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Il “marxismo del Capitale” e la lezione di Gianfranco Pala

Quando viene meno una persona che ha lasciato una traccia profonda nella nostra vita, la mente corre sempre al primo incontro, quasi esso già contenga ‘in nuce’ il rapporto successivo e la ragione di quella traccia.

Correvano gli anni Ottanta e, come mi è occorso di evocare ricordando il compagno Roberto Sasssi recentemente scomparso, nelle nostre peregrinazioni tra varie città italiane, alla ricerca di gruppi politico-intellettuali che fossero mobilitabili nella formazione (se non di un nuovo partito) di una frazione comunista capace di irradiarsi in più direzioni, intercettammo anche il gruppo del critico dell’economia politica Gianfranco Pala, il quale, dopo aver preso parte all’esperienza della rivista Lineamenti, aveva avviato con la rivista La Contraddizione quella che è stata la più importante esperienza di restaurazione, rilancio e approfondimento del marxismo che abbia prodotto il movimento comunista italiano nei quattro decenni intercorsi da allora.

Come accade a tutti coloro che invecchiano, anche a me capita di rimpiangere il cameratismo comunista e i simposi fraterni con gli amici e i compagni.

In un passo famoso dell’“Antropologia pragmatica” Kant scrive: «La specie di benessere che sembra meglio accordarsi con l’umanità è un buon pranzo in buona (e, se è possibile, anche varia) compagnia, della quale Chesterfield dice che non deve essere al di sotto del numero delle Grazie, né al di sopra di quello delle Muse».

In poche parole, meno di nove e più di tre.

E personalmente trovo che Chesterfield esageri per eccesso. Il numero perfetto a tavola è, secondo me, quattro, come i Cavalieri dell’Apocalisse. Tali, o non molto dissimili da questo formato, eravamo noi quella sera in cui a Roma fummo ospiti in casa di Gianfranco e di sua moglie Carla, che ci offrirono una cena avente per base una spalla di squisito prosciutto crudo e abbondanti schegge di un gustoso formaggio parmigiano, il tutto annaffiato dal buon vinello dei colli romani.

Non era la prima volta che mi confrontavo con Gianfranco, ma era la prima volta che potetti farlo di persona e non per telefono o per lettera.

Certamente, non era la prima volta che attraverso la lettura dei suoi scritti, divenuta poi un appuntamento costante degli anni seguenti, la mia formazione antihegeliana fortemente influenzata da Della Volpe e da Althusser cominciava ad incrinarsi e si dischiudeva, nel confronto teorico, ideologico e politico con Pala (ma anche con Roberto), il varco del mio ritorno ad Hegel, pensatore dal quale avevo peraltro preso le mosse durante gli anni dell’università.

Così. mentre la discussione sui problemi e sulle prospettive del movimento comunista animava, tra battute e repliche, il vivace confronto politico-ideologico che si svolgeva in quell’appartamento romano, la recidiva di quella che è stata definita dai suoi avversari la “malattia di Hegel” mieteva una nuova vittima.

Non vi è dubbio che Gianfranco Pala, assieme a Gianfranco La Grassa, Maria Turchetto e Riccardo Bellofiore, appartenga alla schiera di quegli studiosi che hanno dato corpo e ali alla ripresa della critica dell’economia politica e hanno fatto emergere nel nostro paese, dopo molte false partenze, un marxismo che può legittimamente essere definito “marxismo del Capitale”.

Questi autori non solo hanno sviluppato coerenti e significative riproposizioni o rielaborazioni del pensiero di Marx, ma hanno anche cercato di rispondere alla cosiddetta “crisi del marxismo” verificatasi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, incentrando l’analisi sui rapporti sociali di produzione e sul processo lavorativo, e hanno poi elaborato analisi significative della globalizzazione imperialistica.

Sia pure in forme minoritarie, battendosi contro una cultura mediatica ostile, e spesso da posizioni precarie e marginalizzate, Pala va dunque annoverato fra quei teorici di valore che si sono sforzati sia di rimanere fedeli alla tradizione in cui avevano formato il proprio pensiero sia di operare all’interno di essa con rigore critico e spirito di trasformazione.

Prova ne sia, per quanto concerne la linea Hegel-Marx-Engels-Lenin-Brecht, in cui Pala si inserisce e all’interno della quale opera producendo acquisizioni metodologiche, teoriche e analitiche di alto livello qualitativo, il brano seguente, tratto da un suo scritto che qui riporto al fine di mostrare, per l’appunto, il ‘modus operandi’ di questo studioso marxista sul terreno della critica dell’ideologia borghese-capitalistica.

«Gli uno son così presupposti uno a fronte dell’altro.

Così la pluralità appare come una determinazione

completamente esterna all’uno. La lor relazione è

determinata come una relazione che non è una relazione.

È il lor limite, ma un limite che è loro estrinseco,

un limite in cui non hanno da essere l’uno per l’altro.

La moltitudine degli uno è l’infinità, come contraddizione,

che, quasi neutrale, produce se stessa.

[G.F.W. Hegel, Scienza della logica, Uno e molto. Molti uno. Repulsione]

Hegel non parlava del capitale (e dei capitali), ma già presupponeva ciò che Keynes e tutti quanti gli economisti borghesi non avrebbero mai capito e voluto capire.

La pluralità dei capitali, “come contraddizione che produce se stessa”, è ineliminabile dall’essenza stessa del modo di produzione capitalistico. Cionondimeno tutti i tentativi teorici dell’economia politica sono sempre andati, al di là delle apparenze e delle parole, in questa direzione, che brama l’armonia e la riduzione della molteplicità dei capitali a un capitale unico autoreferenziale.

Cosicché le pratiche del potere borghese non hanno mancato mai di convergere, nel corso del tempo, verso la rappresentazione ideologica e l’imposizione forzosa di siffatta armonia. Il corporativismo, vecchio e nuovo, è il necessario punto d’approdo di codeste politiche. La maldestra costruzione keynesiana può essere considerata la più cospicua esperienza concettuale e operativa per il perseguimento di tale obiettivo.»

Ma Gianfranco Pala non è stato soltanto un grande critico dell’economia politica: basti leggere, a tale riguardo, quell’autentico gioiello della letteratura marxista contemporanea che è “Pierino e il lupo”, in cui egli svolge, coniugando fra di loro rigore analitico, metodo dialettico ed eleganza formale, una serrata critica della teoria di Piero Sraffa.

Procedendo sulle orme di Marx, di Engels e di Lenin, egli ha infatti saputo saldare la critica dell’economia politica alla teoria della transizione dal capitalismo al socialismo/comunismo, senza la quale quella critica resterebbe, come accade nelle carenti elaborazioni di certi marxisti dimidiati, monca e infruttuosa.

Così, su questo tema decisivo – il ponte fra la critica dell’economia politica e la teoria della transizione – rimane per Pala un termine teoretico di riferimento esemplare la convinzione di Lukács secondo cui “la critica dell’economia politica è fondata, metodologicamente, sulla teoria hegeliana della risoluzione dell’immediatezza mediante l’indicazione delle categorie storiche mediatrici, mediante la genesi concreta, storica”, poiché “la immane impresa intellettuale di Hegel è consistita nel rendere la teoria e la storia dialetticamente relazionate l’una rispetto all’altra, concependole in una reciproca compenetrazione dialettica”.

Si attaglia dunque perfettamente a questo essenziale rilievo il seguente brano di Hegel, tratto dalla “Fenomenologia dello Spirito”, che può essere assunto, in forza della centralità che assume la categoria concettuale della mediazione, come cifra teoretica capace di caratterizzare la linea portante di quel “marxismo del Capitale” di cui Pala, assieme a pochi altri studiosi, è un esponente di primo piano.

«Il vero è l’intiero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. L’Intero vero e proprio è il risultato con il suo divenire. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità.

Il cominciamento, il principio o l’Asso­luto, come da prima e immediatamente viene enunciato, è solo l’Uni­versale. Se io dico: “tutti gli animali”, queste parole non potranno mai valere come una zoologia; con altrettanta evidenza balza agli occhi che le parole: “divino”, “assoluto”, “eterno”, ecc. non esprimono ciò che quivi è contenuto; e tali parole in effetto non espri­mono che l’intuizione, intesa co­me l’immediato. Ciò che è più di tali parole, e sia pure il passaggio a una sola proposizione, contiene un divenir-altro che deve venire ripreso, os­sia una mediazione.

Della mediazione peraltro si ha un sacro orrore. Ma, in effetto, quel sacro orrore deriva dall’ignoranza della natura della mediazione e della stessa conoscenza assoluta. Se, indubbiamente, l’em­brione è in sé uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto come ragione spiegata, fattasi ciò che essa è in sé; soltanto questa è la sua effettuale realtà. Ma tale risultato è esso stesso immediatezza semplice; esso è infatti la libertà autocosciente, che ri­posa in se stessa, senza aver messo da parte, per poi lasciarvela abbandonata, l’opposizione; che è, anzi, conciliata con l’opposizione.»

Come ha scritto Göran Therborn, il marxismo è una “triangolazione”, poiché è, al tempo stesso, una filosofia, una scienza e una politica: la “triangolazione” tra questi tre poli, con lati di lunghezza variabile a seconda delle correnti e delle esperienze storiche, dà luogo a infinite variazioni sulla figura geometrica del triangolo. Oggi tuttavia, secondo il parere di questo studioso, “il classico triangolo marxista si è spezzato, ed è assai improbabile che lo si possa ricomporre”.

Se volessimo inscrivere il contributo di Gianfranco Pala all’interno di questo triangolo, potremmo rilevare che tale figura geometrica è, grosso modo, equilatera: dunque, molto stabile e di promettente sviluppo (al contrario di quanto afferma lo studioso citato).

Ecco perché l’autore dell’“Ultima crisi” e di “Pierino e il lupo” rappresenta all’interno del movimento di classe, dal quale proveniva e al quale non ha mai cessato di rivolgersi, una ricca fonte di riflessione e una guida indispensabile per ogni critico dell’economia politica borghese e per ogni rivoluzionario marxista.

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6 Commenti


  • Giancarlo Staffo

    Da condividere, studiare e diffondere, la vitalità della teoria e del metodo dialettico marxista, questo i ci ha lasciato come strumento insostituibile Gianfranco Pala.


  • Renato Bussolati

    Con Preve il maggiore teorico marxista italiano degli ultimi 50 anni


  • Maria bonatti

    bisogna includere Paolo giussani


  • Eros Barone

    Ho conosciuto sia Paolo Giussani sia Costanzo Preve e ho studiato i loro scritti, che sono certamente importanti e meritano attenzione. Non concordo però con il rigido determinismo di Giussani (una linea retta corrispondente alla scienza senza gli altri due lati del triangolo marxista, corrispondenti alla filosofia e alla politica) e con l’interpretazione del marxismo in chiave antropologica elaborata da Preve, il quale a mio avviso è stato un marxologo ma non un marxista.


  • Franco Savasta

    Il marxismo è la scienza della politica ma quella del fare attraverso una organizzazione di partito. Tutta la vita sia Marx che Engels si sono battuti per il partito internazionale dei salariati. La filosofia per Marx termina con XI tesi su Feuerbach. Con questa tesi e con L’ideologia tedesca sia Marx che Engels tagliano definitivamente ogni legame sia con Hegel che con la sinistra hegeliana. Da questo momento in poi la politica è prassi non chiacchiere inutili e la filosofia può essere solo storia della filosofia e non altre interpretazioni del mondo.


    • Redazione Contropiano

      Il marxismo è scienza del Capitale, la politica – ahinoi – lo è molto meno. Quanto al legame che sarebbe stato interrotto con Hegel, basta dare una letta all’introduzione al primo libro de Il Capitale per sapere che non è proprio così. Ridurre Marx a filosofia della prassi è un brutto modo di interpretare una visione scientifica di enorme potenza…

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