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Parlami di noi. Note di ricerca e militanza in banlieue

La periferia e i suoi abitanti. Chiodo fisso di formazioni politiche e di ricercatori sociali. Tanti militanti quanti antropologi e sociologi si sono immersi nella realtà delle periferie urbane per sondarne la vita e i suoi rivoli.

Che sia serio tentativo di ricerca, lungimirante scommessa politica o banale safari dei poveri non spetta a noi dirlo, né in ogni caso si potrebbe inquadrare in una medesima categoria un intero universo di tentativi sfaccettati, divergenti e contraddittori.

Quello che però possiamo, dobbiamo, rilevare è stata la sostanziale incapacità di entrambe queste soggettività di aprire ad una circolo virtuoso in cui la ricerca sociale sostenga e rilanci la militanza e viceversa l’impegno quotidiano, la “prassi”, orienti e riempia di senso la ricerca.

Salvo rari casi ed indipendentemente dalla buona volontà, i ricercatori pescano materiale sull’asfalto e lo deportano nel grigiore accademico dove resta, inutile e autistico, ad accumulare polvere e crediti formativi; mentre i militanti si replicano quotidianamente in una pratica politica faticosa e asfissiante, dove l’enorme mole di impegno sociale finisce per seppellire la prospettiva e produrre rifiuto risentito o supponente intolleranza verso qualunque forma di discorso anche vagamente più teorico.

Rosso Banlieue, finalmente, mette sul piatto la possibilità (e la necessità), di rompere questa ottusa separazione.

È una ricerca sociale, un’etnografia come dice il titolo, volta non ad un sapere accademico ed autocompiaciuto, ma alla messa a sistema di una serie di dati ed elementi che sono di importanza fondamentale per chi abbia a cuore il rovesciamento dell’esistente.

E difatti l’autore non è la tipica figura di accademico sbarcato in mezzo ai poveri per tirarne fuori la storia, è un militante che tra i subalterni abita, agisce e si organizza. Il sapere tecnico non è finalizzato ad un’estrazione, ma alla condivisione. Base della dimensione politica collettiva.

È una ricerca scientifica come prassi politica. Scrittura come azione, osservazione come presupposto.

Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola, prescrive l’adagio.

E non stupisce quindi che la strumentazione per l’indagine sia ibrida, l’osservazione etnografica fa perno sulle categorie di metodo dell’operaismo italiano, è esplicito il riferimento alla conricerca di Alquati e l’inchiesta di Montaldi.

Proprio rispetto a quest’ultimo c’è un filo diretto, come per i “militanti politici di base” di Danilo Montaldi, l’autore fa una scelta di campo precisa: non parla della banlieue tutta, ma di una sua parzialità (e d’altronde nessuna ricerca può onestamente pretendere di non focalizzarsi su una parzialità e farsi punto di vista assoluto): quella che si organizza, che attraversa le emèutes, i riot contro la brutalità poliziesca, e che innerva il tessuto sociale con le sue attività; quella parte in grado di elevare l’istintiva solidarietà di classe nel quartiere in forza d’urto per l’affermazione del proprio diritto all’esistenza.

I “militanti politici di banlieue”, sono quel frammento di realtà che contiene e illumina al proprio interno un intero mondo.

Già a procedere così, il risultato è notevole. È un colpo alla nuca dell’accademico, col suo sapere sterilizzato, e dell’attivista, con le sue nevrosi prometeiche.

Fare fuori due figure di cui onestamente ci siamo stufati, che continuano ad occupare spazio fuori tempo massimo, per lasciare il campo al militante con la sua prassi fatta di inchiesta e azione.

Un registratore che specie di notte non dà pace.

Attraverso il racconto e l’esperienza di questo frammento, viene a galla una dimensione squisitamente politica di rivolta alla propria condizione di subordinazione. Lavorativa, sociale, razziale, di genere. Gli innumerevoli livelli del dominio, e i ruoli da esso prodotti, sono messi in discussione nella pratica collettiva.

Ancora un altro ritorno di Fanon in città. Tramite la prassi rivoluzionaria il dominato nega sé stesso in quanto prodotto del dominio e si appropria della sua essenza umana.

E che si tratti di una barricata nelle strade, di una palestra popolare o di una resistenza alla speculazione edilizia poco cambia, si tratta di un repertorio di tattiche di resistenza che nelle mani dei subalterni servono tutte, e devono tutte essere calibrate a seconda della situazione contingente.

Non è casuale la lontananza di queste soggettività politiche tanto dalla politica tradizionale (ricordiamo ancora, col martinicano, il corpo dello Stato in periferia o in colonia veste guanti, elmetti e sfollagente) quanto dai movimenti antagonisti.

In banlieue ci si muove sull’istanza del bisogno: il lavoro, la casa, gli spazi, la bestialità dei gendarmi; sofismi ideologici mal si accordano al cemento armato. E ci si muove coi propri vicini, coi parenti e con gli amici.

Non si può tracciare una linea di demarcazione netta tra il corpo politico e quello sociale. Non esiste una purezza rivendicativa che possa fare a meno della componente religiosa islamica, o uno scontro che possa prescindere dalla presenza di giovani teppisti assai poco avvezzi all’analisi di fase.

Il rapporto è ancorato strettamente e indissolubilmente alla condizione locale.

Vi è una incomunicabilità di fondo che separa collettivi di banlieue e collettivi antagonisti della città. E il motivo emerge lampante e crudo nelle voci dei protagonisti: è una questione di classe.

Ecco che attorno al frammento comincia ad addensarsi il mondo.

Ed ecco che qui una ricerca del genere è fondamentale.

, dove la disarticolazione della vecchia classe operaia è stata presupposto e trampolino per la ristrutturazione dell’intero modo di produzione capitalista interno della Francia (ma similmente è avvenuto per il resto d’Europa). È il più avanzato laboratorio del nemico e pertanto la trincea di prima linea dei subalterni.

Ad abitare questa trincea ogni culturalismo o essenzialismo sociologico perde senso. Ogni antirazzismo filantropico ed umanista è barocco e fuori luogo. La questione è una questione di classe. Non si abita la banlieue perché si è neri, o perché si è poveri.

Si è neri perché si è poveri, e si è poveri perchè si abita la banlieue. La subordinazione costruisce gabbie d’acciaio.

La questione razziale tanto cara ad un antagonismo di maniera non è che una frazione ancillare del tema cardine. Che cosa rappresentano queste vite?

Le macerie di una vecchia classe operaia, sventrata e sconfitta, sono il terreno di coltura su cui si è allevato un proletariato le cui condizioni di vita sono transitorie, vessatorie e cangianti quanto è variabile il mercato del terziario in cui è stata incanalata quest’umanità.

I quartieri che erano roccaforti socialiste sono ora luoghi di conservazione per un esercito di forza lavoro di riserva, una discarica di vite in eccesso ed un laboratorio di sperimentazione per tecniche di disciplinamento e sfruttamento. Volendo, potremmo dire anche un campo d’addestramento formato maxi per polizie il cui ruolo è sempre più quello di essere forza d’intervento anti-insurrezionale.

Si profila così una classe che fatica ad organizzarsi, se non a riconoscersi, in quanto tale poiché polverizzata negli ingranaggi di un mercato iper precarizzante e predatorio. Composta di immigrati e proletari autoctoni, di frange degli ultimi scalini del ceto medio caduto in disgrazia con le ultime tornate di crisi.

Morto il contropotere delle tute blu e dei loro spazi omogenei emerge potente l’urgenza di guardare alla vecchia figura del lumpen per andare a cercare il soggetto rivoluzionario.

Il territorio diventa elemento fondamentale per l’individuazione e la costruzione di una forza comune.

Non solo, nell’osservare le tecniche di mantenimento dell’ordine si assiste al mutamento dello Stato, senza più la minaccia del potere popolare, in struttura ormai solo parzialmente autonoma rispetto le esigenze del capitale; le cui agenzie del controllo possono assumere il volto mellifluo dei servizi sociali e delle retoriche individualizzanti e proto-clericali dell’affermazione personale, oppure quello rabbioso e provocatore delle brigade anti criminalitè che mietono vittime e agiscono come corpi occupanti in territorio nemico (e questo soprattutto, la dice lunga sul rapporto che si va delineando tra potere statale e corpi sociali), ma in ogni caso volte al prevenire il formarsi di una classe per sè.

Tenere in terra il nemico per non permettergli in nessun caso un proprio potere e proprie istituzioni.

L’indagine è complessa e strutturata, il ritratto dettagliato e assoluto. Il tutto respira in una parte.

Ora, se diamo per assodato che le banlieue e, più in generale, gli spazi ad essa affini, siano luoghi dove si formano i contorni della classe a venire, e quindi si profilano come uno spazio in espansione e mutamento.

E se diamo per buono che il sapere messo in campo dall’autore, e quindi tutto quel repertorio di strumentazione metodologica e presupposti teorici, è patrimonio di una classe media in permanente emorragia assolutamente necessario alle lotte sociali; allora dobbiamo chiederci: dove e in che modo una certa produzione di soggettività straborda dalle banlieue e si riversa nella città per inglobare nuovi corpi da gettare nel tritacarne del capitale?

In altri termini, dove l’energia e l’esperienza del soggetto di banlieue incontra i saperi frustrati del basso ceto medio? Dove si danno spazi di saldatura piuttosto che di inconciliabilità?

Rosso Banlieue non va inteso come uno sguardo su una realtà dura e lontana, affascinante perché mediata dall’occhio del ricercatore. Va preso come uno strumento di lotta, una proiezione su un futuro che, se già non è qui, allora è comunque più vicino di quanto si sia disposti ad ammettere.

Questa banlieue non parla di storie lontane. Parla di noi e per noi. È una ricerca sulle potenzialità della lotta politica e dell’organizzazione dei subordinati. E non può essere toccata piano.

* da Carmilla online

Atanasio Bugliari Goggia, Rosso BanlieueEtnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi, Ombre Corte, Verona 2022, 477 pp. 29,00€

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