Ho da poco celebrato la mia prima decade da prof. di storia e filosofia. 10 anni, 6 da precario, di cui 3 e mezzo in una scuola paritaria all’estero, e quasi 4 da docente di ruolo. Eh sì, iniziai nel febbraio del 2014, un anno dopo la tanto ricercata abilitazione, presa all’Università di Roma Tre, seguendo corsi molto arraffazzonati e sostenendo esami improvvisati all’ultimo, sia da me che dai docenti del primo ciclo TFA che erano chiamati a predisporli.
Con l’abilitazione in tasca non avevo la minima idea di cosa potesse essere la didattica della filosofia e della storia, anzi, da quello che avevo inteso dai docenti del TFA, non c’era didattica della filosofia e della storia come ambito definito.
Al TFA facevano lezione docenti universitari che si limitavano a ripetere le loro lezioni accademiche. I prof. che venivano dai licei e che avrebbero dovuto farci da tutor nel tirocinio (TFA stava per l’appunto per Tirocinio formativo Attivo), arrivarono negli ultimi due mesi e fecero ben poco se non darci qualche “suggestione”. Mi ricordo una simpatica prof. che veniva dal liceo Morgagni di Roma che ci raccontò di un’attività sulla disputa degli universali, che mi è capitato di riporre alle mie classi in più di un’occasione.
Non se ne parlava, ma al di fuori di quelle sordide aule site in via Ostiense, il dibattito su una necessaria quanto improcrastinabile riformulazione della didattica, anche della storia e della filosofia, c’era e si cominciava a sentire.
A livello strettamente normativo la sostituzione delle vecchie programmazioni nazionali con più blande “indicazioni” era avvenuta nel 2010 con la riforma Gelmini. Un cambio che sembrava di facciata, ma che di fatto imponeva una rimodulazione dei contenuti. Lo imponeva anche perché le ore di filosofia e di storia vennero ridotte in tutti gli indirizzi liceali ad eccezione del Classico, che comunque si stava già avviando a una progressiva estinzione per calo costante di iscritti.
Contestualmente c’era stato il riconoscimento – anch’esso di natura normativa – degli alunni con bisogni educativi speciali (i famigerati B.E.S.) e ciò allo stesso modo imponeva una didattica differenziata e personalizzata, con del materiale semplificato ad hoc che veniva richiesto ai docenti in maniera perentoria.
Quando nel febbraio del 2014 mi ritrovai a insegnare storia e filosofia in un istituto italiano paritario all’estero non avevo nessuna esperienza. Ovviamente avevo assistito alla manciata di ore deputate al tirocinio in senso stretto, ma l’esperienza fu deludente, a tratti imbarazzante. Per risparmiarmi il pendolarismo quotidiano feci domanda per il tirocinio al mio vecchio liceo.
Mi mandarono da due vecchie professoresse, nessuna delle due era laureata in filosofia, una aveva maturato gli anni di servizio in altro ordine di scuola, l’altra aveva insegnato religione. Una faceva lezione in maniera pietosa, l’altra non faceva proprio lezione, si limitava ad ascoltare la parte del manuale ripetuta dagli alunni con gli occhiali scuri addosso e mangiucchiando.
Quindi, che fare? La lezione parlata non aveva alcuna efficacia, in un’ambiente di BES linguistici, in quando quasi nessuno, forse uno o due alunni, era madrelingua.
Studiavo le normative, con tutte le difficoltà del caso, cercando di decifrare un linguaggio che non conoscevo. Cominciai a leggere di didattica, quella che si stava imponendo: cooperative learnig, debate, flipped classroom. Inziai a usare software per realizzare mappe concettuali, come Cmaps Tools, che uso ancora.
Mi iscrissi e feci iscrivere gli alunni alla prima piattaforma di elearnig di facile accesso, Edmodo, poi la mia scuola acquistò il pacchetto Microsoft per la didattica. Pescando da esperienze lavorative passate iniziai con l’audio editing e poi successivamente anche con il video editing per registrare le lezioni facendo un minimo di montaggio.
Il mio rapporto con le pratiche didattiche è stato uguale a quello che da giovane ho avuto con il sesso e con le droghe: ho provato quasi tutto, alcune le uso tutt’ora, altre raramente, altre ancora non le consumo più.
Fino a questo punto il mio sembrerebbe il quadro del classico prof. 2.0, nuovista e innovatore e completamente in linea con le direttive ministeriali e confindustriali.
Invece no.
Oltre ad essere uno sperimentatore spesso scriteriato, sono e rimango di base un materialista e un dialettico (giammai materialista-dialettico). Per questo vorrei spiegare il mio punto di vista sulla questione didattica della storia e della filosofia, intervenendo in maniera cursoria e se vogliamo anche autoreferenziale nel dibattito che di tanto in tanto si accende, sollecitato da personaggi che solo in minima parte hanno i titoli per intervenire.
Nel dibattito sulla scuola in generale e anche nell’ambito più ristretto della didattica della filosofia e della storia, intervengono politici, giornalisti, professori universitari, psicanalisti, scrittori, gente tirata per la giacchetta a caso, tutti accomunati dal non sapere nulla sulla scuola adesso.
1) C’è bisogno una didattica nuova, più interattiva che metta lo studente al centro? Sì, ma c’è sempre stata una modalità interattiva, in alcuni periodi storici molto di più che in altri. Pensiamo alle università tardo medievali con le disputationes, i pedagogisti americani hanno estrapolato dal quel grandissimo bagaglio di esperienze il debate, decisamente più povero rispetto al modello originale.
Di nuovo per il debate, ma anche per il cooperative learnig (niente altro che l’antico “vai a studiare con il tuo compagno di banco”) e la flipped classroom (niente altro che l’antico “fammi una ricerca sull’enciclopedia Treccani e poi esponila alla classe”) c’è solo il format. Standardizzato come una merce da vendere, con il suo libretto di istruzioni, le varie regole di gioco etc.
A mia modestissimo parere, non è un problema utilizzare queste forme ( o addirittura questi format), tutto sta alla capacità critica del docente nell’organizzare le attività e nel selezionare i contenuti. Non è detto poi che questi format funzionino in tutti i contesti, oltretutto, come hanno rilevato anni di ricerche, presentano molti punti di problematicità.
2) Ma allora la lezione frontale è superata? Assolutamente no. Parliamoci chiaro, non c’è niente di più falso, strumentale e disonesto nell’affermare che la lezione frontale è superata. Non foss’altro perché tutti quelli che lo sostengono lo comunicano con una modalità frontale. È un po’ come quella famosa freddura “l’omosessualità è contronatura! Dice l’eterosessuale medio prima di vedersi un porno con due lesbiche”.
In tutti i corsi che ho avuto modo di frequentare, liberamente o obbligato, fino all’ultimo quest’estate sul profilo del tutor orientatore, le cosiddette didattiche innovative mi sono state presentate in modalità frontale ultrapassivizzante. I momenti frontali ci sono e resteranno, nell’università, nel lavoro e non solo, e sarebbe un grave errore ridurre drasticamente i momenti di frontalità nel scuola, soprattutto nella secondaria di secondo grado.
Il punto semmai è un altro: la lezione frontale bisogna saperla fare, modularla, segmentarla, innestarla con momenti dialoganti. Chi non sa progettare e realizzare una lezione frontale efficace difficilmente saprà mettere su un’attività laboratoriale strutturata con tutti i crismi.
3) La didattica è neutrale? No, non si possono scindere le pratiche didattiche dalle pratiche ideologiche, e le pratiche ideologiche dai loro sponsor. La diffusione di questi format didattici viene dal mondo dell’impresa, parliamoci chiaro. Serve a loro, non alla formazione critica delle nuove generazioni. Si richiedono al sistema d’istruzione pubblico figure esecutive, con poche conoscenze e tante capacità operative, gestionali e relazionali.
L’assalto, questo sì frontale, alla frontalità, al sapere, giustamente, fine a sé stesso, all’autocoscienza critica, viene da lì. Chi non tiene presente questo assunto mente sapendo di mentire. Questa operazione che viene dalle centrali del capitalismo mondiale, e che trova in Confindustria il terminale più prossimo, purtroppo ha goduto e gode di una copertura a “sinistra”. La posizione di certi intellettuali accreditati anche nelle frange estreme della movimentismo sono esemplari quanto deleteri.
4) Allora si può e si deve tornare all’insegnamento trasmissivo tradizionale, al GENTILISMO? Non sarebbe sbagliato in linea ideale, del resto in giro sento continuamente moniti a tornare alla cucina tradizionale, alla medicina tradizionale, alle arti marziali tradizionali, non vedo perché non alla didattica tradizionale.
Ma l’Istituzione scolastica non è un ambito comparabile con tutte le altre forme di vita associata. E’ un campo attenzionato prepotentemente dallo Stato, dal Mercato e dalle conseguenti Riforme. C’è da dire che in questi ultimi 25 anni ogni forma di resistenza politico culturale a questo assalto didattico-imprenditoriale è stata vana, troppo spesso velleitaria e improvvisata. Del resto non si può pretendere di trasformare o difendere la scuola senza intaccare la struttura che sta alla base e la sovrastruttura che le sta intorno.
Ci troviamo oggi nella scuola dei PTCO, delle 30 ore di orientamento obbligatorie, degli insegnamenti trasversali, della didattica per esperienze e prove di realtà, o, per dirla in uno solo termine di nuovo conio, della didattica orientativa.
Le opzioni sono due: o si rimane con le mani in mano, ci si fa sottrarre ore e alunni per attività strumentali a un determinato tipo di profilo da altri, siano essi colleghi di altre discipline in linea con le direttive o entità esterne che mettono piede nell’istituzione scolastica con il proposito di restarci; oppure, questo tipo di attività imposte dall’alto se le prende in carico il docente che conserva ancora un approccio critico e contenutisticamente avvertito.
Meglio progettare in senso orientativo e mettere su un’attività di debate sulla disputa postkantiana riguardo la “cosa in sé”, o, meglio ancora, sullo scontro tra spiritualisti e dialettici dopo la morte di Hegel, che ritrovarsi confinato in sala professori con la tua classe impegna a fare simulazione d’impresa.
Meglio portare i ragazzi in archivio a fare ricerche, utilizzando le ore di PTCO, perché no? Visto che l’alternativa sarebbe sbatterli in qualche azienda a fare ricerche di mercato.
È una modalità di sopravvivenza, ma è l’unica possibile al momento. Non aderire ma sabotare con cognizione di causa. Visto che non si scorgono controtendenze politico-culturali all’orizzonte e personalmente gli anni che mi mancano per andare in pensione sono tanti.
P.S. per quanto riguarda l’annosa questione del Manuale. Per filosofia io utilizzo con grande riscontro in termini di efficacia il Bontempelli-Bentivoglio, un manuale vecchia scuola, impostazione hegeliana, strutturazione chiara e coerente, frutto di quarant’anni di insegnamento dei due autori. Platone viene affrontato dialogo per dialogo, Hegel e Kant con un rigore analitico impareggiabile. Non ci sono i testi, mi diverto io a trovarli. Perché la filosofia e la storia vanno affrontate direttamente sui testi, le schematizzazioni arrivano dopo.
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Jacopo
Bravo bravissimo
Eros Barone
L’autore di questo bel profilo autobiografico è un giovane insegnante di filosofia che, per usare una similitudine, ci descrive un convivio apparecchiato con posate e stoviglie di cui elenca con lodevole acume critico i difetti (molti) e i pregi (pochi), ma di cui non ci porge le vivande… Come insegnante di questa materia “bella e impossibile” provo dunque a colmare la lacuna indicando perlomeno le etichette delle vivande. Le aporie sorgenti dai rapporti fra le idee e le cose sensibili in Platone; il destino autoconfutatorio dello scetticismo nel ragionamento “elenctico” attraverso cui Aristotele fonda il principio di non contraddizione; l’argomento del “terzo uomo” nella critica aristotelica e, prima ancora, nell’autocritica platonica della dottrina delle idee; la prova ontologica dell’esistenza di Dio in Anselmo di Aosta e le critiche di Gaunilone, di Kant e di Russell; la contraddittorietà del principio dell’autocausazione e dell’automovimento nelle prove “a posteriori” dell’esistenza di Dio elaborate da Tommaso d’Aquino; il conflitto epistemologico tra realismo e strumentalismo nell’interpretazione della “rivoluzione scientifica” copernicana; il carattere aporetico del dualismo cartesiano; la dimostrazione dell’unicità della sostanza in Spinoza; la deduzione trascendentale delle categorie e le antinomie della ragione in Kant; la deduzione dialettica dell’Io puro in Fichte; l’identità fra soggetto e oggetto nella concezione hegeliana dell’Assoluto; l’inversione dei rapporti di predicazione in Feuerbach; l’analisi del feticismo della merce e la teoria del plusvalore in Marx; l’uomo come “essere delle lontananze” in Heidegger; l’uomo come “essere che è ciò che non è e non è ciò che è” in Sartre; l’uomo come allotropo empirico-trascendentale in Foucault… Ecco i ‘passaggi’ (alcuni fondamentali, altri opzionali) che fanno dello studio della filosofia una prova difficile e impegnativa che permette allo studente di verificare il suo personale rapporto di adeguatezza o inadeguatezza rispetto alla comprensione di questo universo concettuale. A mio avviso, il punto archimedico dello studio della filosofia (e della stessa filosofia ‘tout court’) è il rapporto tra logica e storia. Va detto allora che tale rapporto è fondato sulla duplice consapevolezza che, per un verso, non vi sono proposizioni filosofiche che godano di una sorta di statuto di extraterritorialità rispetto ai condizionamenti (economici, politici e ideologici) della storia e, per un altro verso, tali proposizioni, quando sono il frutto di una ricerca logicamente argomentata e autenticamente filosofica, ci offrono delle verità che, pur non essendo assolute e restando, fino a prova contraria, relative, non per questo sono prive di valore e di oggettività. Orbene, posso dire, avendo fatto tesoro di questa premessa teoretica, che il fine pratico (in senso sia morale sia etico) che ha sempre guidato il mio insegnamento della filosofia è stato quello consistente nel mostrare ai miei allievi che tale disciplina, certamente non da sola ma in un costante rapporto di ‘concordia discors’ con tutte le altre discipline, è la via maestra per giungere a trasformare il destino in libertà e la natura in causalità. Precisamente questo è stato il principio cognitivo e valoriale sotteso a tutte le mie lezioni. La filosofia, del resto, è in sé una disciplina fortemente selettiva e quindi aristocratica, poiché la ragione stessa, che pure è in linea di principio universale, è, rispetto a categorie particolari ma assai potenti come il sentimento, la tradizione, il pregiudizio, l’immaginazione o la sensazione, un patrimonio per pochi. Presumo, fra l’altro, che proprio questo sia il motivo che spiega le valutazioni in genere piuttosto estensive che vengono formulate dagli insegnanti di filosofia sulle prestazioni dei loro allievi: una circostanza che spiega anche perché, nel mercato delle ripetizioni, essi non abbiano alcun posto (il che, tutto sommato, è da considerare un titolo di onore).
Simone Bruscolotti
Ottimo il catalogo ragionato delle grandi questioni. Aggiungerei tra le imprescindibili “il declino del positivismo dalla crisi dei fondamenti della matematica alle epistemologie antifondazioniste”. Rigiro il tuo contributo sul mio blog se sei d’accordo.
Laura Onofri
Articoli e considerazioni assolutamente valide, da indagare. Magari fosse, che si riuscisse a riprendere contatto con le miriadi di giovani “inconsapevolizzati” ad arte e riportarli in massa sull’utilizzo attivo della capacità mentale individuale. Grazie.
Eros Barone
Accolgo senz’altro l’integrazione che proponi e accordo volentieri il mio consenso al riuso del mio contributo nel tuo blog.