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Xavier Dolan si ritira: non è mai troppo presto!

Da qualche giorno una notizia piuttosto clamorosa, se rapportata alla dimensione del personaggio, sta rimbalzando sui media e i social di mezzo mondo.

Una notizia che promette di turbare quelle manifestazioni circensi che sono ormai diventate i circuiti dei premi cinematografici festivalieri. Oltre al sonno di qualche critico à la page e alle certezze di molti intellettualucoli liberal-mercatisti e sinistrorsi.

Xavier Dolan, celebrato regista, sceneggiatore, attore, montatore, costumista, produttore cinematografico, scenografo e doppiatore canadese giunto alla ragguardevole età di 34 anni, dichiara di voler lasciare il cinema.

Dopo otto film da regista e poco più del doppio da attore.

Questa la motivazione: «Troppa delusione, nessuno vede i miei film. Non ho più forza né voglia di fare cose che nessuno guarda e che non mi fanno guadagnare nulla».

Un’esternazione che francamente suona più come il capriccio di un moccioso viziato e privato delle caramelle -o peggio come una trovata pubblicitaria- che come la ponderata riflessione di un autore maturo e del calibro artistico riconosciutogli.

Cominciamo col dire, infatti, che si potrebbero citare qui registi del valore di Romano Scavolini, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Claudio Caligari, Tonino De Bernardi, Nico D’Alessandria, Valentina Pedicini, Agnes Varda – solo per fare qualche nome – i cui film non sono certo noti al grande pubblico e dubito abbiano incassato cifre astronomiche, ma hanno sicuramente segnato nel profondo la storia della settima arte.

Non sempre popolarità è sinonimo di qualità, anzi. Soprattutto nella contemporaneità dell’omologazione culturale e del dominio del profitto.

Altrimenti la D’Urso sarebbe Margherita Hack e i Vanzina i nuovi Chaplin. Tanto per capirci.

In seconda battuta vorremmo poi esprimere al giovane regista canadese, turbato dall’indifferenza del pubblico che non fa la fila al botteghino per guardare i suoi film, la nostra solidarietà. Ma con la gente, quella che ne trascura un’ opera che fatichiamo a ricinoscere imprescindibile.

Sembra che una volta tanto il pubblico, quasi sempre in balia del gusto imposto dal mercato e dalle élite intellettuali, abbia le sue ottime ragioni.

Perché Dolan, almeno secondo il nostro come sempre opinabiissimo giudizio -e non dubitiamo che qualcuno si affretterà ad opinare, com’è giusto che sia- non è altro che un bluff cinematografico. E pure riuscito male.

Un po’ come i Sex Pistols nel mondo del rock.

L’ enfant prodige canadese è, per dirla tutta, un irritante videoclipparo con velleità autoriali.

Chi scrive ha visto 5 suoi film (“Les amour imaginaires”, “Laurence Anyways e il desiderio di una donna”, “Mommy” “Tom à la ferme” ed “È solo la fine del mondo”) e in nessuno ho trovato motivi di grande interesse.

O quei lampi di genialità che l’intellighenzia sinistrese e radical-chic – l’unica che, chiusa nella sua eburnea e sdegnosa autoreferenzialità intellettuale, sembra adorarlo – è capace di riscontrare ad ogni pellicola. Gridando al “capolavoro”.

A noi modesti commentatori di faccende culturali, vetero marxisti e poco inclini alle tendenze modaiole in voga nei clan della sinistra borghese, Dolan ci appare viceversa come un fanciullo coccolato da una critica ormai inutile, schiava del sensazionalismo consumistico e di una mera codificazione semiotica del cinema.

Una concezione liberista dove a prevalere -come per capirci accade con l’altro grande bluff del cinema internazionale, il mai abbastanza ridimensionato Sorrentino- sono il linguaggio, la visione estetizzante, la formalizzazione stilistica a mo’ di Arcadia cinematografica, l’astrazione privata e il dramma posticcio.

Un apparato formale e concettuale che ha annichilito da tempo la significanza ponendo, sempre più lontano sullo sfondo, il senso, il contenuto, il contesto, la Storia, l’analisi socio-politica e socio-economica, l’autenticità della tragedia umana, anche quando essa si fa farsa ignobile e grottesca.

Dolan è il corifeo del manierismo spacciato per poesia. Un autocompiaciuto e presuntuoso figlio di papà con lo stigma del genio incompreso.

Le sue pellicole non coinvolgono, annoiano, restano sullo schermo. Felici di ammirarsi per l’inessenziale trovata ad effetto. Per i coup de théâtre da spot pubblicitario.

A cominciare dall’osannato Mommy. Una pellicola insulsa, scritta male, infarcita di cliché sul disagio mentale, stereotipata nel rapporto che si vorrebbe lacerato e lacerante tra madre e figlio.

Un’opera retorica e piagnona. Mai allusiva, sempre sovraesposta (caratteristica comune ai suoi lungometraggi) il cui unico pregio, che fece gridare al miracolo, è l’inquadratura ridotta 1:1, che nei momenti di euforia del film si allarga di poco.

Metafora visiva ed extradiegetica (il referente è l’occhio dello spettatore) di una banalità sconcertante.

Ci chiediamo, a questo punto, come dovremmo considerare un maestro del cinema sovietico come Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e il suo Sciopero, del 1934.

Dove le innovazioni stilistiche erano non solo stupefacenti, considerando l’epoca, ma dense di significato all’interno della struttura filmica e sempre adiacenti al senso politico, complessivo e profondo dell’opera in parola.

Mai una pura convenzione estetica e ad effetto.

E pensare che Mommy ottenne il premio speciale della giuria a Cannes nel 2014 ex aequo addirittura con Adieu au langage di Jean-Luc Godard. Che tempi signora mia. Che tempi!

Il cinema di Dolan è insopportabile nella sua nevrotica ossessione autoriale e poetica.

Addirittura schizofrenico nello iato tra desiderio di piacere al pubblico, ammiccamento alla critica festivaliera e pretenziosità d’autore complesso e dal potente respiro creativo.

Un cinema che si dimena lunatico tra luoghi comuni, vittimismo, esigenze narcisistiche, masturbazioni intellettuali, pseudo trasgressioni e formalismo post postmoderno.

Il tutto condito da un’inautenticità spacciata per originale genialità. D’altra parte è pur sempre l’epoca dei pataccari!

Ma il pubblico, seppur raramente, può essere, come detto, più intelligente della falsificazione imposta dalle logiche di mercato. E stavolta ha fiutato l’inganno.

Dunque, se ne vada pure. il buon Xavier a riflettere su qualche cucuzzolo di montagna. E speriamo non ci ripensi. Come pare abbia già fatto smentendo in parte sé stesso.

D’altra parte, alcune dichiarazioni del sedicente genio canadese, noi vecchi critici militanti comunisti non riusciamo proprio a digerirle, reputandole ai limiti dell’inaccettabile classismo. Come quella rilasciata durante la Festa del Cinema di Roma nel 2017 e riportata dal Sole 24h:

«Ci sono molti film con persone senza speranza, fortuna e felicità, gente che non ha niente e che non lotta. Chiamo questi film la pornografia del popolo. Film che parlano di emarginati, di perdenti. Io invece amo i combattenti, i film che danno speranza, pellicole in cui devi combattere per diventar quello che sei davvero».

Ecco, noi le classi popolari, gli ultimi, gli sconfitti, gli emarginati ce li teniamo stretti. Sono la nostra gente. I nostri fratelli. I nostri compagni.

A Dolan lasciamo la sua pornografia. Quella che dà il culo e l’arte all’élite intellettuale in cambio di qualche premio.

Caro Xavier, non è mai troppo presto per ritirarsi!

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