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Partirò, il profumo persistente della terra mi chiama… andrò nel mio villaggio in Palestina, gli sono mancata, come lui è mancato a me, il mio amore è innato, profondamente radicato”

Fatima Mahmoud Ahmed, 2008

L’urgenza di rivendicare l’appartenenza alla propria terra e il legame indissolubile con le proprie radici, resistendo alla pulizia etnica, sono tra i principlai Leitmotiv di No Other Land, recentemente uscito nelle sale. Perché, come suggerisce il titolo stesso, non c’è un’altra terra.

Vincitore del premio per il Miglior Documentario alla Berlinale e candidato agli Oscar, la sua nomination ha fatto molto discutere.

Il documentario è stato completato poco prima del 7 ottobre 2023 e successivamente arricchito da un epilogo girato nei giorni successivi, che mostra le aggressioni armate dei coloni in Cisgiordania.

Come in 5 broken cameras di Emad Burnat e Guy Davidi, uscito nell’inverno del 2011, al centro della narrazione vi è il processo di colonizzazione della West Bank.

Nel caso del documentario di Burnat e Davidi, si trattava del villaggio di Bel’in che come altre località teoricamente governate dall’Autorità Nazionale Palestinese vicine al confine con Israele sono state letteralmente “mangiate” dagli espropri a causa della costruzione del “Muro della Vergogna” israeliano, e dall’edificazione dei complessi di insediamento coloniale sionista.

In No Other Land Basel Adra, giornalista palestinese originario del villaggio di Masafer Yatta, documenta da anni le espulsioni forzate attuate dall’esercito israeliano contro gli abitanti di questa regione semi-desertica dedita all’agricoltura e alla pastorizia. Con il pretesto legale della creazione di una zona di addestramento militare, le ruspe compaiono all’improvviso per demolire le case insieme ad un ufficiale israeliano incarico di notificare gli ordini di espulsione dopo un contenzioso giuridico durato per più di 20 anni.

Quando il giornalista israeliano Yuval Abraham, che indaga su questi abusi, incontra Basel, il progetto di un film prende forma: le riprese amatoriali effettuate con il camcorder e il telefono vengono integrate da un vero e proprio lavoro di documentazione. A loro si uniscono anche l’israeliana Rachel Szor e il palestinese Hamdan Ballal, che partecipano alle riprese senza mai apparire sullo schermo. No Other Land diventa così una co-produzione.

Come in molti racconti sulla resistenza palestinese, l’angolazione è estremamente precisa – il film non si sposta mai dalla regione di Masafer Yatta – ma riesce comunque a illuminare il conflitto nel suo insieme.

Attraverso l’esempio particolare della colonizzazione di una serie di villaggi facenti parte dei Territori Occupati illegalmente da Israele nel ’67 si mostra il processo generale di costruzione di “Eretz Israel” dove il destino dei palestinesi è di essere espulsi dalle proprie terre, divenire profughi senza possibilità di ritorno, ed al massino potere fare da manovalanza a basso costo in alcuni settori dell’economia israeliana, come Basel che per pagarsi gli studi in giurisprudenza ha lavorato come edile in Israele.

Oltre a una rappresentazione incisiva (anche se a tratti supportata dall’uso della musica) della realtà dell’apartheid e dell’espansione coloniale, No Other Land mette in luce soprattutto la potenza politica delle immagini.

Le scene scioccanti che attraversano il film – dalle demolizioni delle case all’omicidio di un abitante, ucciso a bruciapelo da un colono, o alle varie forme di violenza dell’esercito israeliano (IDF) – colpiscono ancora di più perché solitamente restano invisibili. Se non si va attivamente a cercare queste immagini su canali alternativi, i media mainstream occidentali (per non parlare di quelli israeliani) non le trasmettono, o lo fanno troppo poco, troppo tardi, riducendole al solo spettacolo delle rovine ancora fumanti ad uso e consumo di un “vittimismo” che produce rassegnazione più che consapevolezza.

In questo senso, No Other Land è un film prezioso: mostra ciò che accade prima del crollo. Non si guarda, infatti, allo stesso modo la distruzione di un edifico, come una scuola, se prima la si è vista piena di bambini, non si capisce il dramma della demolizione di una casa se non la si vede prima abitata da una famiglia. La violenza esercitata sulle cose non è meno impattante di quella sulle persone, o sulla natura.

Come in To Shoot an Elephant di Alberto Arce e Mohammad Rujaillah del 2009 che testimonia una delle prime operazione su “grande scala” di Israele a Gaza – “Piombo Fuso” del 2008 – la pratica sionista appare senza filtri e ci viene raccontata tramite l’esperienza del personale sanitario della Striscia – in particolare gli operatori delle ambulanze – anche attraverso la testimonianza della solidarietà internazionale, in quel caso particolare Vittorio Arrigoni.

Il potere delle immagini e la questione della rappresentazione mediatica emergono con forza in una sequenza girata dai familiari di Basel alla fine degli anni 2000. In quelle immagini, riprese da lontano, si vede l’arrivo di Tony Blair nel loro villaggio, seguito da una decina di telecamere e macchine fotografiche. All’epoca, il primo ministro britannico era in visita nella regione e aveva scelto di fermarsi in un villaggio palestinese minacciato di espulsione. La voce fuori campo spiega che ogni strada percorsa da Blair fu immediatamente protetta dalla legge dopo la sua visita. In altre parole, anni di lotta furono risolti in sette minuti di esposizione mediatica.

Il bilancio è amaro ma lascia trasparire un tenue barlume di speranza: le cose possono davvero cambiare quando i leader occidentali smettono di distogliere lo sguardo. Purtroppo, però, questi exploit hanno sempre un effetto temporaneo, e il villaggio visitato da Blair è stato comunque demolito, senza che nessuno tra le élite politiche britanniche od occidentali, se ne sia minimamente preoccupato.

Tutta la scena è una metafora dell’occhio distratto dell’Occidente per cui se una realtà cessa di essere rappresentata è come se non esistesse.

“Devi abituarti a perdere”, sussurra Basel a Yuval durante un viaggio in auto. Una frase che potrebbe essere rivolta a qualsiasi attivista, e che incarna l’anima del film. Questo monito pragmatico rischia di trasmettere un senso di impotenza di fronte alla spirale di violenza, ma viene controbilanciato dal legame tra i due registi.

In realtà il segreto è la perseveranza e l’ostinazione. Ogni aspettativa di gratificazione immediata della propria azione, è un’illusione.

L’anima militante del film è evidente, ma si dissolve nelle scene più intime: Basel e Yuval che chiacchierano fumando la shisha, Yuval che beve un tè a casa dei genitori di Basel. La loro amicizia è naturale perché cementata da un obiettivo comune ma con condizioni differenti. Sono due uomini simili, con gli stessi ideali, ma con diritti diversi, o per essere più precisi uno gode del privilegio di poter tornare a casa finito il suo lavoro, l’altro deve lottare affinché la sua casa e quelle degli altri abitanti del villaggio non vengano distrutte, e non è raro che debba nascondersi per non farsi arrestare.

Alla premiazione alla Berlinale, Yuval Abraham e Basel Adra tennero un discorso potente, chiedendo con fermezza il cessate il fuoco. Le loro parole, però, ebbero un prezzo: furono accusati di antisemitismo da alcune alte cariche tedesche, un attacco che cercava di oscurare il senso profondo del loro messaggio, attuato attraverso una dinamica collaudata: chi critica la politica dello Stato d’Israele è un anti-semita!

Eppure, il vero valore del film risiede proprio nella sua capacità di raggiungere più persone possibile, di scuotere coscienze, di smuovere quelle stesse istituzioni come quella cinematografica che, troppo spesso, restano complici del massacro. L’arte grazie alla forma documentaria si rende finalmente partecipe della resistenza, o quanto meno sensibilizza le coscienze.

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