Recensione al libro di Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie, 2024 pag 152 € 13
Dopo “DIETRO I FRONTI” e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “IL TEMPO DEL GENOCIDIO”, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire: “cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente giusto.
Allo stesso tempo leggere il contributo di Samah ci rende ancor di più consapevoli del fatto che la solidarietà internazionale verso i palestinesi è quanto mai necessaria ed indispensabile; che la solidarietà verso il popolo palestinese è terapeutica per tutti noi, è un imperativo morale ed etico, che la loro resistenza è sostegno ed aiuto anche per noi, e coniugare questi due aspetti può essere un percorso proficuo per mettere fine alla più lunga e sanguinosa occupazione attualmente in corso, la solidarietà rende i palestinesi consapevoli del non sentirsi soli.
La solidarietà ha un potere curativo reciproco. L’essere impegnata nel campo della psichiatria, Samah dirige l’unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese, fa sì che quanto descritto sia inserito in un contesto storico di quanto avviene. Se vi è ancora bisogno di capire che quanto ci viene raccontato dalla propaganda di guerra: “tutto è iniziato il 7 ottobre” è pura demagogia utile solo a far schierare l’opinione pubblica a sostegno dell’entità sionista delle complicità occidentali, leggere “Il tempo del genocidio” ci permette, con una descrizione lucida, di valorizzare ulteriormente il perché ci schieriamo da una parte, quella di chi non accetta di vivere da schiavi e si ribella, nonostante che Gaza venga lasciata morire.
Poco sopra dicevo della sua descrizione lucida, ma mi sento di aggiungere che niente concede. Lei, del ministero della sanità palestinese, non si sottrae, con un notevole pensiero critico, al criticare quanto di negativo si annidi all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese, dall’illusione degli accordi di Oslo alla conseguente delusione, e del vivere quotidiano in Palestina, con il patriarcato, il sessismo, andando al di là dell’occupazione. Un popolo, quello palestinese, che è stretto tra il sopravvivere e la resa all’oppressore. Samah è ben cosciente del suo contributo alla lotta di liberazione e del volerne dare mano.
Samah ci rende chiaro, in tutto e per tutto, cosa significhi Gaza: una prigione a cielo aperto con le sue infrastrutture deteriorate, le strade distrutte, gli spazi abitativi sovraffollati, la povertà, l’anemia, l’insicurezza alimentare, l’assenza di carburante, di elettricità, di assistenza sanitaria, dove dire: “non ci sono luoghi sicuri” è la normalità e nei volti di chi sta sopravvivendo è fotografata la schiavitù moderna, dove si va accentuando il consumo di droghe e l’abbandono scolastico con tutto ciò che comporta, i suicidi in aumento e la perdita di un positivo desiderio tra i giovani.
Samah usa la lente della psichiatria per leggere lo stato d’animo degli oppressi, mette mano a Fanon, entra dentro i meandri della salute fisica e mentale dei palestinesi, quello che i palestinesi vivono è un trauma psicologico e collettivo che è il risultato di decenni di oppressione, di violenza, umiliazione, ingiustizia. Detto questo, ovviamente Samah non può non riconoscersi nel diritto di un popolo occupato a resistere. Un diritto sia legale dal punto di vista della legge internazionale e sia un diritto umano basilare, perché dove c’è oppressione ci sarà sempre resistenza. A proposito di resistenza, Samah evidenzia il significato dello sciopero della fame portato avanti dai prigionieri politici palestinesi come ultimo tentativo di opporsi alla sopraffazione.
L’aspetto che più dobbiamo far emergere dalla lettura di queste pagine, e lo vediamo in questi lunghissimi mesi, è che i palestinesi non si considerano assolutamente vittime ma soggetti attivi e combattenti per la libertà, terminologia che piacerà sicuramente agli statunitensi come il passato ci insegna. Quanto avviene in Palestina non è la «guerra» che ci viene propinata, ma bensì la guerra alla storia palestinese, è parte della guerra alle menti, la continua, e per certi versi silenziosa pulizia etnica per riscrivere la storia. Non è un caso che l’occupazione scelga di distruggere i simboli che sono psicologicamente importanti per la resistenza e la memoria collettiva, in un odioso tentativo di memoricidio.
Ma l’occupazione non fa uso solo di questo; la fame come arma di guerra; la distruzione delle infrastrutture essenziali, del sistema sanitario, la carestia per compromettere lo sviluppo mentale e fisico dei bambini, le sepolture negate come arma psicologica per immettere una sensazione di impotenza in coloro i quali la subiscono, il sopravvivere che se può sembrare un qualcosa di positivo, in realtà è un qualcosa che trasmette profondo disagio psicologico; la tortura, attraverso le finte fucilazioni, la detenzione in condizioni umilianti e degradanti, la privazione del sonno ecc … con i traumi fisici e psicologici che trasmette per spezzare la resistenza e creare impotenza, far perdere la stima di sé e creare un clima di diffidenza all’interno della comunità di appartenenza, il bendare gli occhi non solo per non identificare i torturatori ma come deprivazione sensoriale creando, così, gravi problemi di salute mentale e conseguenze traumatiche de umanizzando la vittima; le punizioni collettive privando la popolazione dei beni di prima necessità.
Quanti immagini abbiamo visto in questi mesi che ritraggono gli occupanti in modalità festeggiante dopo aver compiuto molteplici nefandezze, ebbene non siamo in presenza di killer psicopatici ma bensì di chi prova piacere e/o gratificazione psicologica nel dare ad altri dolore e/o sofferenza. All’inizio abbiamo parlato del 7 ottobre, non potevamo non farlo visto il continuo, assillante martellante, propinare la narrazione di quel fatto; ma se vogliamo dare una corretta lettura di quei fatti, perché non dire che si è passati dall’umiliazione alla vendetta contro tutto ciò che è palestinese. Certo l’esempio è palestinese, ma la lezione non può che essere globale. Quanto avviene in Palestina è una lotta che non potrà che proseguire fino a quando la Palestina non sarà libera ed arrivare a far sì che le tendenze sadiche dell’occupante siano rimosse e trionfi l’umanità di coloro che lottano per la liberazione.
Da Carmilla
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Gianni Sartori
LA MORTE DI ALTRI DUE PRIGIONIERI PALESTINESI RICORDA QUELLA DEL MEDICO Adnan al-Bursh, VITTIMA DELLA TORTURA
La lista si allunga. Non solo a Gaza e in Cisgiordania, ma anche nelle carceri israeliane.
Altri due prigionieri palestinesi – tra il 14 e il 15 novembre – sono deceduti a causa della detenzione, dei maltrattamenti e degli abusi.
Samih Suleiman Muhammad Aliwi (61anni) e Anwar Shaaban Muhammad Aslim (44). Per il suo avvocato, Aliwi è rimasto vittima di “torture, negliglenza sanitaria e per essere stato sotto-alimentato”.
Il suo assistito gli aveva confidato che “gli erano state rifiutate le cure, di aver subito aggressioni e umiliazioni”. Inoltre il detenuto era diinuito di circa 40 chili dall’ultima visita.
Uno scenario che riporta alla mente quanto era accaduto il 19 aprile a Adnan al-Bursh, chirurgo dell’ospedale Al-Shifa di Gaza.
Fin dall’inizio della guerra, il medico (50 anni, responsabile della medicina ortopedica dell’ospedale al-Shifa) informava e denunciava pubblicamante in merito alle terribili ferite che aveva dovuto curare in condizioni sempre più proibitive. Denunciando anche il brutale assedio subito dal suo ospedale nel novembre 2023, così come la conseguente forzata evacuazione.
Divenuto un simbolo per il suo impegno, anche dopo aver raggiunto un altro ospedale, aveva continuato a documentare e denunciare (postando immagini sui social) quanto avveniva. In particolare la disastrosa situazione sanitaria dovuta ai sistematici attacchi israeliani nei confronti di ospedali e ambulatori.
Tra gli altri, gli attacchi contro un ospedale di Beit Lahia, dove i bombardamente israeliani avevano ucciso una dozzina di pazienti.
Arrestato dall’Idf (insieme ad altri operatori sanitari e pazienti) in dicembre mentre lasciava l’ospedale indonesiano Al-Awda (ugualmente sotto assedio), veniva rinchiuso nel campo di prigionia (in cui si sospetta venga praticata la tortura) della base militare di Sde Teiman. Successivamente (aprile 2024) era stato trasferito nella sezione 23 del carcere di Ofer, non lontano da Gerusalmme.
Stando a quanto riferirono altri detenuti, al momento del suo arrivo presentava visose ferite in varie parti del corpo ed era completamente nudo dalla vita in giù (presumibilmente era statao violentato). Gettato in mezzo al cortile, incapace di sollevarsi, il Dr Adnan Al-Bursh era stato aiutatato da un altro detenuto che lo aveva accompagnato alla sua cella.
Ma nel giro di qualche minuto, dopo aver lanciato grida di dolore, era deceduto. Un altro nome da aggiungere alla lista degli operatori sanitari (ormai oltre 500) uccisi nella Striscia dall’inizio dell’invasione israeliana. Nelle stesse ore moriva un altro detenuto palestinese, Ismail Khader (33 anni). Sempre – stando alle dichiarazioni della Commissione per gli affari dei prigionieri- a causa “dei pestaggi e delle torture subite”.
Molti dei palestinesi arrestati (qualche centinaio) sono rinchiusi in basi militari e campi di detenzione nel Neghev. Qui, come è stato denunciato anche da ong israeliane per i diritti umani, vengono tenuti in condizioni degradanti. A causa delle torture e degli abusi alcuni avrebbero perso la vita (erano 27 quelli accertati ancora in aprile). Per protestare contro tale situazione, sempre in aprile, militanti della sinistra israeliana avevano organizzato una manifestazione davanti alla base dell’aviazione di Sde Taiman (dove era stato rinchiuso e torturato Adnan al-Bursh). Qui, come denunciavano ex detenuti e medici, si sarebbero verificati i fatti più gravi. Alcuni avvocati israeliani che avevano avuto modo di conoscerla, non esitavano nel paragonarla a Abu Ghraib o a Guantanamo.
Gianni Sartori