Nell’intervista del 1° agosto 2025 David Grossman – da sempre la “voce buona” del sionismo – confessa: «Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola: “genocidio”. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla… con immenso dolore e con il cuore spezzato».
Parole che suonano però come un’ammissione tardiva. E soprattutto intrise di profonda ipocrisia. Il riconoscimento del termine infatti non è una scelta coraggiosa, ma un gesto che arriva quando ormai il cinismo politico ha consumato ogni residuo di etica e risulta “in-credibile”.
Grossman riconosce solo strumentalmente che l’uso della parola genocidio è carico di fini morali e simbolici, evocando la storia dell’Olocausto per rendere ancora più tragico il confronto con la “fame” o la “distribuzione di morte” nella Striscia.
Ma proprio per questo, quando il potere comincia ad appropriarsi di una parola così carica di significato simbolico, il rischio non è solo etico. È retorico. È funzionale insomma alla legittimazione del conflitto.
Tuttavia, il passaggio più deplorevole – e che rivela l’essenza strettamente suprematista, razzista, tipicamente occidentale del pensiero di Grossman – è quello in cui lo scrittore aggiunge: «Il grande errore dei palestinesi sta nel fatto che avrebbero potuto trasformare Gaza in un luogo fiorente: invece… l’hanno usata come rampa di lancio per i missili».
Questa affermazione francamente ignobile sposta parte della responsabilità sul popolo palestinese. Come se la devastazione che colpisce civili, bambini, famiglie fosse frutto di un loro fallimento organizzativo o progettuale.
È la solita narrazione della collaborazione involontaria al proprio destino, che sottrae al colonialismo e all’occupazione l’unicità del crimine.
In questa versione, il genocidio si originerebbe anche da una presunta incapacità palestinese a governare Gaza. Insomma, tutto sommato i palestinesi “se la sono cercata”.
Ma Grossman ovviamente sa che non sta facendo solo un’analisi storica. Sceglie consapevolmente una prospettiva apparentemente equilibrata che tende a mantenere una distanza morale da Israele, puntando però il dito verso i palestinesi.
«Sia noi che i palestinesi dovremo comportarci in modo politicamente maturo…», dichiara. Insinuando così che le vittime implose o sopravvissute debbano in qualche modo meritare la loro salvezza comportandosi “degnamente”. Lasciando cadere la colpa in ultima istanza su chi subisce l’oppressione.
Lo scrittore israeliano peraltro conferma la sua adesione disperata alla soluzione dei due Stati: «Resto disperatamente fedele all’idea dei due Stati… non c’è un altro piano». E plaude al riconoscimento palestinese auspicato da Macron, proponendo come condizione «niente armi» e «elezioni trasparenti», escludendo chi avrà usato violenza contro Israele.
Praticamente non resterebbe nessuna formazione politica ammessa al gioco (anche l’Anp impresentabile di oggi ha un passato glorioso di resistenza)…
L’immagine che si delinea è dunque cristallina: il futuro Stato palestinese deve accettare passivamente di essere disarmato, vigilato, controllato, in cambio di un riconoscimento politico.
È una proposta che moralizza la soppressione dei diritti costituzionali palestinesi, condannandoli a un ruolo di subalternità obbediente.
È una retorica della potenza che patrocina l’idea di un partner utile solo se incapace di difendersi politicamente e militarmente. In parole povere, l’unico Stato accettabile è uno Stato palestinese senza forza.
L’intervista di Grossman, nonostante le sue supposte intenzioni pacifiste e il dolore esibito, si presta quindi perfettamente alla retorica dominante che depoliticizza e moralizza la questione.
Il genocidio diventa infatti una categoria astratta, scaraventata sui civili palestinesi come se l’autodistruzione fosse una colpa, e la soluzione dello Stato disarmato un passaporto per una nuova normalizzazione dell’occupazione.
Il momento del riconoscimento del genocidio è tardivo perché arriva quando le dinamiche di sterminio sono già attive e incontrollabili; ed è funzionale, perché legittima una narrativa in cui Israele resta il centro della storia, mentre i palestinesi restano periferici persino nella loro condanna.
L’intervista potrebbe essere letta come un passo verso la coscienza critica israeliana – come difatti è stata letta da più parti, anche “a sinistra”, ahinoi – ma è anche lo specchio di come anche la parola Genocidio, quando acquisita in ritardo, possa diventare un vettore della stessa oppressione che dice di voler denunciare.
La si smetta dunque, una volta per tutte, di elogiare Grossman e di opporlo alla Segre. Sono due facce della stessa medaglia insanguinata. Il sionismo.
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Sergio Binazzi
purtroppo si è quasi perso il conto delle vittime palestinesi, dico vittime, e penso condividiate, poiché è dalla costituzione dello stato israeliano in una terra che da sempre non gli appartiene. ora purtroppo assistiamo a tutti gli effetti alla pulizia etnica dei veri padroni di casa. dopo tutto questo tempo saltano fuori bastardi come grossman o la segre a fare dichiarazioni falso_buoniste sulla situazione. ci volevano oltre 60.000 morti per cominciare timidamente ad accennare la fatidica parola ” genocidio: ? sono precisi ai nazisti questi sionisti, stanno bene sotto terra come i loro antenati. poveri vermi!!!
Mauro
I sionisti erano mediaticamente con le spalle al muro ed Hamas cosa fa?Posta i video di due prigionieri ridotti pelle ed ossa scatenando l’indignazione generale e l’accusa di nazismo…il pubblico a casa è confuso…
Ta
Grossman aspira al Nobel per il cinismo…
Pasquale
Bisogna concordare che si tratta di pura e semplice ipocrisia. Tutti sanno che affinchè ci sia spazio per i palestinesi , i coloni devono abbandonare le terre usurpate con la forza e la violenza.