Per la terza volta dal 7 ottobre gli Stati Uniti hanno messo il loro veto ad un progetto delle Nazioni Unite per un “cessate il fuoco” nella Striscia di Gaza.
Ad onor del vero, questa volta la Casa Bianca ha comunque proposto un proprio testo in cui la cessazione dei combattimenti, in cui la fine delle restrizioni all’entrata degli aiuti umanitari era connessa alla liberazione degli “ostaggi” israeliani. Poco per i palestinesi in cambio di tutto per Israele, insomma.
Martedì 20 febbraio, come detto, Washington ha bloccato un progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che richiedeva un cessate il fuoco immediato nel momento in cui il numero dei morti palestinesi sfiora ormai i 30mila, mentre i feriti sono più del doppio e le truppe israeliane sono pronte ad intervenire via terra a Rafah, la parte più meridionale della Striscia dove sono “ammassati”, al confine con l’Egitto, 1 milione e 400 mila palestinesi in condizioni di completa indigenza.
Il testo, cui gli Stati Uniti hanno opposto il loro veto, è stato proposto dall’Algeria, ed ha avuto il sostegno di 13 paesi sui 15 del Consiglio, con l’astensione della Gran Bretagna.
Il porta-voce del Consiglio di sicurezza nazionale statunitense, John Kirby, ha giustificato il comportamento della diplomazia statunitense spiegando che il sostegno a questa risoluzione avrebbe «messo in pericolo dei negoziati sensibili».
Faceva di fatto riferimento ai contatti diplomatici in corso per cui Brett McGurk, consigliere di Biden per il Medio Oriente, si è recato mercoledì al Cairo per parlare con il capo dei servizi segreti egiziani Abbas Kamel, dopo che questo martedì il capo della dell’ufficio politico di Hamas, si trovava nella capitale egiziana.
Finora le cancellerie coinvolte nei negoziati non sono però pervenute ad una soluzione nuovamente condivisa dalle parti.
Bisogna ricordare infatti che fino ad ora l’unica “tregua” è stata il frutto di un accordo che ha portato lo scambio tra alcuni ostaggi israeliani catturati durante l’operazione “Diluvio di Al Aqsa” e alcuni detenuti palestinesi, mentre la proposta formulata da Hamas era stata ritenuta irricevibile dall’attuale esecutivo israeliano.
Al centro della proposta dell’organizzazione islamica vi era lo scambio tra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi come base per la cessazione del conflitto, il ritorno dei profughi della Striscia dai luoghi in cui sono stati cacciati e la possibilità della ricostruzione.
McGurk farà ponte, lo stesso giorno, tra l’Egitto e Israele, ma è chiaro che fino ad ora gli Stati Uniti non sono stati in grado – o non hanno voluto – influenzare l’azione di Tel Aviv, che tra l’altro sembra essere piuttosto “in ostaggio” dell’estrema-destra, la cui priorità non risulta essere la liberazione degli ostaggi, ma la “distruzione” di Hamas e insediarsi nuovamente nella Striscia, ritornando alla situazione precedente al 2005. Ma senza più i palestinesi.
In concreto l’amministrazione Biden, oltre a dire di “caldeggiare” la creazione di due Stati dentro un processo più ampio di “normalizzazione” dei paesi arabi con l’entità sionista (con perno l’Arabia Saudita) e avere preso delle sanzioni largamente “simboliche” contro un pugno di coloni in Cisgiordania, non ha fatto nulla.
I suoi sforzi sembrano così più mirati a presentarsi agli occhi della cosiddetta “Comunità Internazionale” come global player di primo piano che distanzia, almeno in minima parte, la propria politica da quella israeliana.
É chiaro che Washington ha perso progressivamente capacità di incidere nel quadrante medio-orientale. Vede – a causa delle scelte di Israele, ormai il principale vettore della tendenza alla guerra nella regione – estendersi l’area del conflitto dall’Iran al Mar Rosso, e teme quindi i possibili “contraccolpi” per la sua politica, schiacciata di fatto sulle posizioni dell’attuale esecutivo israeliano, in vista delle elezioni presidenziali di questo novembre.
Una interessante analisi pubblicata questo martedì su The New Republic, da David Rothkopf e dall’ex diplomatico israeliano Alon Pinkas, stima che l’amministrazione Biden sta commettendo da più di 4 mesi il suo «più grande errore in politica estera».
Questa lunga analisi – How One Error May Haunt Biden’s Foreign Policy Legacy – definisce “folle” la fiducia che l’attuale inquilino alla Casa Bianca avrebbe riposto in Netanyahu, e propende per una correzione della linea politica di Washington alla luce di quelle che dovrebbero essere le sue priorità: consolidare le proprie alleanze per contrastare la Russia in Ucraina e la Cina nell’Indo-Pacifico.
Le scelta statunitense potrebbe rilevarsi, come in passato, una vera e propria “trappola”, considerando che invece di rettificare il proprio orientamento Washington è scivolata su un piano inclinato che la sta isolando sempre più a livello internazionale.
I due autori sono lapidari a proposito: «Non si può trasformare un errore in un successo. Questa è la lezione che gli Stati Uniti hanno imparato in Vietnam, in Iraq ed in Afghanistan».
Sono parole come pietre che mettono in guardia sull’ipotesi che scelte sbagliate possano risolversi in vittorie strategiche.
Il “suggerimento” che danno i due analisti è quello di un “aiuto condizionato” all’attuale esecutivo israeliano ed una maggiore assertività statunitense – anche nei confronti dell’opinione pubblica israeliana – nel proporre una soluzione politica che renda stabile la regione.
La realtà però sembra essere proprio un’altra, con il conflitto che si estende a tutta la regione: dai recenti “sabotaggi” alle Pipe-line iraniane – che Teheran attribuisce a Israele – ai bombardamenti di Tel Aviv nei dintorni delle principali città del sud del Libano per “colpire” Hezbollah o nella capitale siriana, alle ostilità montanti in Mar Rosso.
A livello internazionale l’atteggiamento intransigente di Tel Aviv nei confronti di coloro che osano criticare le sue scelte – dal Vaticano a Lula, all’Unione Africana – penalizza direttamente Washington che, ancorandosi ad Israele, vede sempre più messa in discussione la propria egemonia.
Purtroppo, tra i governi dei paesi che hanno la loro politica estera più declinata sui voleri di Tel Aviv e Washington, c’è quello italiano.
Certamente questo non è che l’ultimo dei governi filo-statunitensi e filo-sionisti che ha conosciuto il nostro paese dalla fine della Prima Repubblica, ed è il frutto di una cooperazione sempre più stretta tra Roma e Tel Aviv in svariati settori oltre che del “peso politico” assunto dai legami tra il nostro paese e Israele.
Il tentativo di “azzeramento” delle voci critiche rispetto al genocidio in corso ha assunto forme parossistiche che testimoniano non solo il livello di asservimento dell’establishment – anche mediatico – ai voleri israeliani, in una logica di criminalizzazione del dissenso già in opera da tempo, ma anche della “debolezza strutturale” nel saper costruire consenso attorno alle proprie scelte strategiche, e nel riuscire a tamponare quel fallimento morale dell’Occidente rispetto a quanto sta accadendo nell’interno Medio-Oriente, ed in Palestina in particolare.
In questo contesto le tre giornate di mobilitazione e discussione del 23, 24 e 25 febbraio assumono una certa rilevanza.
Venerdi 23 febbraio l’Unione Sindacale di Base, insieme ad altri sindacati di classe promuovono una serie di scioperi su richiesta dei sindacati palestinesi aderenti alla Federazione Sindacale Mondiale.
Uno sciopero di carattere politico e internazionalista che vuole lanciare un segnale di protagonismo da parte di quelle classi subalterne che non ci stanno ad assistere passivamente al massacro del popolo palestinese ed al sempre maggiore coinvolgimento del nostro paese nelle dinamiche di guerra dell’intera regione.
Le parole di USB che sta organizzando dove è possibile iniziative e scioperi sono chiare a riguardo: «l’immediato cessate il fuoco a Gaza ed in Cisgiordania, l’incriminazione per il genocidiario governo di Israele, l’immediato ripristino dei finanziamenti all’UNRWA da parte degli Stati che li hanno interrotti».
Inoltre l’Unione Sindacale indica «nel boicottaggio verso il governo israeliano – tra le altre forme di mobilitazione – come potente strumento di lotta che dobbiamo praticare e diffondere il più possibile».
Sabato 24 febbraio a Milano, con concentramento dalle ore 14.30 da piazzale Loreto, ci sarà la Manifestazione Nazionale in appoggio alla Resistenza Palestinese, promossa dalle varie organizzazioni palestinesi in Italia.
L’Unione Sindacale di Base aderisce anche alla manifestazione nazionale del 24 novembre a Milano, una mobilitazione che come lo sciopero del 23 febbraio ha il convinto sostegno di Potere al Popolo, che da tempo ha invitato «tutte le nostre assemblee territoriali, in particolare del centro-nord, a sostenere attivamente lo sciopero del 23 e a mobilitarsi per la riuscita della manifestazione del 24 febbraio a Milano».
Nei giorni scorsi, tra il 13 ed 15 febbraio, Potere al Popolo ha promosso o aderito ai participati presidi sotto le sedi Rai in una decina di città, per reclamare la verità da parte dell’informazione rispetto a quello che sta succedendo in Palestina.
Cambiare Rotta – Organizzazione Giovanile Comunista ha lanciato una settimana di mobilitazione nelle scuole e nelle università, iniziata questo lunedì, insieme all’Opposizione Studentesca d’Alternativa (OSA), per rompere “ogni complicità tra Italia ed Israele”.
Una settimana che che culminerà con il sostegno alle iniziative del 23 febbraio e alla partecipazione al 24 con un spezzone con le seguenti parole d’ordine: “dalle scuole alle università: rompiamo ogni complicità tra Italia e Israele”.
Domenica 25 febbraio a Milano dalle ore 10, al Circolo Familiare di Unità Proletaria, al n.140 di viale Monza si terrà infine un incontro di approfondimento, confronto e dibattito pubblico organizzato dalla Rete dei Comunisti dal titolo “Il Medio Oriente nel mondo multipolare ed il conflitto arabo-israeliano” che vedrà diversi interventi, per cercare di fare il punto sulle trasformazioni nella regione e la tendenza alla guerra sempre più conclamata che la pervade.
Insomma un “lungo e fitto” fine settimana che si sincronizza con le mobilitazioni a livello mondiale con la Resistenza Palestinese e le prese di posizione dei governi che condannano con forza il genocidio perpetrato da Israele.
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Lollo
Avete detto la parola chiave. Estensione del conflitto a tutto il medio oriente. Neanche Israele ed i Nato potrebbero controllarlo. E quello che gli ci vuole. Una sonora batosta, la sconfitta dura metterebbe per sempre a tacere l’ estrema destra israeliana, conducendo la.nazione a più miti consigli. Prego perché avvenga.
Emiliano
Scusate se lo scrivo qui pur non essendo in senso stretto un commento all’articolo. Si tratta di un mio dubbio formale e, a dirla tutta, di scarsa importanza, che però non so sciogliere. Dal momento che, quando uno dei due compari nordatlantici (USA e GB), pone il veto a una risoluzione, laltro solitamente si astiene (evidentemente perché il doppio veto sarebbe superfluo), mi chiedo se il regolamento dell’ONU preveda l’opzione di votare contro SENZA porre il veto. Ne sapete qualcosa?
Redazione Roma
Si c’è un’altra procedura che dà poteri decisionali al voto dell’Assemblea Plenaria ma non viene mai adottata
Flavia Lepre
Pare che il voto contrario di uno dei cinque membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza sia automaticamente un veto: cioè blocca l’approvazione della delibiera in votazione.
Redazione Roma
Non “pare”, è proprio così. Nel consiglio di sicurezza ci sono cinque paesi che hanno il diritto di veto: Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina
Mauro
Se io sciopero (e sciopero) ed i miei 59 colleghi no(e non scioperano)vuol dire che sono a favore del genocidio?Li meno?
Eros Barone
Caro Mauro, la verità è che, nonostante l’eroica resistenza del popolo palestinese, nonostante la mobilitazione dei paesi antisionisti del Vicino Oriente, nonostante la lodevole iniziativa legale del Sud-Africa e nonostante la ridislocazione geopolitica che è in corso a livello internazionale, la maggioranza del popolo italiano non si oppone (oppure è indifferente) al genocidio che Israele sta compiendo in Palestina. Ragione per cui l’azione delle forze antagoniste al governo Meloni e alla “maggioranza silenziosa” che lo sostiene va sostenuta e rafforzata in tutti i modi e su tutti i terreni.