“Fuoco. Creazione. La città e le sue trasformazioni; Terra. Concretezza. Creatività e Mercato; Acqua. Riunificazione. Morte e rinascita; Aria. Mobilità. Uno sguardo al futuro”.
I quattro elementi della natura. I quattro elementi che, secondo il filosofo presocratico Empedocle, erano allorigine e alla fine di tutte le cose: Fuoco (πῦρ) Terra (γαῖα) Acqua (ὕδωρ) Aria (αἰθήρ). I quattro elementi che abitano, attraversano, denotano e connotano Napoli.
Città microcosmo cangiante in superficie, come i magici cristalli ipnotici di un caleidoscopio. Ma anche stella fissa immutabile e aberrante (parafrasando il titolo di una commedia di Manlio Santanelli) nelle sue più intime reazioni enzimatiche. Paradigma paesaggistico, sociale, artistico e culturale della coincidentia oppositorum.
Contrapposizioni e giustapposizioni di classe, di ceto, di censo, etniche e somatiche, di linguaggi e di espressioni artistiche ed antropologiche, convivono tra i recessi ventrali della metropoli e le antiche colline di Posillipo.
«Napoli città-medusa (mitologica medusa greca e medusa di mare, che in napoletano si chiama pucchiacca e mare: gelatinosa e dai velenosi filamenti). Napoli città uterina e fetida», per usare le suggestive e iconiche parole con cui definisce la città Fabrizia Ramondino.
Sulle tracce del cui libro-collage, Dadapolis appunto, i registi Carlo Luglio e Fabio Gargano costruiscono un concept album filmico tra i solchi del quale sonorità e voci riscrivono unantologia visiva, dove ad ogni pagina si inseguono frammenti poetici e monologhi, brani musicali e immagini. Riflessioni filosofiche, considerazioni sul mondo dell’arte e confidenze esistenziali.
Ma anche analisi sociali e politiche sulla realtà contemporanea, le sue derive mercantili e i suoi effetti su di una città sospesa tra passato e futuro. Un futuro inquietante che passa per un presente il cui paradigma economico neoliberista sta trasformando il centro storico di Partenope in una distesa di corpi insensati, riversati dall’overtourism nel labirinto ebbro e narcotizzante della città puttana.
Sventrata del suo popolo e della sua cultura antica. Per far posto a friggitorie, baretti, ristoranti di quart’ordine e localini di cartapesta. Cool nel loro valore inautentico: postmoderno e cosmopolita. Ai cui tavoli la Storia viene barattata con un sorso amaro di cocktail neoliberal kitsch. Colorato e sgargiante come un trenino sulle montagne del Disney World.
Fuoco Terra Acqua Aria… dicevamo.
Sono i quattro capitoli in cui viene suddiviso questo concept album. Quattro movimenti di una partitura jazz imbastita per immagini e parole e cucita in forma di cinematografico montaggio dadaista su Napoli. Un Cabaret Voltaire rizomatico e disseminato tra vicoli, recessi, grotte, strade laterali che corrono verso le desolate terre dell’est. Spiagge battute do viento da pucundria.
Sembra di riascoltare le parole del poema The waste land (La terra desolata) di T.S. Elliot: «Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo, tu non puoi dirlo, né indovinarlo, perché conosci soltanto un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole, e l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo. L’arida pietra non dà suono di acqua. C’è ombra sotto questa roccia rossa e io ti mostrerò qualcosa di diverso dalla tua ombra che al mattino ti segue a lunghi passi, o dall’ombra che a sera si leva ad incontrarti. In un pugno di polvere ti mostrerò la paura».
O ancora, lempio rosario ateo del Moscato di Rasoi: «La fogna è il vizio che la città ha nel sangue. L’istinto popolare non si è mai sbagliato. Si potrebbe dire che, da dieci secoli, la cloaca è la malattia di Parigi. E Jean Valjean si trovava nella fogna di Parigi. Altra somiglianza di Parigi con il mare: così nell’oceano come a Parigi, chi vi si tuffa può scomparire [ ]Per rincuorarci, esplodono i dipinti, i trompe l’oeil, gli inganni di stucco sul soffitto: tracce antiche, cocci, rossi pompeiani: matrone bellissime con i seni denudati…ma l’Uomo alla Macchina; il Corvo nello Specchio; la marxiana Sintassi capovolta degli Oggetti, insaturi fermentano in Ampolle, come chimici, mortiferi ossidrìli. Prodigioso boato senza forma, (quasi) un deliquio e un discorso con sé stessi. Ma sì, ma sì, anche le calosce! Come ad un Cannibale! Far simili baratti è una Vergogna, pure nel Delirio! Cosa poi rimane dei rosari »
Universo moscatiano babelicante, la città dada di Luglio e Gargano, il loro Dadapolis – raccontato da alcune delle figure più significative del panorama artistico partenopeo – è un magma che scorre lento ma inesorabile. Un invito a ripensare Napoli con le armi della critica, della filosofia, del teatro, della scultura, della fotografia, della musica, della pittura indipendenti. Attraverso la sua immanente cultura antagonista.
Creazione. Trasformazioni. Creatività. Mercato. Mobilità. Futuro. Morte. Concetti, idee/forza, emozioni al centro di questo documento filmico.
Una morte che però presuppone una rinascita, una palingenesi. La palingenesi di Napoli che prenda le mosse dalla sua millenaria cultura e non già dalla trivialità delle trame di quel turbo capitalismo estortore e predatorio, il cui unico scopo è fare del mondo un immenso mercato in cui gli umani sopravvissuti alle guerre per il dominio siano invitati, merci tra le merci, a partecipare dell’orgia barbarica dei consumi e dello spettacolo.
La palingenesi di quella Napoli mediterranea, araba, mediorientale, zingara, meticcia che Pier Paolo Pasolini voleva abitata da una tribù e della quale scriveva: «La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) e per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati)».
Napoli come Gaza, Bogotà, Rio, Aleppo.
A Napoli, nell’antichissima Partenope, il dramma dell’uomo occidentale contemporaneo, sempre in bilico sulla soglia del dentro/fuori, diventa a tutti gli effetti tragedia.
Come scriveva ancora Fabrizia Ramondino nell’introduzione all’Angelico Bestiario – volume contenente una raccolta di testi di Moscato – a Napoli quella tragedia è acuita dalle opposizioni implicite alla stessa città: «solarità/cupezza; accidia/ira; povertà/ricchezza; commercio coi santi/commercio di santi; sirena/puttana; illuminismo/sanfedismo; madre/matrigna; antichità/modernità; mitezza/crudeltà; spensieratezza/umore malinconico; ignoranza/sapienza; seduzione/repulsione; vitalità/agonia; eros/morte».
La città si dibatte tra tradizione e tradimento. L’esigenza e il desiderio di cambiamento, di trasmutazione, di metamorfosi; e la paura di un futuro incerto, insondabile, angoscioso. Ripiegamento su di sé e nostalgia dellaltro.
Dadapolis è dunque Napoli con tutta la sua innocenza, la sua ingenuità, la sua cattiveria, la sua cazzimma, la sua promiscuità, la sua carnalità, il suo candore, la sua insospettabile razionalità. Napoli cattolica e pagana. Sensuale e mortifera.
Napoli è Benedetto Croce e Giordano Bruno. Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo. Eduardo e Viviani. La Camorra e la Poesia. L’Inferno sotto la cenere del Paradiso Perduto. Sud del mondo brulicante e meticcio. Torre babelicante di junghiani inconsci collettivi mitico-archetipici. Di linguaggi e di glosse. Di corpi e di gesti.
A Napoli si incontrano e si scontrano, interagiscono e reagiscono gruppi sociali, etnici, classi, esistenze marginali e aristocratiche. Aristocraticamente marginali, vorrei dire. Napoli borghese, popolare, sottoproletaria, colta.
Napoli è una lava umana fluida e condensata al tempo stesso. Preda di un costante conflitto, rotto dall’eterna, palpitante aspirazione alla tregua tra le parti, la cui armonia dissonante trova la sua postulazione in quella libertà anarcoide che, lungi dall’essere stereotipo maldicente, è esigenza vitale al cospetto della Morte.
Morte perennemente incombente. Morte come fine terrena ma anche come asfittico fardello morale. Dover essere limitante e omologante anche sul piano della Legge, intesa come dispositivo legale, giudiziario ed economico.
Ben inteso, non sintende affermare, con una vena di autocompiacimento, che Napoli sia extra Legem. Ma che la città applichi una sorta di autoregolamentazione di confine, questo sì.
Napoli è un Tribunale: il Supremo Tribunale dell A/Morale. Dove lunica Legge uguale per tutti è la trasgressione. Napoli è città ribelle per antonomasia. Ribelle allo Stato, che è per essa burocrazia e polizia. Ribelle a sé stessa e alla sua stessa libertà.
Napoli oleografica e oscena. Napoli sospesa in un tempo astratto. Napoli fuori dalla Storia. Napoli precristiana e postmoderna. Lo dicevano, conquistati e disorientati, Pasolini e Malaparte.
«Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli [ ] Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli», scriveva ne “La Pelle” Curzio Malaparte. Ed è stato profetico.
Oggi tutta Europa sta diventando Napoli. Quell’Europa però, l’Europa delle borghesie dominanti, al cospetto dei potenti flussi migratori non si adatta, vive crisi di rigetto. Espelle, rifiuta, uccide la clandestinità che richiede asilo. Pretendendo che Napoli faccia altrettanto.
Ma Napoli convive con le sue mille culture, coi suoi mille idiomi da sempre. Napoli non alza muri, renitente allomologazione capitalistico-globalizzante. Esclusi alcuni, rarissimi e quasi alieni pezzi di cittadinanza minutamente borghese o borghesemente autoreferenziale e classista – intollerante verso la povertà che si annida nelle sue stesse periferie – Napoli non si alimenta di razzismo. Come potrebbe d’altronde? E la rabbia contro limmigrato, quando cè, non evidenzia mai il bieco odio razziale. è rabbia sociale, indotta, precaria.
Napoli è lancestrale materia creatrice e i nuovi linguaggi metropolitani che emergono da quest’antologia di dialoghi, scatti, istantanee, rallenty, visioni. Che convergono verso il centro della narrazione e dal centro si disperdono sui margini. I margini riluttanti al mercato e al profitto.
Napoli vive le sue contraddizioni fino in fondo. Un fondo certo tragico, anche mortale. Ma mai, mai preconfezionato altrove. Napoli è leccesso che si fa realtà, sempre sul baratro di un abisso. Abietta e Nobile. Madre e Puttana. Redenta e Condannata. Sempre sospesa tra la vita e la morte. Tra il passato e il futuro.
Vita e morte, passato e futuro che grazie a quello strano sortilegio chiamato cinema finiscono per coesistere nello spazio e nel tempo filmico di Dadapolis. Dedicato alla memoria di tre poeti bohemien che hanno scritto negli ultimi anni, ciascuno a suo modo, ciascuno con la propria originalità e libertà espressiva, la storia dell’avanguardia e della sperimentazione artistica di questa città. Tutti scomparsi durante la lavorazione.
Enzo Moscato, drammaturgo, attore, cantante, regista, poeta della marginalità e della complessità dal respiro internazionale. Christian Vollero, uno degli ultimi posteggiatori, musicista e poeta metropolitano. Ed infine Gaetano Di Vaio, attore, regista, produttore e fondatore della Bronx Film. Colui il quale, senza la cui caparbia volontà e l’amore per questa città affascinante e dannata, Dadapolis non avrebbe forse mai visto la luce.
L’avvenire ha già messo radici profonde…
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Maurizio
che bellissimo racconto prefazione cosmica impregnato di napoletanitudine e speranza