconosciuto purtuttavia come conseguenza inevitabile della dinamica concorrenziale. E qui giace il secondo contributo importante del libro in esame: la concorrenza (perfetta) non è affatto quella descritta dai manuali di microeconomia (3).

Come hanno osservato O’Driscoll e Rizzo (1985, p. 194), «nella teoria economica, il termine “concorrenza” vuol dire praticamente l’opposto di ciò che esso significa nel linguaggio comune o nelle discussioni economiche di senso comune»; infatti, la «teoria della concorrenza perfetta analizza lo stato degli affari o le condizioni di equilibrio che esisterebbero se cessasse ogni attività concorrenziale. Essa non è un’approssimazione, ma la negazione di quella attività» (O’Driscoll e Rizzo, 1985, p. 195).  

Il mio manuale di microeconomia identificava sei caratteristiche principali di un mercato in concorrenza perfetta:

1) atomizzazione del mercato,

2) omogeneità del prodotto e anonimato dei produttori e dei consumatori,

3) assenza di barriere all’entrata e all’uscita delle imprese dal mercato,

4) perfetta mobilità dei fattori produttivi,

5) perfetta conoscenza delle condizioni tecniche ed economiche,

6) inesistenza di extraprofitti nel lungo periodo (Baranzini e Marangoni, 1995, pp. 544-545).

È evidente che, anche all’occhio dell’uomo della strada, tali caratteristiche descrivono il contrario di un processo di competizione: perché competere se non v’è profitto? Dove si colloca la competizione se i prodotti sono omogenei e la quota di mercato marginale?

Schumpeter (1911), pur cresciuto abbeverandosi alla fonte del nascente paradigma walrasiano, prese ben presto un’altra strada, riconoscendo – in linea con Adam Smith e i classici – che la concorrenza è un processo e non uno stato, e tale processo si basa sul conflitto tra elementi disomogenei piuttosto che su elementi di uguaglianza: una competizione si vince in virtù di una differenza, fosse anche semplicemente la fortuna o la corruzione.

E per l’economista austriaco il vero processo competitivo si consuma nella lotta tra l’innovazione che tenta di emergere – spinta dall’imprenditore con i mezzi fornitigli dal banchiere – e prodotti e metodi tradizionali che tentano di sopravvivere – sostenuti dal senso comune.

Tale processo concorrenziale – vivo, organico e attivo nel tempo storico – ha un sapore nietzchano:

[Qualunque] corpo […], ove sia un corpo vivo e non moribondo, […] dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza – non trovando in una qualche moralità o immoralità il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e perché vita è precisamente volontà di potenza. […] Lo «sfruttamento» […] concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita.

(Nietzsche, 1886, pp. 177-178) (4).

Insomma, come cerco di spiegare sempre ai miei studenti, un imprenditore non entra nel mercato con l’obiettivo di diventare uno tra i tanti, di essere uguale ed omogeneo rispetto ad altri imprenditori. Al contrario: l’essenza dell’imprenditorialità è proprio la volontà di potenza, il desiderio di sbarazzarsi dei concorrenti e non di omogeneizzarsi ad essi, la necessità fisiologica di conquistare quote crescenti di mercato grazie a strategie vincenti.

In questo senso, la concentrazione non è che la conseguenza inevitabile di un processo competitivo inteso per ciò che esso è e non la fiction che viene propinata agli studenti inerti che, purtroppo, diventeranno professori e continueranno ad insegnare quella fiction.

Il volume in esame, dunque, porta alla ribalta il legame fondamentale tra concorrenza vera (che, in quanto tale, non è perfetta) e concentrazione del capitale.

La seconda parte del testo, dedicata all’analisi empirica di tale tendenza, è una ciliegina che impreziosisce la disamina teorica. Ma allora cosa distingue l’“austriaco” Ferlito – ultra liberista – dai “rossi” Brancaccio, Giammetti e Lucarelli?

È giusto chiederselo; ebbene, in estrema sintesi credo si possa concludere che in fondo la differenza sta in giudizio di valore: mentre gli autori di questo testo interessante tendono a giudicare la “legge” di concentrazione come un fenomeno negativo, foriero non solo di conflitti sociali ma addirittura alla base di epocali scontri di tipo imperialista, chi scrive giudica positivamente il processo di concentrazione, quando esso sia conseguenza “naturale” della concorrenza e non l’esito di protezioni governative.

Mentre in gioventù tendevo a simpatizzare con l’amarezza schumpeteriana nei confronti del capitalismo eroico che scompare e – come l’austriaco – a guardare con un certo disdegno il capitalismo “trustificato”, oggi riconosco come quel modello fosse storicamente condizionato.

«Esaurita l’esperienza, andai oltre» (Evola, 1963); il capitalismo ha fatto lo stesso, trasformandosi e trovando nuova vita proprio grazie alla concentrazione, come riconosciuto proprio da uno degli ultimi studenti di Schumpeter, l’italiano Paolo Sylos Labini, che iniziò la propria attività di ricerca proprio dove il maestro l’aveva lasciata.

In un capitalismo di tipo oligopolistico, sostiene Sylos Labini (1964), non solo l’innovazione è ancora possibile; viste le mutate condizioni storiche, si tratta del solo luogo dove essa possa ancora accadere. Non solo: un sistema dove a predominare siano i grandi gruppi, che crescono assorbendo quelli più piccoli, è l’unico in cui i salari possano resistere nell’ambito delle fluttuazioni cicliche e addirittura crescere in momenti di difficoltà a causa del crescente ruolo dei sindacati.

Paradossalmente, dunque, il capitalismo trustificato non è il luogo del conflitto, ma quello della possibile conciliazione. E ciò è vero non solo nell’ambito dei rapporti verticali (tra capitale e lavoro, per usare il gergo caro all’ambiente marxista), ma anche nelle relazioni orizzontali, tra imprese.

Il caso peculiare descritto dagli autori, in cui nel processo di concentrazione dei capitali vi sarebbero vincitori e vinti non è affatto generalizzato come si vorrebbe far apparire.

Al contrario: nei quindici anni trascorsi nell’ambito delle multinazionali ho potuto osservare come i processi di concentrazione siano spesso un modo per i cosiddetti vinti di rimanere in vita; aziende più forti acquisiscono quote di mercato attraverso l’assorbimento di realtà più deboli o in difficoltà, ma tale processo di acquisizione permette a queste ultime di rimanere in vita, di continuare ad operare all’interno di un contesto più solido, godendo di risorse finanziarie prima non disponibili, entrando nella dinamica innovativa e salvando posti di lavoro.

La mia esperienza personale mi ha permesso di vivere in prima persona tali passaggi in tre diversi continenti; in Italia, invece, realtà molto piccole sono spesso restie a perdere la propria indipendenza, condannandosi così alla scomparsa.

Alcuni piccoli imprenditori italiani che invece hanno scelto la via dell’assorbimento all’interno di un gruppo più grande, spesso straniero, non si sono impoveriti, come sostenuto nel libro, ma al contrario sono diventati molto ricchi e hanno permesso alla propria azienda di continuare a vivere, prosperando ed innovando.

L’effetto positivo della concentrazione può essere osservato, nel suo contrario, in Malaysia, paese in cui vivo: qui, il 98% delle imprese sono di piccole e medie dimensioni (e di queste il 78% è costituito da micro imprese); esse danno lavoro a poco meno della metà della manodopera e producono il 37.4% del PIL. Il restante 2% delle imprese è invece di grandi dimensioni, assume l’altra metà della forza lavoro, e produce il 62.6% del PIL.

Il dibattito di politica economica in questo paese del sudest asiatico, concentrato sulla necessità di combattere la povertà, migliorare il sistema di protezione sociale e promuovere l’innovazione tecnologica, è in difetto proprio perché non riconosce che, se non risolviamo tale dicotomia e favoriamo la concentrazione, questi tre grandi problemi (mobilità sociale, protezione sociale e progresso tecnico) non possono essere affrontati seriamente: le piccole aziende non offrono alcuna possibilità di crescita, possono permettersi limitate pacchetti di protezione e si scontrano con limiti fisiologici nel momento in cui debbono spingere sul pedale dell’innovazione.  

La parte sul conflitto imperialista appare come la più debole all’interno di un volume altrimenti molto interessante e sorgente di numerosi spunti per un dibattito serio sulla dinamica del capitalismo contemporaneo. Infatti, gli autori non riescono ad ingabbiare il legame tra concentrazione e guerra nella stessa logica convincente che invece caratterizza la prima parte sul legame tra concorrenza e concentrazione.

Forse perché si tratta della parte del volume più ideologicamente connotata: la concomitanza temporale tra concentrazione e conflittualità, infatti, non deve spingere alla ricerca disperata di una correlazione che non c’é e che non appare nemmeno logicamente sostenibile, come invece è il legame quasi ontologico tra concorrenza e concentrazione.

In conclusione, il libro, sul quale si possono avere punti di vista differenti, accende una speranza sulla possibile sopravvivenza di un dibattito teorico di ampio respiro all’interno del mondo intellettuale, nel contesto di un’accademia sempre più liceizzata e intrappolata in logiche che poco hanno a che fare con la fiamma di conoscenza e progresso speculativo che dovrebbe caratterizzarla.

Il fatto che a discutere questo testo sia un ’“austriaco” in esilio ne è la testimonianza. 


NOTE: 

1) Le virgolette sono necessarie per evitare di cogliere il termine “legge” come una necessità esatta in termini di tempo, spazio e misura; si tratterebbe di un approccio storicista che non condividiamo ma che invece sembra emergere nell’introduzione del testo;

2) Per una carrellata sugli economisti che, come Marx, hanno riconosciuto il legame tra capitalismo e fluttuazioni cicliche, si veda Ferlito (2013, pp. 66-67);

3) Il processo che mi portò a cogliere questa fondamentale verità è descritto in Ferlito (2019);

4) Sulla connessione intellettuale tra Schumpeter e Nietzsche si vedano Reinert e Reinert (2006) e Santarelli e Pesciarelli (1990).

Riferimenti bibliografici: 

Baranzini, M. e Marangoni, G. (1995), Macro e Microeconomia. Teoria e Applicazioni, Padova, Cedam; 

Evola, J. (1963), Il cammino del cinabro, Roma, Edizioni Mediterranee, 2018; Ferlito, C. (2013), Economica Fenice. Dalla Crisi alla Rinascenza, Chieti, Solfanelli;

Ferlito, C. (2019), Conversione di un economista, «Rubrics», 30 Dicembre, https://www.rubrics.it/conversione-di-un-economista/. ;

Huerta de Soto, J. (1998), Moneta, credito bancario e cicli economici, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012; 

Nietzsche, F. (1886), Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 2011;

O’Driscoll, G. e Rizzo, M.J. (1985), L’economia del tempo e dell’ignoranza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002;

Reinert, H. e Reinert, E.S. (2006), Creative Destruction in Economics: Nietzsche, Sombart, Schumpeter, in Friedrich Nietzsche (1844-1900). Economy and Society, a cura di J. Backhaus e W. Drechsler, Heidelberg, Springer, pp. 55-86; Rothbard, M.N. (1969), Le depressioni economiche: causa e rimedio, in La Scuola Austriaca contro Keynes e Cambridge, a cura di S. Ricossa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 177-199;

Santarelli, E., e Pesciarelli, E. (1990), The emergence of a vision: the development of Schumpeter’s theory of entrepreneurship, «History of Political Economy», 22, 4, p. 677-696;

Schumpeter, J.A. (1911), Teoria dello sviluppo economico, Milano, Etas, 2002; Schumpeter, J.A. (1939), Il processo capitalistico. Cicli economici, Torino, Boringhieri, 1977;

Schumpeter, J.A. (1942), Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas, 2001;

Sylos Labini, P. (1954), Il problema dello sviluppo economico in Marx e Schumpeter, in Problemi dello sviluppo economico, Bari, Laterza, 1977, pp. 19-73;

Sylos Labini, P. (1964), Oligopolio e progresso tecnico, Torino, Einaudi;

Sylos Labini, P. (2004), Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Roma-Bari, Laterza.

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3 Commenti


  • Eros Barone

    Le cause e le forme della crisi, nonché il nesso tra economia e guerra, richiedono un’indagine bifocale del processo complessivo di produzione e circolazione, poiché Marx opera con la coppia ‘anarchia del capitale / crisi di sovrapproduzione’ e la pluralità dei capitali si manifesta compiutamente nel passaggio dalla produzione alla circolazione. Pertanto, mentre per l’analisi della ‘produzione’ si può cominciare dalla rappresentazione di un unico capitale opposto a un’unica forza-lavoro, per la ‘circolazione’ è una premessa costitutiva che un capitale intrattenga rapporti di compravendita almeno con un altro capitale (il capitale appartiene infatti alla categoria dei ‘pluralia tantum’, implica cioè una molteplicità di produttori capitalistici). Quindi, né la produzione da sola (la quale è incapace di verificare la ‘realizzazione’ del plusvalore) né la circolazione da sola (la quale è incapace di spiegare la genesi di quel plusvalore) permettono di comprendere la crisi. Per questa ragione Marx ritiene che è solo la conflittualità tra i diversi capitali che genera la crisi di sovrapproduzione. E qui la categoria fondamentale che nell’analisi dialettica marxiana rappresenta la connessione tra teoria del valore e realtà empirica è proprio il concetto di saggio medio del profitto (qui non introdotto dagli autori in questione), concetto che è contenuto nei prezzi di produzione e che corrisponde al rapporto di valore tra la somma del plusvalore sociale, da una parte, e la somma di capitale costante e capitale variabile, dall’altra, indipendentemente dalla deviazione dei singoli prezzi di produzione dal valore stesso (K. Marx, “Il Capitale”, l. III, Roma 1973, pp. 185 e sgg.). Contrariamente a quanto forse ritengono Brancaccio, Giammeti e Lucarelli è la legge del valore che, non direttamente (mediante lo scambio di merci al loro valore) ma in modo ampiamente mediato dal saggio medio del profitto, determina il corso empirico del mercato e quelle mortali contraddizioni che sono rappresentate dalle guerre imperialiste. Sennonché, affinché tale conflittualità tra capitali si dia occorre, anche se non basta, che vi siano capitali individuali realmente separati (ossia la pluralità dei capitali); occorre, poi, che oltre alla semplice separazione tra le singole individualità indipendenti, si tenga presente anche la loro essenziale conflittualità, in quanto contrapposizione immanente. La stessa interpretazione delle crisi – e ciò è tanto più vero per le lunghe crisi e le continue guerre irrisolte dell’imperialismo – dipende da questa determinazione centrale del modo di produzione capitalistico, ossia, in buona sostanza, dal suo carattere anarchico fondato sulla pluralità e individualità dei capitali contrapposti. Infine, giova rammentare, sia per definire esattamente lo ‘status’ epistemologico delle marxiane ‘leggi di tendenza’ (e qui è assolutamente centrale la legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto), sia per distinguere la metodologia marxiana da quella positivistica, che la legge generale della produzione capitalistica e la sua realtà vanno mediate attraverso la loro ‘non-identità’, poiché appunto in questa mediazione tra elementi ‘non-identici’ consiste, secondo Marx, il compito della teoria “in quanto riproduzione ideale del concreto” (Marx). Non a caso, Marx individuava una capitolazione della teoria – capitolazione che rimproverava a quella che egli chiamava ‘economia volgare’ – sia nella fuga della teoria nella direzione del modello astratto sia nel riconoscimento dei ‘fatti’ come giudici supremi della teoria. In altri termini, lo scopo di Marx non era quello di ridurre tutti i fenomeni del sistema capitalistico (ad esempio, la struttura dei prezzi o la genesi della guerra) alla determinazione del valore mediante il tempo di lavoro, ma, al contrario, era quello di ‘spiegare’ tali fenomeni mostrando in qual modo essi fossero collegabili all’attuazione della legge del valore. Da questa ottica traeva origine il disprezzo che Marx nutriva per tutti coloro che si affannavano a ‘dimostrare’ la legge del valore invece di scoprire i suoi modi attuazione.


  • Paolo De Marco

    La produttività è la forma di estrazione dominante del plus-valore del Modo di produzione capitalista. Durante lo stesso tempo di lavoro, ma con una migliore composizione organica del capitale, si produce più prodotti di un certo tipo – o prodotti fortemente elastici – dunque ad un prezzo unitario proporzionalmente inferiore. Questo permette di conquistare i mercati interni e, una volta quei saturi, i mercati esterni, portando così al colonialismo e poi alle varie forme d’imperialismo. La produttività è alla base delle leggi di mozione del capitale cioè la concentrazione e la centralizzazione del capitale anche se la classe dirigente cercherà di rallentare queste tendenze di fondo per conservare una cosiddetta « classe media » diciamo alla Weber o alla J. Galbraith. Pessimista, Schumpeter non ci credeva, ma proponeva la « distruzione creatrice » per rallentare il processo.
    Questi sono processi scientificamente verificabili. Tutto il contrario delle petizioni di principio soggettive della concorrenza perfetta – o imperfetta – che pretendono rimpiazzare la « mentalità acquisitiva » del capitalismo – il capitale muore senza accumularsi – con il « ritorno » al liberalismo nietzschiano che nel nostro Paese ha già avuto una espressione corporativista fascista – Gentile – e liberista anti-liberalismo classico – Croce.
    Prof. Paolo De Marco
    Vedi a ) Introduzione metodologica e b ) Compendio di Economia Politica Marxista nella sezione Livres-Books del vecchio sito sperimentale http://www.la-commune-paraclet.com . Sono l’unico ad avere data la Legge marxista, dunque scientifica, della produttività, almeno finché non si dimostra il contrario dandomi il diritto di replica secondo la deontologia accademica.


  • Salvatore Michele De Marco

    L’eco degli irriducibili nostalgici della lotta di classe

    Non possiamo sottrarci dal criticare scritti tesi a trascinare sempre e comunque l’analisi economica scientifica verso l’analisi economica ideologica, non disdegnando, a tale scopo, di «stuprare» la logica teorica nonché l’evidenza empirica. In particolare, facciamo riferimento al libro di E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli (2022), afflitto da controsensi insanabili.
    Gli autori focalizzano l’attenzione sulla «legge di centralizzazione del capitale», la cui primo genitura la fanno risalire a K. Marx, la quale dovrebbe riferirsi al «pacchetto di maggioranza» (assoluta e relativa) delle azioni del capitale sociale delle imprese detenuto dagli azionisti (e sindacati di azionisti) per il controllo diretto ed indiretto del governo aziendale. A loro avviso, la centralizzazione di capitale permette di distinguere tra stati che attraverso le loro imprese partecipano imprese di altri stati e questi ultimi con imprese a loro volta partecipate, ad esempio, la Cina, la Russia e India, le cui imprese detengono quasi l’80% delle partecipazioni delle imprese dell’America, Inghilterra e paesi europei. Gli stati che partecipano ai capitali sociali stranieri sono chiamati «stati creditori» e gli stati dai capitali sociali partecipati sono chiamati «stati debitore», da cui concludere l’operazione culturale, prendendo spunto dall’attuale fatto estemporaneo, ossia evento bellico tra Cina (leggere: Russia) e America (leggere: Ucraina), per spiegarlo in termini di scontro tra paese creditore e paese debitore.
    La prima cosa da notare è l’utilizzo della terminologia errata, ma soprattutto forviante, in quanto non si può parlare di «stato creditori» e «stato debitori», peggio ancora se il primo lo si affianca all’avanzo della propria bilancia commerciale e il secondo lo si affianca al disavanzo della propria bilancia commerciale, ma è esatto dire «stato con posizioni attive verso l’estero» e «stato con posizioni passive verso l’estero», perché se i due modi di dire sono utilizzati indifferentemente significa che non si conosce affatto la differenza contabile tra «capitale proprio» e «capitale di terzi» e cosa peggiore si porta fuoristrada il lettore.
    Premesso ciò, nel lavoro, inavvertitamente, gli autori parlano della concorrenza dinamica di K. Marx che l’autore tronca alla ricerca del profitto (il capitalista deve introdurre tecnologia per non rimanere indietro ad altri capitalisti concorrenti nell’ammontare di profitto percepito) e che noi abbiamo completato con la fase in cui il capitalista cede profitto per abbassare i prezzi. Ammettendo la lotta tra imprese, per loro «lotta tra capitali» definita un «inedito nel campo delle scienze sociali» quando noi ne parliamo già dal 1999 in poi, non possono poi mantenere anche in piedi la lotta tra capitale e lavoro, perché la prima richiede fedeltà assoluta del lavoratore al capitalista, onde evitare che il fallimento di quest’ultimo coincida con il fallimento del lavoratore sotto forma di perdita di posto di lavoro; dal fatto che l’80% del capitale mondiale (specifichiamo ciò che loro non specificano e cioè di “capitale sociale”) sia controllato da meno del 2% degli azionisti mondiali, sicuramente frutto della lotta competitiva intra-capitalistica, non è per il dominio (imperialismo) dei mercati globali, ma per la sopravvivenza sui mercati globale pena la scomparsa dall’economico (il raggiungimento del monopolio è la certezza del benessere e il non farlo è la fine), per le ragioni dette che lavoratori e capitalisti sono stipati sulla stessa barca, non si può fare scaturire i processi disgregazione della classe dei lavoratori (non è possibile che: «la guerra capitalista è la continuazione delle lotte di classe con mezzi nuovi e più infernali»).
    Se non è lo sfruttamento del capitalista sul lavoratore, non si può neppure sostituire a questo lo sfruttamento del capitale sulla collettività in generale, perché se degrado della collettività si verifica, per quanto detto succede se lavoratori e capitalisti insieme non vincono e si impongono sui mercati internazionali con la creatività e l’innovazione.
    Infine, non si capisce bene chi dichiara guerra a chi e perché dovrebbe scoppiare la guerra. Da un lato si ricorre alla tesi che sono gli stati con le loro partecipazioni, impropriamente chiamati «stati creditori», a dichiarare guerra agli stati partecipati, impropriamente chiamati «stati debitori», che adottano il protezionismo, si chiudono a riccio, preferiscono fare «affari al loro interno» e non aprirsi, per non aggravare la loro situazione e a cui con la guerra gli si chiede di aprirsi. Sotto questo punto di vista è la Russia creditrice che ha dichiarato guerra all’America debitrice: la guerra in corso che si profila come terza guerra mondiale, come il primo e il secondo conflitto mondiale, è in altri termini una richiesta degli stati creditori ad aprirsi a loro e non invece chiudersi, anche medianti ad accordi globali, quale «Bretton Woods Conference» dopo la seconda guerra mondiale. Dall’altro lato si ricorre alla tesi opposta dove sono gli stati debitori che «quando i creditori utilizzano i crediti accumulati in un modo non condiviso dai grandi debitori, allora la pace vacilla» per tutelarsi dichiarano guerra agli stati creditori. Sotto questo profilo è l’America debitrice che dichiara guerra alla Russia creditrice: i paesi debitori per evitare danni dai paesi creditori, quali strategie lesive della sovranità delle decisioni di imprese straniere che hanno partecipazioni nelle imprese nazionali, acquisizione di imprese strategiche e tecnologie delle telecomunicazioni e militari, la necessità di non arricchirli con le esportazioni per evitare che acquisiscono altro capitale sociale nazionale (fagocitare il sistema produttivo nazionale), pericoli esistenziali e militari dalla loro vittoria economica, ricorrono alla guerra per indebolirli, dividerli, staccarli dagli alleati, per evitare l’aggressione del capitale straniero. Insomma, gli autori dovrebbero mettersi d’accordo su chi dichiara la guerra a chi!
    Salvatore Michele De Marco

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