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Genocidio e linguaggio: la semantica dell’ impero

Come sosteneva Gramsci nei Quaderni, il linguaggio è potere e ideologia. Non è mai asettico o impersonale.

Ogni parola che pronunciamo è già attraversata da rapporti di forza, carica di significati storicamente determinati e ideologicamente costruiti.

La lingua non è semplicemente un mezzo per comunicare. È il terreno stesso su cui si gioca la lotta per l’egemonia.

In questo senso l’analisi del rapporto tra linguaggio e potere non può che essere condotta a partire da una prospettiva marxista, che riconosca nella produzione simbolica una dimensione altrettanto determinante quanto quella economica.

Ai tempi del capitalismo crepuscolare e tardo-imperialista infatti, il linguaggio è evoluto come sofisticato  strumento sofisticato di governo, gestione del dissenso, cancellazione del conflitto.

Il controllo significante di concetti fondamentali come “terrorismo”, “pace”, “difesa”, “resistenza”, ma soprattutto “genocidio”rivela l’intreccio profondo tra dominio politico-militare e dominio ideologico.

Ed è su questo crinale che si colloca la censura sistematica del termine genocidio, appunto in relazione alle politiche israeliane nei confronti del popolo palestinese.

Nel contesto dell’occupazione sionista della Palestina, il termine genocidio è diventato dunque un campo di battaglia semantico.

Nonostante le prove documentate di pratiche metodiche” di sterminio, pulizia etnica e distruzione culturale perpetrate da Israele nei confronti dei palestinesi, l’uso della parola viene a seconda dei casi ostracizzato, criminalizzato, ridicolizzato o ridimensionato nei circuiti dell’informazione mainstream.

Ridimensionamento avvenuto ad esempio, come abbiamo già visto, nel caso dello scrittore David Grossman, che la nomina nel corso dell’intervista a Repubblica ma ne depotenzia il senso, attribuendone colpa anchee quasi oseremmo dire soprattutto ad Hamas, e dunque alle stesse vittime.

Si assiste orbene a una vera e propria operazione di rimozione linguistica, che mira a neutralizzare le potenzialità accusatorie e giuridiche della parola.

Il potere di nominare è infatti anche potere di negare. E chiamare “autodifesa” ciò che è aggressione; “conflitto” ciò che è oppressione unilaterale, “terrorista” chi resiste all’occupazione, e – peggio – “antisemitismo” ogni critica a Israele, rappresenta per l’appunto un dispositivo linguistico di negazione. Iscritto nel perimetro ideologico di un più ampio dispositivo di dominio culturale.

È una strategia coloniale dell’immaginario che mira a garantire l’impunità del potere imperialistico dello Stato sionista, conferendogli un travestimento e uno slittamento linguistico sul campo semantico del Paradigma vittimario.

Lo Stato d’Israele, in quanto avamposto coloniale dell’imperialismo euro-atlantico in Medio Oriente, ha sviluppato pertanto un articolato apparato censorio sia interno che esterno, volto a impedire l’emersione di narrazioni antagoniste.

Il divieto esplicito di utilizzare il termine genocidio in riferimento all’operato militare dell’Idf non è un caso isolato ma parte di una lunga tradizione repressiva. Nel territorio sotto controllo dell’entità sionista giornalisti, attivisti e persino intellettuali ebrei vengono perseguitati.

Ma la censura non si ferma ai confini dello Stato, venendo esportatacome abbiamo visto più volte in questo periodo attraverso la pressione diplomatica delle lobby sioniste in Occidente e un sistema mediatico totalmente allineato.

Chi osa parlare di genocidio viene immediatamente delegittimato, criminalizzato, espulso dal discorso pubblico. Per esempio, il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, ha presentato un disegno di legge (ddl 1004) in cui si equipara la critica al sionismo all’odio antiebraico. Il ddl è ora in commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama .

Oppure, come nel caso di Grossman, voce troppo autorevole per essere silenziata – e tutto sommato funzionale al sistema – gli si oppone un controcanto altrettanto mediaticamente autorevole.

Controcanto che nel caso in parola ha trovato un’interprete d’eccezione nella senatrice Liliana Segre. Negazionista del genocidio e dunque obiettivamente complice, per quanti distinguo possa ella fare.

Ordunque, da un punto di vista marxista, la censura del termine genocidio rappresenta un caso emblematico di come la sovrastruttura ideologica serva a proteggere gli interessi materiali delle classi dominanti.

Il dominio del capitale infatti non può mantenersi senza una narrazione egemonica che giustifichi, legittimi e normalizzi la violenza di Stato.

In questo contesto come ben sappiamo Israele agisce come testa di ponte dell’imperialismo occidentale e la difesa della sua impunità linguistica è parte integrante della difesa dei rapporti di produzione e di forza globali.

La parola genocidio fa paura perché disvela la verità storica. Quella di un progetto coloniale che fin dal 1948 si basa sulla cancellazione fisica e simbolica del popolo palestinese.

Parlarne significa spezzare il velo ideologico dell’“eccezionalismo israeliano” e rivelare le contraddizioni interne del diritto internazionale.

Ma soprattutto, vuol dire mettere in discussione la costruzione del Paradigma vittimario, le cui fondamenta poggiano sull’unicità storica della Shoah.

Ricreare un linguaggio sottraendolo al controllo egemonico dei padroni, riappropriarsi di una semantica antagonista che funzionalizzi nuovamente il pensiero critico, dev’essere dunque uno degli obiettivi imprescindibili del movimento comunista del XXI secolo.

Nella lotta contro le nuove forme del dominio capitalistico.

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1 Commento


  • Sergio Binazzi

    è veramente allucinante come questi ” piazzisti “, senza alcuna offesa per fa il piazzista come lavoro per sopravvivere, della politica riescano ad avere tanto seguito in italia, paese dove purtroppo l’ignoranza politica è di casa, non per tutti ovviamente. io personalmente rimango basito davanti a questo fenomeno. io sono comunista da sempre e non ho la pretesa che tutti condividano le mie idee, ma un po’ di senso critico e di fare funzionare il proprio cervello un po lo esigerei dalle persone. la testa non serve solo per il cappello o gli occhiali. un saluto comunista.

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