Menu

Lingua carne soffio: un anno fa ci lasciava Enzo Moscato

Ci sono eventi che hanno bisogno di sedimentarsi intimamente prima di poter essere “detti”. Eventi che la parola postuma deve disincagliare dalla carne lacerata per farsi nucleo incandescente di dolore.

Eventi per i quali il sangue ancora caldo necessita di raffreddarsi al fine di trasformarsi in embolo, coagulo di emozioni che colpiscono i centri nervosi, dando vita a significanti insani come la peste e deliranti come l’inconscio.

Perché è solo nell’assenza del corpo/soma – tomba dell’anima, per dirla col Cratilo di Platone; o guscio dell’intelligenza, parafrasando Franco Berardi ‘Bifo’ – è solo nell’estraneità del corpo in fuga dalla fabbrica tecnologica edificata nel regno del Capitale, che il segno/sema, ovverosia la parola, può liberare tutte le sue potenzialità semantiche e raccontare la vita . Ma soprattutto la morte

Il 13 Gennaio di un anno fa moriva Enzo Moscato. Drammaturgo, regista, attore. Poeta del corpo. Poeta della voce. Poeta del gesto.

Poeta di una scena che con lui diventava lirica coscienza dei bassifondi. Atto politico in riscatto degli ultimi. Scrittura malata fuoriuscita dalle saittelle di Napoli per farsi voce elegiaca di ogni meticciato metropolitano.

Lingua Carne Soffio del Teatro. Demiurgo assoluto di una Babele contemporanea.

Un anno fa non scrissi nulla. Ero frastornato e incapace di qualunque sgorbio segnico. Troppo grande Enzo per una riflessione e un ricordo a caldo. Troppo forte la mancanza.

Enzo fu infatti per me amico, compagno, maestro. Il mio primo maestro. Colui che tra Lacan e Genet, Barthes e Deleuze, Marx e Rimbaud, Rivoluzione e Tradizione mi aprì, nel lontano 1992/1993, la mente e le segrete porte del Teatro.

Nulla si poteva dire, con la fretta approssimativa della cronaca giornalistica, al momento del lutto. Un lutto da elaborare e da far sedimentare.

Ma oggi è diverso. Oggi è necessario il ricordo. Un ricordo che voglio evocare qui, su queste pagine. Perché la memoria lo richiede. Perché la passione s’impone.

Enzo Moscato nasceva a Napoli, ai Quartieri Spagnoli, il 20 Aprile del 1948. Capofila della Nuova drammaturgia napoletana degli anni ’80, ha segnato questa stagione con prove come Embargos, Rasoi, Scannasurece (premio della Critica italiana, Biglietto d’oro Agis).

E con drammi, commedie, monologhi che da Festa al celeste e nubile santuario, a Pièce Noire, da Compleanno a Trianon, da Occhi gettati, a Cartesiana, da La Psychose Paranoiaque Parmi Les Artistes a Ritornanti, da Litoranea a Luparella, da Partitura, fino a Mal-d’-Hamlé, Recidiva, Lingua carne soffio, esplorano con audacia e sensibilità una pluralità di registri linguistici e idiomatici, arcaici e contemporanei.

Ed è forse proprio dalla lingua e dal linguaggio che bisogna partire per analizzare e capire il teatro di Enzo Moscato. E dal corpo che lui, ancor più che Ruccello, in/scriveva sulla scena creando, come egli stesso diceva, «una grammatica carnale».

Dunque un corpo/lingua, un corpo/glossa capace di giocare scenicamente più che con il gesto, con le figure del discorso (ellissi, metafora, paratassi, metonimia, allitterazione) per creare un ibrido capace di mandare in frantumi la sintassi e la grammatica teatrale tradizionali. Disobbedendo al dogma stantio del contenuto e del significato e spostando così l’attenzione al vero scheletro del teatro: la lingua.

O meglio le lingue, i linguaggi, i sotto-linguaggi, gli idiomi, i dialetti, i gerghi che risuonavano, in quella «caotica Bisanzio del Terzo Millennio» che era la Napoli degli anni ’80.

La Napoli del dopo terremoto che stava cambiando le trame e le logiche stesse della città, sin nelle sue viscere più recondite.

Un teatro dunque quello di Moscato antinaturalistico, contro natura potremmo addirittura definirlo, se con questa s’intende l’anacronistica insistenza della descrizione oleografica del cliché partenopeo e di tutto l’impianto culturale che ne era a presupposto.

Un teatro che partendo da Lacan – filosofo e psicoanalista francese, punto di riferimento dello straordinario background moscatiano – prima ancora che sulla parola si attesta dunque sulle dinamiche del linguaggio, tra i cui slittamenti semantici avviene la contaminazione tra la drammaturgica e poetica parola/segno, il lirico e sacro significante/corpo, la misterica e allucinogena phonè/musicale; e attraverso il quale interrogarsi, in definitiva, sul senso stesso della vita e quindi del teatro.

Quel teatro che giunto al senso di uno Scannasurice, sembra dirci Moscato negli ultimi suoi lavori, pur con la leggerezza e l’ironia che lo caratterizzavano – da Oro Tinto a Raccogliere e bruciare – per aspirare alla salvezza può e deve tendere solo alla Morte.

Come d’altronde teorizzava il grande regista polacco Tadeusz Kantor, con cui l’autore nato ai Quartieri aveva da sempre un grande debito di riconoscenza, intellettuale e creativa.

Perché, ed è sempre Kantor a dirlo: «Il morire, la morte, in tutto il teatro, a cominciare dai cinesi e dai greci, è stato un atto violento, drammatico, spettacolare. Finale».

Un Teatro la cui unica soluzione è il rifugio nelle catacombe: «è quella sfera della morte a far sì che, cercando nella vita un corrispondente del rituale della morte, della Sepoltura, lo troviamo nel concetto della Prigione…Come davanti a una tomba aperta…si chiusero dietro di lui le porte della prigione».

Catacomba/prigione, ben inteso, che lungi dall’essere reclusione imposta sia scelta deliberata di isolamento e di clandestinità. Atto estremo di coraggio, segno di rottura col consumismo mercantile ed omologante, linea di demarcazione col conformismo dilagante.

Un conformismo, un consumismo e un mercimonio artistico contro cui Moscato ha combattuto fino alla fine.

La scena moscatiana è insomma una scena posta in un altrove. Ma anche una scena profondamente materica, in cui si fondono e confliggono lingue, classi, etnie, periferie e centri urbani. Una scena creola, meticcia, babelicante.

Animata da personaggi ai margini, da anime periferiche, da fantasmi sociali, da spiriti e voci provenienti da un aldilà metropolitano.

Puttane, travestiti, pezzenti, sconfitti, bambini. Esseri puri nella loro perdizione. Proiezioni di una Napoli città/mondo che è il centro del suo universo teatrale.

Napoli è per altro, nella stessa weltanschauung moscatiana, lo straordinario paradigma paesaggistico, sociale e culturale della coincidentia oppositorum. Crudele e accogliente madre/matrigna, in essa convivono i quattro elementi che secondo il filosofo presocratico Empedocle erano all’origine e alla fine di tutte le cose: fuoco (πῦρ), aria (αἰθήρ), terra (γαῖα), acqua (ὕδωρ).

A Napoli, nell’antichissima Partenope, il dramma dell’uomo occidentale contemporaneo sempre in bilico, sulla soglia del dentro/fuori, diventa a tutti gli effetti tragedia.

Come scriveva Fabrizia Ramondino nell’introduzione all’ Angelico Bestiario, volume contenente una raccolta di testi di Moscato: «a Napoli quella tragedia è acuita dalle opposizioni implicite alla stessa città: «solarità/cupezza, accidia/ira, povertà/ricchezza, commercio coi santi/commercio di santi, sirena/puttana, illuminismo/sanfedismo, madre/matrigna, antichità/modernità, mitezza/crudeltà, spensieratezza/umore malinconico, ignoranza/sapienza, seduzione/repulsione, vitalità/agonia, eros/morte».

La Napoli di Moscato è un paesaggio suburbano in cui si combatte una disperata guerra di poveri e tra poveri, esiliati sociali di un cataclisma tangibile e figurato i cui effetti sono il degrado e la fatiscenza, prima ancora che architettonici e urbanistici, culturali, emotivi, morali.

Questa città è un angolo di marciapiede per un clochard confinato ai bordi di un mesto carnevale, animato da maschere volgari alle quali egli può soltanto irridere ubriaco tra sarcasmo e malinconia.

Maschere di un Teatro di guerra e in guerra, simulacro ormai di sé stesso e di una cultura, di un sapere ridotto in macerie. Napoli come Gaza, come Kobane, Come Aleppo.

Ma nel teatro di Moscato non cè solo la visione disincantata di una città costantemente sul precipizio del degrado.

La rinascita di Napoli se mai avverrà dovrà prendere le mosse dalla sua millenaria cultura e non già dalla trivialità delle trame di quel turbo capitalismo estorsore, saccheggiatore e annichilente, il cui unico scopo è fare del mondo un immenso mercato in cui gli umani sopravvissuti alle guerre per il dominio siano invitati, merci tra le merci, a partecipare dell’orgia barbarica dei consumi e dello spettacolo.

Dovrà essere la palingenesi di quella Napoli mediterranea, araba, mediorientale, zingara, che Pier Paolo Pasolini voleva abitata da una tribù vitale e impermeabile alle imposizioni del nuovo capitalismo. Una tribù il cui Dna sta però mutando rapidamente, minacciandone la sopravvivenza

Partendo dunque dalla contraddittoria e complessa realtà sociale partenopea e cercando nella contaminazione la forma di una modernità espressiva, Moscato aspira a un teatro di poesia di ascendenza pasoliniana con rimandi a Genet, Artaud, Rimbaud, ai poeti maledetti.

Per quel che riguarda invece gli elementi umani, umorali, ambientali del teatro moscatiano, comè noto essi sono tratti o ispirati dal e al cosmo micro e macro, umano e dis-umano al contempo, della città che gli ha dato nascita e origini.

E dal momento che teatralmente Moscato non fa una gran differenza tra azione e pensiero, corpo e mente, gesto e parola, si tratta prima di tutto di materiali linguistici.

Esprimono cioè e sono espressi da quel mega contenitore spirituale e materiale, storico ed attuale, di tradizione e di più spinta ricerca laboratoriale che è per lui la lingua e nella fattispecie la grande lingua scenica napoletana.

In questo senso, tutto ciò che appare nel suo teatro, dal corpo degli attori ai loro sentimenti, dall’oggetto d’appoggio alle storie narrate, dai costumi ai movimenti, alle atmosfere, agli indici prossemici, sono eminentemente sue (ovvero della lingua scenica napoletana) figure, metafore, metonimie, allusioni, doppi, permanentemente sospesi tra realtà e ir-realtà, natura ed artificio, riflesso mimetico dell’esterno e pura invenzione fantastica.

In altri termini cercano di esprimere compiutamente quella che, nelle leggi della retorica, viene definita dimensione ossimorica, cioè la tensione a tenere insieme, senza risolverli in false figure di conciliazione o incastro, tutte le contraddizioni o le opposizioni che una data situazione suole presentare.

Ed è così che quando Moscato indica Napoli come espressione massima, al contempo concreta e astratta, fecale e sublime, dell’ossimoro, dell’ibrido, della coniunctio oppositorum, non ha timore d’impoverirsi o ridursi a una mera dimensione local-spettacolare perché la indica, la sua Napoli, come paradigma ossimorico di ferite universali, coacervo inestricabile di tensioni e contraddizioni presenti, passate, future.

Globali e particolari, generiche e unicissime, specchio di una realtà senza dubbio rilevabile su carte geografiche; ma contemporaneamente introvabile, utopica, puramente immaginaria.

Di quell’immaginario sprofondato del Mondo che appartiene a tutte le razze eppure si lascia esprimere al meglio, di volta in volta, solo da qualcuna di esse in particolare.

In definitiva, la poesia drammaturgica di Moscato è stata, sin dagli albori, un magma che ha sommerso la scena come un vomito, scaturito dalle oscure stazioni nella notte boreale dell’anima e dunque della Storia, contro la cui tersa, irreale, marmorea fissità di morte, grottesco e umiliante si squarcia l’urlo delirante e disperato dell’uomo.

Un vomito che richiama alla memoria quella straordinaria Alchimia del verbo che fu di Rimbaud, autore tra i più amati da Enzo Moscato.

La sua sintassi drammaturgica e scenica si presenta spesso come un ordito intessuto di perfette discrasie, di frammentazioni, di destrutturazioni linguistiche e gestuali.

La sua lingua ricca di sonorità, di sfumature, di connotazioni di senso, non è un logos realistico ma una langue lacaniana dove la parola è spesso suono semantico, visione, flusso, inconscio. Mito.

Le sue messinscene fortemente simboliche, informate ad una ricca pluricodicità e intertestualità sono, nella loro complessità, ricche di suggestioni e di emozioni tali da riuscire a coinvolgere pubblici di tutte le appartenenze.

La sua è la poesia universale dei dannati e dei lazzari del mondo. Ed è forse stato questo il più grande pregio dell’autore Moscato. Riuscire a condensare popolarità e cultura alta. Ciò che lo ha reso una delle voci più importanti del teatro europeo contemporaneo.

Una voce che non smette di interrogarci e di parlarci attraverso le sue opere. E che risuona alta malgrado la fine, nel silenzio meschino di quest’epoca segnata dal ridicolo.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *