Solo un rapido fido bancario ha permesso di mettere una toppa e far ripartire i mezzi.
È la prima volta che accade in una grande città italiana ed europea. E non è un incidente di percorso di quei “pasticcioni di napoletaniâ€. È un segnale anticipatore di un’epoca.
La ragione profonda infatti risiede nelle politiche di taglio della spesa pubblica e di privatizzazione dei servizi sociali, anche quelli essenziali. Paolo Berdini, urbanista abituato a denunciare i guasti di simili scelte, ricorda sinteticamente i passaggi di questa lucida follia che minaccia direttamente la “civiltà urbanaâ€. A far data dagli accordi di Maastricht, all’inizio degli anni ’90, parte l’offensiva contro “la mano pubblica†nello spazio metropolitano, nell’istruzione, nella sanità , nel welfare. A tutto questo dovrà pensare “il mercato†e si continua a dirlo dopo 20 anni, nel mentre si sono andati riducendo drasticamente i trasferimenti di bilancio a favore degli enti locali.
Giustamente si ricorda l’opera infame di Franco Bassanini, allora eroe della “semplificazione†in salsa democratica (prima di Calderoli, insomma), che tra le altre cose ha liberalizzato l’uso degli oneri di urbanizzazione, fino ad allora vincolati al miglioramento delle qualità urbana. Per i sindaci – perbene o permale che fossero – è scattata una trappola che obbligava a concedere spazio edificabile alla speculazione pur di “rimediare†un po’ di fondi.
Di fronte alla paralisi, la ricetta liberista prescrive altre “privatizzazioni e dismissioni del patrimonio pubblicoâ€, già ridotto ai minimi termini in termini quantitativi e pesantemente svalutato nella più generale caduta dei prezzi sul mercato immobiliare. Di fronte a un corpo devastato dalla droga, insomma, il medico pazzo prescrive un dosaggio maggiore della stessa droga.
Il blocco del trasporto metropolitano a Napoli segna il limite oltre cui la continua compressione dei servizi pubblici si trasforma in paralisi della vita sociale e produttiva.
Nel campo dell’istruzione, per esempio, l’identica distruzione nelle capacità riproduttive delle istituzioni scolastiche (dalla materna all’università ) ha bisogno di un ventennio per mostrarsi come degrado effettivo. E comunque resta un margine “interpretativo†nella quantificazione del danno.
Anche nella sanità gli effetti si possono misurare solo sul lungo termine e con metodi statistici: tot ricoveri, tot decessi, tot di riduzione delle aspettative di vita, ecc. Ancora più nebulosi sono i confini oltre cui l’estirpazione del welfare (dalle pensioni all’assistenza) può essere indicata come causa diretta di un generale impoverimento nelle condizioni di vita.
Nel trasporto pubblico urbano, invece, il punto di tracollo – dopo venti anni di “riduzione degli sprechi†– si presenta come immediato e incontrovertibile. Paralizzante, in senso “tecnico”. La città si ferma, e con lei la produzione. Possiamo persino considerare ininfluenti, come fanno Monti e gli altri appassionati della governance liberista, i danni che l’improvviso blocco provoca alla “vivibilità metropolitanaâ€. È sufficiente quantificare i guasti in termini di prodotto interno lordo per capire quanto la “politica dei tagli†diventi a un certo punto auto-amputazione di parti sensibili.
Impossibile anche solo pensare che la scomparsa del trasporto collettivo possa essere compensata da un incremento vorticoso dei mezzi individuali. La metropoli contemporanea, in Italia come altrove, non è stata costruita per sopportare flussi di traffico ad libitum. La rete viaria è pur sempre un sistema idraulico che “regge†fino a una determinata pressione; poi cede. Soltanto chi ragiona in termini puramente finanziari – quindi matematici, non fisici – poteva immaginare che la funzionalità profonda del vivere metropolitano avrebbe tollerato senza grandi problemi la torsione “privatisticaâ€, l’eliminazione di servizi “lubrificanti”.
Il ricordo del blackout di New York dovrebbe invece essere un incubo ancora vivo. Non si passa impunemente da un certo grado di civiltà ad uno più arretrato, da un meccanismo sociale che funziona in automatico – come un gigantesco e rumoroso orologio – a un sistema universale in cui ci si deve “arrangiare†per conto proprio. In ogni caso, non è indolore.
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alfonso de amicis
Mi son fatto un giro per giornali, sperando di trovare un commento sulla “città bene comune”, magari ragionando sulle analisi di David Harvey, niente di niente. Ho pensato che essendo David comunista, meglio desistere. Il Manifesto che ancora si pregia di essere quotidiano COMUNISTA non pensa affatto circa una analisi delle tendenze in corso del capitalismo neoliberale. Anzi tra Daniela, Norma e altri continuano a elugubrare sulle elezioni più inutile della storia repubblicana. Forse dovremmo pensare ad un foglio cartaceo. “Prendiamoci La Città”
HASTA