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Il tempo della luce: addio a bob Wilson

Quando il corpo di Robert “Bob” Wilson si è spento ieri l’altro all’età di 84 anni, il Teatro non ha perso solo un regista. Ha perso una vera e propria macchina percettiva.

Il suo addio segna la fine infatti di una stagione – forse l’ultima autenticamente utopica – in cui la scena non cercava di spiegare il mondo, ma di decostruirne le strutture sensibili.

Considerato tra gli artisti teatrali contemporanei più visionari, geniali e radicali, Bob Wilson – nato a Waco in Texas, il 4 ottobre 1941 – fu celebre per il suo spirito sperimentale, quasi pionieristico sul piano della produzione artisica, affrontandone la pluralità di linguaggi, forme, codici, testi.

In una intertestualità e pluricodicità magmatica e feconda, che trovava sulla scena teatrale la sua espressione più potente e sincretica. Dove si incontravano e reagivano Oriente e Occidente.

Dalla scultura alla pittura, dall’architettura alla scenografia, dalla videoarte alla performance art, nel corso della sua carriera Wilson ha saputo attraversare diverse metamorfosi culturali e poetiche.

Icona dell’underground grazie alle collaborazioni con Tom Waits per le musiche e con William S. Burroughs per i testi de “The Black Rider” , o quella con Lou Reed in occasione di “POEtry”, ispirato ad Edgar Allan Poe; sperimentò in seguito sinergie con stelle del pop, come Marina Abramović nella produzione de “The Life and Death of Marina Abramović” con musiche di Antony Hegarty; fino alla collaborazione con Lady Gaga, nella serie di ritratti video esposti al Louvre nel 2013.

Fondamentale fu ovviamente il sodalizio artistico con il genio di Philip Glass, col quale iniziò una lunga collaborazione a partire da A letter for Queen Victoria (1974). E con la cui collaborazione firmò soprattutto Einstein on the beach (1976), forse il suo capolavoro.

La carriera nel teatro di Bob Wilson inizia ufficialmente allo scadere degli anni Sessanta con la fondazione della Byrd Hoffman School of Byrds, intitolata all’insegnante che lo aveva aiutato a superare una brutta balbuzie che lo tormentava sin da piccolo.

Nella Grande Mela in quegli anni Bob entra in contatto con il lavoro avanguardistico di coreografi come George Balanchine, Martha Graham e Merce Cunningham, approfondendo contemporaneamente i benefici del lavoro teatrale terapeutico su bambini con lesioni cerebrali e disabilità.

L’amore per il palcoscenico lo convince infine ad avviare la propria compagnia nel 1968. Compagnia che gli consentirà di creare i suoi primi lavori importanti.

Da qui nascono infatti opere come The King of Spain e The Life and Times of Sigmund Freud, seguite poi dal primo grande successo mondiale “Einstein on the Beach”, di cui si faceva già cenno più sopra.

Spettacolo di ipnotica suggestione, che come ebbe a dire Franco Quadri (uno dei padri della critica teatrale contemporanea) si condensava in una complessa trama di scrittura scenica incentrata sulle dimensioni dello spazio-tempo e soprattutto sull’assenza.

il 14 dicembre 1973, all’Opera House della Brooklyn Academy of Music di New York, Wilson portò in scena “The Life and Times of Joseph Stalin” che rielaborava elementi del precedente omonimo su Sigmund Freud.

Opera del silenzio della durata di ben dodici ore, “The Life and Times of Joseph Stalin” colpì a tal punto Allen Ginsberg – che in seguito avrebbe collaborato con Wilson in Cosmopolitan Greetings – il quale avendo visto lo spettacolo ricordò che: «guardando Stalin, ero in pace».

Negli anni settanta, all’alba di una nuova spettacolarità, Bob Wilson venne definito da più parti il “padre putativo” del Teatro Immagine.

Tendenza ed indirizzo di ricerca che troverà nella marginalità, nella visionarietà e nella dimensione onirica temi e codici estetici per esorcizzare il malessere profondo e il disagio esistenziale scaturiti dalla sconfitta e dallo sradicamento del ’68, facendone nuovo strumento rivoluzionario per una strategia del dissenso.

Circonfuso da un’aureola quasi mitica, assurto come detto a fama internazionale con i due spettacoli fiume (uno della durata di 7 giorni e 7 notti, l’altro di 24 ore) Wilson si fece sostenitore di un teatro visionario e anti narrativo.

Un linguaggio che sconvolgeva tutti i canoni della rappresentazione, agendo sulle facilità percettive dello spettatore, attraendolo in un perimetro di suggestione ipnotica.

Nei suoi spettacoli, segnati da un forte richiamo alla pittura, l’azione veniva assecondata da un tessuto sonoro di registri diversi, evolvendosi con un’esasperante lentezza di tempi su una trama visuale di apparizioni e dissolvenze.

Un clima rarefatto, sottratto alle coordinate spazio-temporali, in cui anche l’irruzione di frammenti del quotidiano assume un valore perturbante che sottolinea l’ordine sconvolto delle relazioni allo stesso modo della comparsa dei residui diurni nel processo di esperienza onirica.

In Bob Wilson tutto è tempo, luce, gesto. Niente è spiegazione. Non ha mai creduto alla narrazione lineare. Il suo teatro, sospeso tra l’ossessione del silenzio e il delirio della lentezza, ha imposto una nuova grammatica dell’attesa.

Non è stato un uomo di messaggi Wilson, ma di visioni. Le sue scene erano ideogrammi, non parabole. L’anti-Stanislavskij per eccellenza, Wilson ha restituito al palcoscenico l’autonomia dell’immagine, dell’architettura luminosa, della pulsazione sonora. Se Artaud voleva un teatro come peste, Wilson ne ha fatto un rituale ottico. Anestetico e acido insieme.

Con la sua scomparsa se ne va uno degli ultimi ingegneri scenici, capaci di disarticolare radicalmente le forme dello spettacolo borghese, non attraverso la denuncia diretta ma con una messa in crisi sistemica delle sue coordinate percettive.

La sua opera si è sviluppata lungo una faglia carsica dell’avanguardia statunitense postmoderna, ma ha resistito —e per certi versi sabotato— le logiche della mercificazione dell’arte.

In un’epoca in cui il teatro tende sempre più a mimare i meccanismi del mercato (velocità, trasparenza, consumo immediato), Wilson ha costruito un contro-dispositivo scenico fondato sull’opacità, sullo scarto, sulla durata. Chi ha assistito a Einstein on the Beach sa ad esempio cosa significa disintegrare la consecutio temporum.

Dalle sue creazioni non si usciva con un senso in tasca ma con uno shock visivo e corporeo, come dopo un’esposizione prolungata a una fonte luminosa troppo intensa.

Wilson è stato un artista visivo prestato al teatro, rifiutando la dicotomia tra pittura e azione.

Le sue scene non erano mai statiche: erano partiture. E i suoi attori, automi posseduti da un ritmo inesorabile, sembravano preda di una logica al di fuori della psicologia.

La lezione di Bob Wilson, oggi, è quanto mai radicale. In un panorama teatrale che si è nuovamente riempito di parole, di spiegazioni, di temi civili ridotti a slogan, il suo silenzio calibrato resta un atto politico.

Nel cuore del postfordismo culturale, dove anche l’arte è diventata prestazione, Wilson ha rifiutato la prestazione come valore.

I suoi attori, ridotti a replicanti rituali, non erano mai interpreti “psicologici”, ma figure smaterializzate, campi semantici, residui antropologici dentro un campo visivo progettato come una fabbrica ottica.

La scena in Wilson non fu mai realistica. Si delineava come un apparato. E come ogni apparato va analizzato nei suoi ingranaggi, nella sua logica di produzione del senso. Come l’inconscio di Deleuze e Guattari ne “L’Anti-Edipo: Capitalismo e schizofrenia”.

Se oggi il suo lavoro ci appare difficile, inaccessibile, “freddo” è perché rifiuta la funzione narcotica dell’identificazione: quello stesso meccanismo su cui si fonda il teatro borghese e, più in generale, ogni forma di comunicazione spettacolare nel regime della merce.

Il suo teatro non è mai catartico. È un processo, non un prodotto. E anche quando sembra concedersi -come talvolta è accaduto- al mercato e al linguaggio più squisitamente neoliberale, quella di Bob Wilson resta una scena che non consola.

Una scena che estranea straniando strategicamente, per rendere visibile l’alienazione reale che struttura (in senso marxiano) la nostra vita quotidiana.

Wilson dunque non produceva spettacoli. Costruiva strutture percettive antagoniste. E la lentezza, che da tutti è temuta come disfunzione, per Wilson era precisione estrema.

Il suo era il teatro dell’ossessione: per il dettaglio, per la luce giusta, per la durata. In un mondo dominato dall’immagine rapida la sua lentezza era sovversione.

Nel ricordarlo non serve cadere nella nostalgia. Wilson d’altronde non ha mai voluto essere “capito”. Ci chiedeva piuttosto di vedere con uno sguardo spogliato da ogni abitudine.

E oggi forse il miglior omaggio che possiamo rendergli è questo. Entrare in una sala buia e aspettare che accada qualcosa che non possiamo tradurre in parole.

Bob Wilson non è morto. Si è soltanto spento, come fanno le luci a fine spettacolo. Ma la sala resta accesa.

Ancora per un po’...

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