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Perché non socializzare i profitti?

Questo nuovo testo di Francesco Schettino intende porre una domanda semplice – ma “difficile a farsi, nella risposta”, come avrebbe detto B.Brecht – a tutti coloro che vogliono capire di più sull’economia, sia dall’interno di questa disciplina sia da parte di chi ne è più o meno digiuno. Soprattutto dalla parte di questi ultimi poi, ricordiamo che ricerca più informazione proprio chi non è competente, ma in compenso è consapevole del proprio non sapere, da cui appunto scaturisce l’esigenza a fuoriuscirne.

La domanda è: come, dove capire l’economia? Per soddisfare una richiesta così importante che riguarda la vita di ognuno di noi, l’autore si prova a oggettivare la propria esperienza accademica (da circa 13 anni docente di Economia Politica, all’Università Vanvitelli di Santa Maria Capua Vetere) in un compendio di storia economica comprensiva di una riflessione critica non solo sui singoli approcci teorici, ma soprattutto sulla vulgata mainstream dell’economia politica in quanto “scienza oggettiva” e non prodotto ideologico la cui origine si innerva nei rapporti di forza sociali.

Nel1968 lo psichiatra Frantz Fanon, autore del libro “I dannati della terra”, coniò una frase divenuta celebre: “Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui”. Il concetto di colonizzato, qui riportato, era per Fanon anche estensivo di ogni forma di condizionamento forzato, proprio del complesso fenomeno dovuto alla colonizzazione europea in quanto vettore di una inferiorizzazione politica dei soggetti conquistati. In questo caso specifico, il colonizzato è il latore per lo più inconsapevole di una forma di conoscenza solo apparentemente neutrale, chiamata scienza comprensiva delle singole procedure, soprattutto se definita all’interno delle “scienze umane”.

In attesa di sapere se l’economia sia o meno scienza umana, si può considerare comunque questa “scienza” inseparabile dalla sua origine, ossia entro un sistema alla ricerca delle proprie “leggi” di funzionamento, specifiche dell’evoluzione ottimale dello stesso. Lo scienziato dell’economia, l’economista dunque, analista e divulgatore teorico, non può ignorare il suo nesso con la funzionalità politica di questa scienza, proprio perché originata dalla necessità del modo di produzione capitalistico di gestire nel modo più efficiente il proprio sviluppo, fino alla formazione e “colonizzazione” del mercato mondiale, quale intrinseca tendenza strutturale. Il rapporto tra scienza e politica è ineludibile, e questo testo per l’apprendimento erga omnes si pone l’obiettivo di evidenziarlo.

Il testo ripercorre le varie fasi dall’economia classica all’economia volgare, per giungere in seguito alle teorie più moderne. Dà conto sia della dissoluzione dei presupposti di opposizione all’economia esistente, sia della riproduzione dell’apparenza come sua rappresentazione, permettendo così di aprire ad un ruolo apologetico del sistema, funzionale non più alla costruzione della scienza ma piuttosto a decretarne la fine.

Il declino dell’economia politica dopo Ricardo evidenziò il tentativo degli economisti volgari di dare una parvenza razionale alle forme irrazionali dell’interesse e della rendita, mostrando anche l’insufficienza scientifica del metodo ricardiano, che – secondo l’analisi di K. Marx – conduceva perfino a risultati errati. Questo comportò successivamente un esito di accomodamento di materiali eruditi in una compilazione eclettica che volgeva all’eliminazione delle antitesi e quindi del pensiero stesso scientifico.

Secondo un pensiero che invece accoglie la contraddittorietà del reale e quindi delle forme economiche come uno dei suoi riflessi, si va qui a verificare la categoria della molteplicità di capitali indipendenti e conflittuali – che Marx individuò in un contesto di anarchia (non politica, ma di produttività non programmabile) tra fratelli nemici – costantemente alla ricerca di un equilibrio produttivo mai stabilizzante. Attrazione e/o repulsione in base all’unica autorità costituita dalla concorrenza, all’interno di un rapporto di classe e nello stesso tempo movimento ciclico attraverso stadi differenti, allargamento della scala di produzione, crisi da sovrapproduzione, e infine, se non risolta, soluzione nella guerra tra nazioni, si trova solo nell’unica analisi politicamente scartata, ma qui riproposta, quella marxiana.

L’attuale “scontro inter-imperialistico che al momento si svolge tra aree valutarie e che palesemente, ormai, vede contrapposti capitali legati al dollaro con quelli legati alle valute asiatiche” – secondo le stesse parole di Schettino – appare quindi la conferma di uno sviluppo analitico su base storica che ormai si determina nel mercato mondiale, come “profetizzato” nel Capitale, in termini di tendenza ineluttabile della natura contraddittoria di questo modo di produzione.

Un breve panorama, quindi, delle scuole neoclassiche, marginaliste e monetariste caratterizzate da “fissismo economico” determinato nell’immutabilità spazio-temporale, conduce l’autore a condividere l’approccio darwiniano. Dalla trasformazione naturalistica precipua, infatti, si apre la possibilità storica di un divenire economico non già irrelato, ma in evoluzione continua da determinazioni scientificamente riscontrate, e invalidanti le stantie concezioni dominanti. Non quindi la riduzione dell’essere sociale a formule o rinvii a complessità generiche negatrici di ogni antagonismo, o lotta reale, che richiedono di adeguarsi senza capire.

Di qui all’approdo marxiano il testo non lascia dubbi, condividendone questa sintetica riflessione: “L’economia volgare si fa largo solo quando l’economia stessa con la sua analisi ha già dissolto e reso vacillanti i propri presupposti. L’economia volgare diventa consapevolmente più apologetica e cerca di eliminare a forza di chiacchiere i pensieri e, in essi, le antitesi … L’ultima forma è la forma accademica o professorale, che procede “storicamente” e, con saggia moderazione, raccoglie qua e là il “meglio”, senza badare a contraddizioni, bensì alla completezza. Toglie lo spirito vitale a tutti i sistemi, da cui elimina il mordente, cosicché si ritrovano pacificamente riuniti nella compilazione. Il calore dell’apologetica è temperato qui dal­l’erudizione che osserva con benevola superiorità le esagerazioni dei pensatori economici e le tollera come curiosità che galleggiano nella sua mediocre poltiglia. Poiché lavori di questo genere appaiono solo quando si chiude il cerchio dell’economia politica come scienza, sono nello stesso tempo le tombe di questa scienza.”

Il confronto teorico più rilevante si ha infine con l’analisi del presente, posta in vari punti. L’“economia politica” viene qui riletta con l’occhio “critico” di chi vede imprese, concorrenza, monopoli, crisi e guerre di un modo di produzione non come l’esistente già costituito da esporre, ma come un processo di costituzione storica da cui appunto la scienza economica prende l’avvio e da cui poi progettare mutamenti significativi.

E questi non includono l’indistinta concezione dei fattori produttivi o della cosiddetta Formula trinitaria (terra, capitale, lavoro) della produttività marginalistica, lasciando insoluta la genericità di una loro ipotetica comparabilità e sostituibilità potenziale, mistificata nella cosiddetta produzione di “beni”, termine impropriamente usato come sinonimo di merci, in cui l’omogeneità di capitale e lavoro sarebbero funzionali all’incremento di un utopico “benessere sociale”, mai realizzabile in senso universale.

La sostanziale indistinzione di capitale, lavoro, terra e tutto ciò che li caratterizza, comporterebbe così l’inestimabile importanza per le teorie dominanti di ignorare non solo il valore ma la sua sorgente nel lavoro vivo, e obliterare soprattutto la reale finalità produttiva del modo di produzione del capitale inscritta nella produzione di plusvalore come origine dei profitti, e come produzione di capitale tout court. La cosiddetta crisi del marxismo e della critica dell’economia, pertanto, viene attribuita solo alla insufficiente conoscenza del marxismo stesso e alla pochezza della sua diffusione quantitativa.

La considerazione del problematico presente, inoltre, non si arresta alla valutazione di alternative al capitalismo, come il modello della Repubblica Popolare Cinese, interessante per l’utilizzazione della pianificazione e per l’ispirazione socialista, senza per questo dimenticare l’analisi engelsiana del ruolo dello Stato “tenuto unito dalla vita civile” entro comunque il modo di produzione capitalista. Ed anche l’esperienza della maggior parte dei partiti politici di sinistra europei schiacciati su posizioni neoliberali a conferma del “there is no alternative” thatcheriano, nonostante l’incremento di sfruttamento e disuguaglianze sociali accettato come ineluttabile convivenza con l’affermazione di un “occidente” sempre più accentuatamente destrorso.

L’ultima strumentazione su cui il libro informa è lo studio di Kohei Saito (“Il Capitale nell’Antropocene”, 2024, Einaudi) in cui ci si chiede se la “frattura del metabolismo” con la natura, prodottasi negli ultimi decenni da parte della nostra specie, abbia la possibilità di essere sanata.

Non si svelerà qui la conclusione, se ne darà però solo una traccia attraverso le sue parole “non siamo poveri perché non produciamo abbastanza, ma perché il capitalismo fa della scarsità la propria esistenza. È il conflitto tra valore di scambio e valore d’uso”. Un ultimo riferimento al titolo: da non dimenticare l’ironia, la provocazione, l’auspicio, interno alla lotta teorica, della possibile negazione della realtà, consistente nell’usuale privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite cui siamo stati abituati finora!

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1 Commento


  • Max

    Duplicato del commento a correzioni dei suoi numerosi refusi.

    Tema straordinario.
    La Madre di Tutti i Problemi di cui finora mai si è parlato ed ora, con quindici anni almeno di ritardo si comincia timidamente.
    il Tema dei Temi del Terzo Millennio, l’idea di Capitalismo Egemone, totale, una idea di futuro introdotta a brutto muso dal duo Thatcher/Reagan (la prima non a caso citata) nei lontani anni ottanta e ripreso con stucchevole ineccepibile disarmante inflessibile fredda e ipocrita cortesia, dopo la decade degli anni novanta, transitoria tra ordine bipolare e multipolare, dalle grandi sinistre sempre più sedicenti democratiche sempre meno popolari, esattamente allo scoccare del Millennio.
    Quale è stato l’evento storico più importante del nuovo secolo, fin qui?
    Per me, per la portata immane e pregna di conseguenze a tutti i livelli dell’architettura geopolitica sociale antropologica, certamente è stata l’ammissione della Cina al WTO, datata 2001.
    Quanti lo pensano?
    Pochissimi, quasi nessuno.
    Molti non sanno nemmeno di cosa si parla.

    Eppure io sono certo che sarà quello l’evento a indurre gli storici a scegliere il 2001 come data convenzionale per fissare l’inizio di una nuova fase storica, e segnatamente in ragione di quell’evento, insieme con altri di quell’anno, quali la concretizzazione della UE in moneta circolante, la stabilizzazione di Putin in Russia allora in corso, il G8 di Genova che segna la dispersione del movimento antagonista, ovvero di qualsiasi critica, resistenza, ipotesi alternativa. E se non segnalo l’evento dell’11 settembre, quello che cancellò tutti gli altri dalla memoria collettiva, non è per caso.
    L’inizio effettuale della globalizzazione, cioè della applicazione della motrice capitalista (vero pensiero unico) nella gestione del nuovo assetto multipolare, fu l’ammissione della Cina al WTO appena istituito, durante la preparazione del nuovo mondo, a metà anni novanta..
    Un sistema di vasi comunicanti che per i suoi meccanismi e dinamiche conseguenti, sui quali è impossibile qui dilungarsi, costituisce un habitat selettivo in cui i sistemi democratici si disgregano, tendono alla dissoluzione, all’estinzione, i sistemi autocratici invece fioriscono, si stabilizzano, risultano ….adattativi.

    Ecco perché il tema, che andava certamente affrontato dalle sinistre occidentali fin da subito per dovere statutario e morale di contrasto alle ingiustizie sociali, alle diseguaglianze, ora sale di livello e travalica quello, già scandalosamente trascurato (anzi addirittura alimentato dal neoliberismo di sinistra), innalzandosi al grado drammatico della sopravvivenza del concetto di democrazia. Democrazia aggredita su due fronti: su quello interno dai populismi, alimentati dal vuoto anzi dalla VORAGINE di rappresentanza lasciata dalla sinistra; sul fronte esterno dai colossi emergenti, ora emersi anche troppo , che colonizzano, colonizzano sulle macerie della nostra decadenza, preparando il terreno a un tempo prossimo in cui, chiuse le gabbie in costruzione, ci faranno girare e saltare a schiocchi di frusta come animali da circo, lasciandoci unica alternativa il conflitto.
    Non dico che accadrà ma lo scenario è concreto e sempre più considerato.

    E a fronte di questo, di queste dinamiche svoltesi per venti anni al rallentatore sotto i nostri occhi la nostra base, rivolta altrove, per venti anni si è “trastullata” coi diritti di genere!
    Fondamentali importantissimi, non voglio essere frainteso ma….se hai, che so, Hitler che entra nel Trentino non dei diritti di genere, ti dai altre priorità. O quanto meno ti occupi di entrambi, ma Hitler non lo trascuri. Se lo fai, è difficile attribuire tale trascuratezza e a uno stordimento, a…distrazione.
    Alcune delle priorità tematiche degli ultimi venti anni, civiche soprattutto, e antropologiche, possono essere onestamente affrontate soltanto sulle basi di una società equilibrata e stabile, non in una fase di regressivo disastro sociale.
    Vero che alcune ci sono venute addosso, portate in molta parte dal fattore tecnologico, ma a molte sono state poste in cima all’agenda politica e mediatica dalla… politica.

    Alla lunga, di fronte a una cecità inspiegabile, si inizia a credere che certi temi battuti ossessivamente e in clima di forte polarizzazione identitaria siano stati usati non soltanto da destra ma anche da sinistra, dalla sinistra neoliberista (ossimoro puro) come serbatoio di consenso, arma di distrazione di massa, insieme ad altri temi altrettanto e forse più importanti ancora, tragici come l’ambientalismo, le migrazioni, le guerre, tutti straordinariamente e GIUSTAMeNTE discussi, sostenuti (raramente affrontati in concreto) ma come a saturare il dibattito, l’attenzione pubblica, a cancellare dal dibattito silenziosamente il tema di cui stasera si parlerà: la fagocitazione delle democrazie ad opera del capitalismo.
    Io la ho vissuta come una lunga censura “passiva”, una forma di censura soft, “residuale”, non imposta, che non si vieta
    a nessuno di parlare di lavoro, di capitalismo; semplicemente il tema non è nell’agenda politica né in quella del dibattito pubblico perché le priorità sono altre e spazio per esso non ne lasciano, non ne resta.

    Per me non serve nemmeno richiamarsi a Marx ora, anche perché farlo significa restare confinati nel proprio ambito ristretto, continuare a parlarci addosso fra quattro gatti e sempre meno, mentre l’esigenza primaria è espandersi a cercare di coinvolgere, di aprire gli occhi al 60/70% degli elettori storditi, schierati e divisi da sensi di appartenenza identitaria, di gruppo e INDIVIDUALE, quest’ ultima più potente ancora, profonda, genetica, ancestrale, inconscia, subliminale.
    Noi dobbiamo parlare alla maggioranza che vota sempre più a destra e sempre più populista e non possiamo certamente farlo sbandierando Marx, vessillo ideologico identitario per eccellenza
    (e se anche non lo fosse così da quella maggioranza viene percepito).
    Noi dobbiamo trovare nuove soluzioni di compromesso, di ibridazione fra istituzione politica e capitale, capitalismo.
    E proporle, nei fatti, nella forma di programmi politici precisi.
    E gli economisti sono fondamentali per questo!
    Loro devono farlo!
    Loro hanno tanto contribuito a portarci dove siamo, sul ciglio di un baratro, e loro devono trovare le soluzioni, le soluzioni “tecniche”.
    Dal 2001 ad oggi chiunque abbia guadagnato investendo denaro nel mercato azionario lo ha fatto insistendo su una china finanziaria fortemente indirizzata al sacrificio dei lavoratori occidentali e alla concomitante crescita dei grandi poli autocratici.
    Chi qui, in occidente, ha guadagnato in borsa in questo paradigma globalizzato in cui viviamo, lo ha fatto in buona parte speculando sulla sofferenza dei propri concittadini e avvantaggiando le autocrazie, premiando le scelte aziendali che affossavano il mercato del lavoro in una concorrenza al ribasso (delocalizzazioni), poi sfruttandone il ricatto sociale che essa costituiva (cessione di quote salariali, di diritti, di tutele per mantenere le produzioni in loco) insomma sfruttando la voce “costi del personale”.
    Chiunque abbia svolto attività manageriale e di investimento (dai più grandi fondi al più piccolo speculatore solitario) ha stra-guadagnato sul travaso epocale di beni, linee di produzione, competenze avvenuto verso i paesi emergenti e andrebbe considerato come un parassita. Un parassita che ha investito sulla pelle dei propri concittadini e, più o meno consapevolmente, sulla disintegrazione dei sistemi democratici.
    Bisognerebbe additarli per strada, sviluppare un senso di condanna morale e di vergogna.
    Invece no. Le nostre classi dirigenti hanno allargato le braccia dicendo: il mondo va così, dobbiamo adeguarci o meglio, dovete adeguarvi (*), perché esse, le classi dirigenti, lo hanno fatto benissimo lasciando il prezzo della globalizzazione (processo di per sé ammirabile ed anzi inevitabile nel progresso della civiltà umana, ma non nei termini impiegati a inizio millennio), lasciando quel prezzo interamente sulle spalle della popolazione, salve minoranze parassitarie folte ma pur sempre, e voraci, minoranze.
    E il modello di globalizzazione forse non poteva essere tanto diverso ma sicuramente un po’ migliore, e questo modello non ci è caduto sulla testa come tavole di Mosè, è in occidente che è stato, anche, pensato, avallato.

    Allora se il quadro che ho in mente – da quasi venti anni, venti anni di silenziosa anonima sofferenza e livore – se il quadro descritto è verosimile, e mi pare che lo sia, trovando conferma sempre più frequente da esperti e voci pubbliche negli ultimi tempi, allora per quale motivo i nostri giovani pensano che “essere di sinistra” sia indossare una kefia, fare manifestazioni per la Palestina, per la Generica Pace nel Mondo, per l’Ambiente, per i diritti arcobaleno?
    Perché a tutte queste lodevoli forme di attivismo, a questa coscienza civica tanto sviluppata, i nostri giovani non associano mai una coscienza sociale?
    Perché?
    Perché?
    E ciò proprio nella fase storica in cui, purtroppo, quella coscienza sarebbe drammaticamente necessaria!?
    È a questo che li abbiamo cresciuti, educati?
    Io ne soffro. Moltissimo.
    Li vedo persi, vedo tutta la fragilità, l’ingenuità l’inconsistenza della loro età in tempi in cui essa non è concessa, e vedo generazioni adulte che li abbandonano ad essa, al loro destino.
    Ne ho pena, li amo, sono i nostri figli, non hanno colpe della loro miopia: raccolgono quel che hanno intorno, quel che viene da noi.

    E noi, davanti alla crescita populista, quale responsabilità abbiamo noi?
    Molti si limitano a descriverla come se venisse dal nulla: sopita per decadi, è di nuovo sveglia certa destra. Perché?
    Ce le poniamo queste domande o pensiamo sempre che la colpa sia di altri?
    Oltre alla voragine di rappresentanza (insostenibile in democrazia segnatamente in tempi di compressione sociale) c’è l’ipocrisia, e l’ipocrisia sviluppa avversione.

    Quale credibilità si ha nel fare appello a buoni sentimenti, alle coscienze, alla sensibilità umana per temi di genere e migratori e per i diritti di qualsiasi minoranza ovunque sia, se al contempo si mostra sprezzante indifferenza, snobistica distrazione per le difficoltà e i diritti della maggioranza che vive dietro la porta accanto alla nostra?
    C’è una contraddizione in questo, la contraddizione viene “percepita” da quella maggioranza trascurata muta e impotente, trombata. La perdita di credibilità nel tempo, nella parte meno strutturata di quella maggioranza produce rigetto.
    Oggi soprattutto penso ai migranti o più ancora agli immigrati, che da loro, e dalle condizioni all’origine, cioè dagli aspetti strutturali , non da quelli emergenziali (di cui “casualmente” più si parla) bisognerebbe partire per affrontare il nodo biblico, straziante del fenomeno migratorio,

    Sono quindici anni che rumino tutto questo senza poterlo esprimere o meglio, l’ho espresso tante volte attraverso vari canali ma nel disinteresse generale con grande frustrazione.
    Ora finalmente si comincia a parlarne.
    Paradossalmente bisogna ringraziare…Trump.
    Ma i tempi per le analisi li abbiamo passati parlando d’altro, ora gli eventi stanno iniziando a precipitare, non c’è più tempo, le analisi bisogna chiuderle in fretta e passare alla previsione di scenario, alla visione, alle proposte di soluzione, a quelle pragmatiche, ai programmi.
    In fretta.
    E non credo che Marx potrà darci tutte le risposte.
    Personalmente lo trovo anacronistico e poi, realisticamente, con quella maggioranza dobbiamo parlarci, secondo i canoni veri della politica che abbiamo accantonata, ovvero il dialogo per una visione comune su elementi condiviso e, laddove non lo siamo, su elementi di compromesso.

    *Nota
    altra citazione del vostro lodevole testo che ha stimolato il mio commento.
    Una citazione composita che si addice esattamente al passaggio in cui è inserita la nota, attinge da due periodi del vostro testo mettendomi insieme in una logica consequenziale:


    Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui


    anche l’esperienza della maggior parte dei partiti politici di sinistra europei schiacciati su posizioni neoliberali a conferma del “there is no alternative” thatcheriano, …

    Esatto, i colonizzati siamo noi tutti, popolino.

    Ed esatto, preso atto della prima citazione, la seconda è irricevibile: “non c’è alternativa” è una affermazione facilmente rivolta agli altri, è una scusa, una bugia che non voglio più sentir pronunciare, così come non voglio più vedere un solo responsabile di alto livello nel gesto di allargare le braccia.

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