Il libro di Giorgio Cremaschi, mio coetaneo non soltanto anagrafico, paga necessariamente un prezzo alla “Linksmelancholie” che costituisce il basso continuo delle sue riflessioni. Sennonché sarebbe riduttiva un’interpretazione del suo libro che cogliesse in esso le tracce di quella “vertigine della sconfitta epocale” da cui non riesce ad affrancarsi anche la migliore intelligenza di questa fase storica.
Come sempre, in questo genere di componimenti che oscillano fra l’aspetto autobiografico e l’aspetto storico non è difficile individuare quanto spetti all’opinione senza un grammo di verità (né, del resto, di falsità), laddove l’opinione è la materia prima di ogni comunicare, e quanto spetti alla verità, la quale, come è giusto, esige qualcosa di ulteriore rispetto all’atto semplice, anche se importante, del comunicare: qualcosa che si può definire, per l’appunto, con la categoria cognitiva di liberalfascismo, ripensando ai momenti in cui si articola il passaggio tra due secoli, che però appartengono alla stessa storia.
Potrebbe accadere – ma non è certo il caso dell’autore – che l’ottica depressiva post-ottantanovesca che condiziona lo sguardo del passante isoli, tra quelli che Spinoza denominava “affetti della verità”, soltanto i “meno perfetti”, vale a dire nostalgia, riprovazione, esaurimento, stanchezza, e non trovi alcun posto per quelli “perfetti”, quali il piacere, la gioia, l’entusiasmo.
Del resto, come ci insegna la dialettica, l’ottica della “coscienza emancipata” non è (e nel contempo è) l’ottica della “coscienza servile”. Ed è vero che, nella misura in cui il lavoro mentale rimane monopolio della classe dominante, la coscienza emancipata resta espressione della conservazione e riproduzione dei rapporti sociali di proprietà e di dominio esistenti.
Perciò Hegel definisce nella Fenomenologia dello Spirito la “coscienza infelice” come “essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione”, che scopre, nel suo ritornare in se stessa, la propria “libertà ancora irretita entro la servitù”. Hegel precisa inoltre, delineando il percorso della liberazione di tale coscienza, che “solo un espandersi oltre il singolo può essere universale formare o coltivare”, giacché “il senso proprio è pervicacia”.
In effetti, aggiunge il filosofo di Stoccarda richiamando, per connotare la dialettica di signoria e servitù, una massima biblica (“initium sapientiae, timor domini”), se l’inizio della sapienza sta nella “paura” del signore, è pur sempre il lavoro che forma. Parimenti, se è incontestabile che la verità della coscienza indipendente è la coscienza “servile”, è altrettanto innegabile che solo “la coscienza che lavora giunge all’intuizione di se stessa come indipendente”.
Ed è proprio in questa direzione che si dischiude una possibilità di approfondimento che vada oltre questa “incessante elaborazione del lutto” e questa surdeterminazione del Male, cui l’ideologia etica dominante costringe, e in cui rinserra, le “menti prigioniere”.
Economicismo ed eticismo, nel loro reciproco richiamarsi, esprimono allora l’incapacità, caratteristica del mondo contemporaneo, a nominare e a volere un’alternativa allo stato di cose esistente, rompendo i confini di un universo dominato da una combinazione singolare di rassegnazione al necessario (= economia capitalistica, Unione Europea, subordinazione all’imperialismo USA, sionismo genocida e guerra interimperialistica permanente) e di una volontà puramente negativa, unicamente distruttrice (= populismo, anarchismo “da gran signore”, misticismo e oscurantismo), laddove è assai chiaro che la volontà puramente negativa è il doppione di una necessità cieca.
Coraggio, si torni a nominare e a volere il Bene, chiamandolo con il suo vero nome: il socialismo, il comunismo, la grande speranza, anche quando di essa non siano pienamente consapevoli, di tutti coloro che soffrono e che lavorano. E a te, caro Cremaschi, vada la nostra riconoscenza per averci ricordato, sia esplicitamente sia implicitamente, che la teoria marxista-leninista è generosa con chi non le volta le spalle.
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