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Ci lascia Marcello Colasurdo, voce del movimento operaio napoletano

Ci ha lasciati ieri l’altro Marcello Colasurdo. Voce storica e cofondatore del gruppo operaio I Zezi di Pomigliano d’Arco.

Una notizia non inattesa, considerando che Marcello era malato da tempo nonostante l’età non certo avanzata; ma sicuramente una morte che lascia un vuoto incolmabile nella storia della musica popolare napoletana.

Vuoi per l’indiscusso valore artistico di Marcello, vuoi per la sua dimensione politica, culturale e umana.

Marcello era un compagno sincero e ironico, ma allo stesso tempo implacabile nella sua critica spietata al sistema capitalistico.

Un compagno che non risparmiava sarcasmo e ruvidità di toni ai potenti di turno o ai cosiddetti intellettuali à la page.

Quella di Marcello è stata dunque una voce che si levava alta contro le ingiustizie di questo mondo, in cui il profitto sembra oramai l’unica ragion d’essere.

Sin dal 1974 – anno di fondazione dei Zezi – Marcello ha dato corpo e voce alle lotte e al movimento operaista coagulatosi intorno all’Alfa Sud di Pomigliano.

Erano gli anni della rivolta diffusa e della rivoluzione possibile.

Anni in cui cultura e politica, arte e politica, teatro e politica, musica e politica si fondevano in un grumo incandescente che liberava nuove energie e nuovi linguaggi, sperimentando pratiche altre di aggregazione e conflitto (anche armato) contro i vetusti pilastri della società borghese e le sue reazionarie sovrastrutture intellettuali.

Gasparazzo, ovvero l’operaio massa rozzo, senza mestiere e senza patria, che aveva dovuto abbandonare terre e campi per le linee di montaggio e la parcellizzazione del lavoro imposto dall’industrializzazione forzata, aveva preso allora il posto dello “specializzato”, saggio e caustico Cipputi, quale soggetto rivoluzionario e simbolo di un nuovo protagonismo operaio.

‘E Zezi di Pomigliano nascono in quel preciso momento, dall’aggregazione di un gruppo di operai, studenti e artigiani, e all’interno appunto di quel crogiuolo sociale, politico e creativo dove si affermavano concetti come la fabbrica diffusa e l’operaio sociale. Ma anche l’immaginazione al potere.

I progetti urbanistici delle nuove metropoli, intanto, prendevano forma e senso sviluppandosi proprio intorno a quella stessa fabbrica.

Non più quindi semplice luogo della produzione, ma apparato che lega il lavoro alla res extensa della valorizzazione sociale.

In poche parole la fabbrica assumeva, in quel contesto, il ruolo di dispositivo attraverso il quale tutta la società veniva messa al lavoro.

E si delineava come nuovo paradigma economico-esistenziale – proiettato nel futuro, come poi abbiamo potuto constatare – per l’autovalorizzazione del Capitale e la mercificazione della vita.

Ad essa venivano a sommarsi, nelle metropoli cotemporanee, gli edifici atti alla repressione, quali carceri e ospedali psichiatrici. Discariche sociali riservate ai ceti subalterni e laboratori per il contenimento dell’antagonismo politico.

Temi di vastissima portata che diventarono il nucleo espressivo della musica d’ ‘E Zezi, innestandosi sui ritmi e le sonorità della tradizione popolare campana e meridionale.

Fin dall’inizio, infatti, lo scopo del gruppo era quello di fondere esperienze e vissuti dell’entroterra napoletano in un progetto comune di riscatto sociale attraverso le arti.

Nell’entroterra napoletano e in particolare a Pomigliano d’Arco, secondo il gruppo si condensavano, in effetti, tutti i paradossi creati dall’ industrializzazione forzata che aveva determinato anche il progressivo snaturamento e abbandono delle culture contadine della zona.

Il culmine di questo paradosso era rappresentato per l’appunto dalla fabbrica, ovvero dalla ormai storica Alfasud di Pomigliano, simbolo delle promesse di un rilancio sociale ed economico del Mezzogiorno.

Nella musica d’ ‘E Zezi le contraddizioni del sistema industriale e la manomissione che il territorio e la sua cultura contadina stanno subendo ad opera delle istituzioni e degli agenti del Capitale nazionale, deflagrano perciò con tutta la potenza della protesta e della rabbia contadina ed operaia.

Canzoni come ‘A Flobert, dedicata ai dodici lavoratori in nero della Flobert – fabbrica di armi giocattolo e fuochi d’artificio – che nel 1975 persero la vita a causa di un’esplosione; o pezzi come Tammurriata dell’Alfa Sud, rappresentano ancor oggi un manifesto politico in musica contro lo sfruttamento del lavoro e le logiche perverse del profitto purché sia.

Marcello Colasurdo – che di quel gruppo è stato, come abbiamo detto all’inizio, voce, corpo e anima – accompagnato dalla sua tammorra o dagli strumenti tipici della tradizione musicale napoletana, ci restituiva l’acre odore del sangue plebeo impastato con la terra, nei suoi accenti dolenti o nelle sue travolgenti tammorriate.

Un δαίμων (demone) attraverso cui il proletariato meridionale poteva esprimere la sua collera e il suo dolore. Ma anche il sincero desidero sessuale, libero dai condizionamenti e dalle ipocrisie della cultura borghese.

Marcello è stato lava incandescente e poesia epica di un’umanità antica che reclama la sua essenza di fronte alle degenerazioni di un progressismo illusorio, il cui unico tratto distintivo è la merce

Con lui, come detto, se ne va un pezzo di storia della musica e del movimento operaio napoletano.

Mi sia consentito ora un ricordo personale.

Ebbi il privilegio di conoscerlo durante il mese mariano del 1995. Quando animato dal fuoco della conoscenza e della giovinezza decisi di scoprire tutte le feste e le tammurriate che si tenevano e si tengono in Campania durante il Maggio.

Dalla tammorra della Madonna dell’Arco a quella ipnotica di Giugliano con lo zufolo. Da Acerra alla travolgente Madonna delle Galline a Pagani.

Marcello era sempre presente. Un trascinatore, una grandissima personalità, una figura di artista unico e completo.

Capace di coniugare come pochi, sempre più rari, arte e impegno politico militante e rivoluzionario.

Lo rividi un’ultima volta tre anni fa. Durante la festa per i trent’anni di Officina 99. Era già molto malato, camminava su una sedia a rotelle e ci vedeva poco.

Lo salutai teneramente, ma dubito mi abbia riconosciuto

Ciao Marcello. Ci mancherai!

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