«Ho imparato che agli appelli promossi dagli artisti bisogna sempre pensarci due volte prima di firmare, perché gli artisti sono emotivi, infantili e un po’ ingenui e queste caratteristiche, se sono meravigliose per creare film o libri, sono invece meno efficaci quando si tratta di raccontare l’alta politica. Sicuramente ci voglio pensare. Sono in linea con il mio presidente, sono alimentato dai dubbi e ho dei tempi più lenti, non aderisco istintivamente a ogni istanza».
Parlando poi alla Biennale, in occasione della presentazione del suo nuovo film La Grazia, Sorrentino ha aggiunto:
«Se mi si invita a riconoscere che è in corso un genocidio la risposta è assolutamente sì. Questo è uno di quei casi in cui quello che sta succedendo è evidente, non c’è tanto da stare a discutere. Le testimonianze di istituzioni assolutamente affidabili sono riscontrabili. Se invece poi si scivola dentro un’emotività che ti porta a chiedere di censurare o di boicottare, allora in questo caso faccio un passo indietro e sono meno propenso, anzi non sono per niente propenso a censurare nessuno. Soprattutto in un luogo come questo».
Insomma, a dare ascolto al Premio Oscar gli artisti e i cineasti altro non sarebbero che dei fanciulli inconscienti, disarmati davanti agli orrori del mondo. Al cospetto dei quali potrebbero rispondere con emotività. Meglio distaccarsene pertanto con atarassica e tibetana postura.
Roba che meriterebbe il lancio del guanto in segno di sfida collettiva a duello da parte dei colleghi.
Ma andiamo avanti…
Servillo – musa sorrentiniana il cui tratto recitativo distintivo risiede ormai in un’interpretazione format: uniforme parodia di sé stesso con monotonalità vocale – si accoda:
«Sono stato tra i firmatari di un documento che chiedeva di accendere una luce più forte su una tragedia immane a cui stiamo assistendo e credo che il risultato al primo giorno di festival sia già ampiamente raggiunto. Non condivido per nulla il boivottaggio di artisti israeliani o di qualsiasi altro Paese a manifestazioni come la Mostra del Cinema o come la Biennale arte perché credo che questi luoghi siano luoghi di accoglienza in cui si invita tutti e poi ci si confronta e si stabilisce civilmente su che posizione si sta, ma non sono luoghi di esclusione. Questo aspetto, ci tengo a dirlo, non lo condivido».
Ricordiamo che la richiesta di esclusione non riguardava, ovviamente, semplici cittadini israeliani. Ma era indirizzata contro due star, Gal Gadot e Gerard Butler (lui addirittura scozzese) schierate apertamente al fianco del governo sionista e di Netanyahu. Lei, ex istruttrice dell’ Idf. Lui collettore di fondi (ben 60 milioni di dollari) per lo stesso esercito israeliano. Dunque, due sostenitori attivi del genocidio in atto.
Dopo le squalificanti parole del Gatto e la Volpe della cinematografia italiana, si sono dunque sfilati dall’appello, com’era d’altronde prevedibile, altri importanti nomi del cinema nazionale: Ozpetek, Andò, Virzì, Giannini.
Per non dire di Verdone. Scandaloso il suo «sono stato messo in mezzo» (dalla figlia di Ettore Scola, ndr), stigmatizzato giustamente anche da una novantatreenne e sempre coerente Luciana Castellina.
Equilibrismi parolai, con una mano sul portafogli, di volgari personaggi dello star-system. Tali sono sembrati i salti mortali carpiati ritornati del Sorrentino e del Servillo-pensiero e dei loro colleghi “artisti”.
Firmano, ma operano distinguo. Aderiscono, ma ritrattano. Riconoscono il genocidio, ma non si prendono la responsabilità morale ed etica che quel riconoscimento implica in termini di azioni concrete. Ovvero escludere tutto ciò e chiunque stia sostanzialmente contribuendo alla realizzazione del genocidio sulla striscia di Gaza.
Perché qui non si tratta del voltaireano e liberale principio di “lasciar esprimere a chiunque le proprie opinioni ed idee”. Che vergognosa ipocrisia!
Qui si tratta di lottare con ogni mezzo contro un nuovo Olocausto. E, di fronte ad una tragedia di tali proporzioni, si ha l’obbligo etico e umano di non essere indifferenti o di procedere per sordidi arzigogoli concettuali. Si ha l’obbligo di assumere una posizione definita, chiara, inequivocabile.
Altrimenti facciano una cortesia, questi buffoni lautamente prezzolati. Applichino la stessa libertà anche nei confronti di chi si dichiari nazista. Ed eventualmente accolgano col tappeto rosso chi presentasse un film a Venezia, portando una svastica al braccio, dichiarando per di più che mettere sei milioni di ebrei nei forni è “libertà di difesa“.
Intravedo giusto un paio di problemini in quel caso. Perché la libertà fine a sé stessa, senza regole e senza principi ontologici condivisi – come pure l’ormai inconsistente simulacro democratico – ha questo piccolo inconveniente: rischia di uniformare tutto sotto una formulazione indistinta di possibilità e potenzialità.
Insomma si trasforma immediatamente in libertinaggio, “anarchia” (nel senso deteriore del termine), caos. E infine fascismo.
Lo stesso discorso vale per l’arte e la cultura naturalmente, deterioratesi ormai a livello di puro intrattenimento, svago, manicheismo morale a stelle e strisce, individualismo eroicizzante, emotività drogata, voyeurismo malato. In due parole merce e prodotto a fine di profitto.
Viceversa, come diceva Althusser: «L’arte è un mezzo di riflessione critica sulle strutture ideologiche e sociali. Non una semplice forma di intrattenimento, ma strumento capace di rappresentare, mettere in crisi e, in alcuni casi, sovvertire le ideologie dominanti».
Per il filosofo marxista francese «Il cinema, il teatro, la letteratura rappresentano uno spazio critico e potenzialmente sovversivo. Spazi di riflessione più ampia e di contestazione della società capitalista e della sua ideologia di dominio. Dispositivi di controegemonia attraverso linguaggi nuovi e sperimentali, con cui costituire un terreno fertile per il cambiamento sociale e la presa di coscienza politica del pubblico».
Ciò premesso, mi vedo costretto qui a svolgere un paio di considerazioni personali esitanti, purtroppo, nella più fastidiosa e presuntuosa locuzione: quel “ve lo avevo detto” che fa tanto cattedratico sussiegoso. Ma tant’è…
E sì, perché sui social amici virtuali, reali e compagni stanno da giorni occupando pagine e bacheche per lanciare strali e scomuniche in direzione di Sorrentino e Servillo, prima. Poi di Ozpetek, Virzì, Verdone, Andò. E da giorni mi chiedo quindi se non dovrei mandarli tutti a quel paese a passo di carica.
Possibile infatti che solo oggi si accorgano, queste anime candide, che il Premio Oscar è un cameriere del sistema, un uomo di corte?
Solo ora si rendono conto che “mastro” Servillo contiene nella radice del suo cognome il semantema esplicativo della sua genuflessa personalità?
Eppure basta guardare i film di Sorrentino – escludendo quel piccolo capolavoro pur pieno di imperfezioni che è L’Uomo in più – per coglierne l’essenza paracula.
Diciamolo meglio: l’essenza intimamente compromissoria e consociativista, un po’ liberal un po’ democristiana, come confermerebbe questo nuovo La Grazia.
Ultimo lungometraggio in cui il “partenopeo” – in termini apolgetici, ça va sans dire – sembrerebbe riassumere, da quanto abbiamo potuto leggere finora, nella figura del presidenziale protagonista De Santis, i tre capi di stato democristi che hanno traghettato l’Italia verso questo cesso politico-culturale, a trazione neoliberista e reazionaria, in cui ci troviamo a galleggiare: Kossiga, Scalfaro e Mattarella.
Apologia cui vanno sommate le laudi che l’autore ha innalzato anche a Ciampi e Napolitano in conferenza stampa. E ci mancherebbe altro…
Sornione, cerchiobottista, sofistico. Manipolatorio e adulatorio ad un tempo nei confronti di un pubblico elitario e di “sinistra”, che sa volersi sentire intelligente e raffinato, Sorrentino somministra da anni, ai suoi fedelissimi, cervellotici minestroni surgelati da discount “di classe”.
Surgelati trasformati poi in “capolavori” da una critica ormai in completo disarmo intellettuale e declassata alla stregua di spot pubblicitario per prodotti alimentari. Arte gastronomica, per parafrasare Brecht.
Insomma, le caratteristiche genetiche e a-morali dei vecchi marpioni dorotei, sempre in bilico tra sinistra riformista e centrismo radicale, il Premio Oscar le possiede tutte.
D’altronde, il nostro pretenderebbe di accreditarsi quale reincarnazione di colui che fu culturalmente il più democristiano – anche se politicamente si definiva un riformista repubblicano – tra i protagonisti assoluti del mondo della celluloide italiana. Quel Federico Fellini che fu senz’altro regista borghese, cattolico e persino a tratti reazionario. Ma, cazzo, era pur sempre Fellini.
Ovvero l’autore geniale di La Strada, Il Bidone, La dolce vita, Otto e mezzo, Roma, Casanova, Amarcord. Dove tra l’altro non risparmiava critiche al vetriolo alla sua classe di riferimento
Lui, il Sorrentino, rimastica in modo manieristico il cinema dell’autore riminese, depotenziato della caustica e aggressiva incisività polemica e tragicamente grottesca; oppure stilemi – specialmente nei primi due lungometraggi – di autori come Bergman, Greenway o della Nouvelle Vague.
Sorrentino è diventato col tempo, sul piano filmico, sempre più compulsivo nel suo citazionismo immaginifico, con scarsa attitudine all’autenticità creativa. Un Sannazzaro dei tempi moderni, per fare un paragone più colto.
Ideologicamente sì è via via trasformato invece in un velleitario intellettuale da “campo largo”, per giunta senza grande autonomia di manovra e con un limitato background politico.
Che, tradotto, significa semplicemente un cortigiano, un maggiordomo del potere. Venezia ne è stata la raffigurazione più evidente.
Ma soprattutto, Sorrentino è il rappresentante di quella buona borghesia salottiera cui sente di appartenere di diritto e alla quale liscia di conseguenza il pelo, con bonaria ironia e leccandole superbamente il culo. Dopo i primi accenni di una critica timida e mai affondata, strangolata e morta in culla.
Un esempio cinematografico di quanto detto finora si può facilmente riscontrare in due film.
La scena della festa di carnevale in L’uomo in più: sua prima pellicola, in cui il nostro nutriva forse ancora qualche briciolo di utopia e pensava di proporsi seriamente come autore capace di scavare nelle deformità del nostro presente e nelle pieghe malsane della borghesia nazionale e del suo modello produttivo abbagliato dal mito del successo.
Anni ottanta. Un ingenuo calciatore fallito entra in una ricca casa dei quartieri “bene” (di Napoli) travestito da Platini, ma si trova in una festa tra la crema della società, sommerso dall’imbarazzo e dal ridicolo .
Ecco, qui il grottesco promana dalla situazione stessa. Non c’è bisogno di caricare la scena di sosfisticate trovate registiche, di stravaganti invenzioni drammaturgiche o con retoriche inquadrature patinate. Esiste.
Ed è qui, nell’imbarazzo dell’ingenuo Antonio Pisapia, che emerge la critica alla buona borghesia parassitaria di questo paese. Evidenziata ancor di più dall’irrompere, nell’elegante salone di casa, del ballo di una giovane ragazza, osservata con attenta e bavosa concupiscenza dai maschi presenti.
Ora paragonate questa sequenza a quella sulla terrazza della Grande Bellezza. La cifra stilistica, la dimensione linguistica, la macchina da presa, l’estetica, il senso sono profondamente mutati.
Qui Sorrentino non graffia, accarezza. Non critica, adula. Il grottesco è esasperato da tautologiche maschere umane che ripiegano nella dimensione privata, senza mai lambire il sociale o il politico. Benché di politica si parli.
L’effetto umoristico si trasforma quindi in blanda commedia. Il dramma diventa farsa. La dimensione ideologica si fa estetica. In una parola, l‘intellighenzia illuminata di sinistra guarda, sorride e si compiace di sé stessa.
Potrei andare avanti smontando pezzo per pezzo tutti i film e tutte le strutture estetico-concettuali e filosofico-psicologiche di questo sopravvalutato fenomeno da spettacolo elitario. Ma mi fermo qui.
Sorrentino è in definitiva un astutissimo baro che ha fatto dell’arrivismo, della paraculaggine e della cazzimma (come ha dimostrato in queste ore) la sua cifra cinematografica, ma prima ancora umana.
Al servizio delle più volgari classi dominanti mai apparse in occidente. Qui e principalmente negli States. Al servizio delle Majors e del Mercato.
E nulla gli importa se quel mercato specula sulla morte di un intero popolo e sulla carne dei bambini palestinesi.
Perché ricordiamo che La Grazia – mai titolo fu più beffardo e meno appropriato al contesto attuale, considerando le polemiche che si stanno avvicendando intorno alla pellicola e al suo regista – è distribuito da Mubi, la piattaforma cinematografica d’élite, finanziata dal fondo Sequoia Capital, che appoggia startup militari israeliane.
Non proprio un bel biglietto da visita, con la macelleria sionista a pieno regime.
In definitiva il regista napoletano, pur dotato di tecnica incontestabile cui si accompagna però un tratto poetico ridondante, sovraesposto e ricercato nella sua ossessione epifanica ed estetizzante, si conferma l’emblema della vacuità fastosa e opulenta di questi tempi.
Tempi in cui a dominare sono le leggi del profitto e le regole degradanti di uno star-system sempre più disimpegnato e culturalmente inadeguato.
Mentre sul piano artistico l’espressività è saturata dalla dittatura del linguaggio e dell’interpretazione semiotica, laddove la parola ha smarrito ogni pregnante valenza semantica. Ogni sfumatura di senso. E l’immagine si è fatta iconica astrazione virtuale.
Tempi dove domina la citazione fine a sé stessa post–post modernista, che soverchia l’autenticità creativa.
Ecco, questo prestigiatore postmoderno e invischiato col potere, tanti – troppi – a sinistra hanno sempre applaudito. Che dico? Osannato.
Irrimediabilmente catturati anch’essi nella morsa del conformismo estetico e de-pensante. Persino le ultime due inguardabili pellicole sono state elette a “capolavori”.
Mi chiedo pertanto con quale lente si guardino oggi i film, il teatro, un quadro, una scultura. Con quale occhi si leggano i libri. Con quale orecchio si ascolti la musica. Con quale intelligenza critica si valuti l’arte.
La cultura e l’arte infatti, non è mai superfluo ribadirlo, non sono una forma espressiva metafisica, astorica, spirituale. Men che meno innocua e da intrattenimento salottiero.
Non rispondono al concetto kantiano di bello, universale e disinteressato. L’arte non è pura intuizione estetica, come direbbe Croce.
Questi sono semmai i presupposti dell’arte e della cultura liberale e, via degenerando, dell‘imperante cultura neoliberista dello svago industrializzato.
No, l’arte e la cultura sono campo di battaglia della lotta di classe. Anzi, come sosteneva Marx, è necessario individuare nell’estetico il campo strategico per descrivere e determinare i caratteri della stessa dimensione storica.
Per riprendere quanto scrive Rolando Vitali in una recensione a The Aesthetic Marx, curato da Samir Gandesha e Johan F. Hartle, uscita su MicroMega nel 2018: «Un’estetica emancipata implica contemporaneamente un’umanità liberata e viceversa».
Nel tempo dell’ipertrofia comunicativa, pertanto, l’arte e la cultura in genere rappresentano – potremmo dire – addirittura un campo di scontro privilegiato tra le classi.
Vanno quindi comprese e studiate quasi come un oggetto di analisi scentifica. Bisogna decodificarne attentamente i segni, coglierne i contenuti simbolici, leggerne i sottotesti, decifrarne la valenza semantica delle immagini, inquadrarle nel contesto storico, politico, sociale, economico e produttivo.
Indagarne logiche produttive e distributive. Svelarne l’inganno estetico e formale laddove pretende di celarsi. Aggirarne le insidie e le trappole concettuali, illusoriamente critiche o peggio fittiziamente anticonformiste, nascoste sotto una coltre di sostanziale convenzionalità.
Comprendere a fondo il loro linguaggio. Nel caso del cinema, per esempio, il perché venga posizionata in un certo modo la MdP. In teatro, il motivo di una certa impostazione registica e attoriale. In letteratura, smontare il cotesto e capire a fondo le relazioni significanti interne alla frase, le allusioni polisemiche. Denotazioni e connotazioni.
Insomma, nell’epoca della comunicazione e del linguaggio totalizzanti, la cultura e l’arte sono diventate vettore principale del pensiero dominante. Cui bisogna necessariamente contrapporre una cultura ed un’arte controegemonica, capace di smontare la narrativa del potere.
Quella narrativa cui vanno inscritti di diritto i Sorrentino, i Servillo, i Verdone, i Virzì, gli Ozpetek, i Giannini, gli Andò. Ma non solo, attenzione. Purtroppo anche tanti di coloro che pure hanno firmato l’appello per la cessazione del genocidio in Palestina.
Una buona e gratuita azione non conferisce infatti necessariamente un attestato di brillantezza artistica o di intellettuale critico delle strutture egemoniche del pensiero.
Tra l’altro, quello firmato dagli oltre duemila esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo è un appello che giunge tardivo, a ben due anni di distanza dall’inizio del genocidio.
A dimostrazione che quel mondo ha atteso solo il momento giusto per pronunciarsi. Quando ormai la situazione si è fatta insostenibile. E suscitando così qualche legittimo dubbio sull’autenticità del moto di sdegno per il massacro.
Ciò detto, ben venga qualunque iniziativa volta ad opporsi e a denunciare lo stato terrorista israeliano.
Per questo risultano ancor più deplorevoli e inaccettabili i distinguo, gli equilibrismi, le prese di distanza vili e strumentali da parte di personalità di livello internazionale come Sorrentino e Servillo. Nonché di registi e attori come quelli precedentemente citati. Queste tristi figure hanno gettato un’onta indelebile sul cinema e la cultura italiani.
Ci fu un tempo in cui a Cannes Jean-Luc Godard e Francois Truffaut, insieme a studenti ed operai bloccarono il Festival di Cannes.
Ci fu un tempo in cui Pier Paolo Pasolini, Marco Ferreri, Citto Maselli e Ugo Pirro provarono a bloccare anche la Mostra del Cinema e la Biennale di Venezia, prendendosi le manganellate della Polizia.
Era il ’68 del secolo scorso. Carmelo Bene, sempre a caccia di soldi, presentò Nostra Signora dei Turchi sconvolgendo il Festival e presentandosi ubriaco alla premiazione. Fuggendo poi dall’Excelsior senza pagare il conto.
Tempi mitici e di lotta, in cui Gian Maria Volonté dichiarava, rifiutando la parte di Don Vito Corleone per “Il Padrino”:
«Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita».
A confronto di tali altezze Sorrentino e Servillo appaiono come dei Maître d’hotel strapagati, chiamati a dirigere lo spettacolo nel grande albergo a cinque stelle del Capitale. Circondati da modesti camerieri kafkiani con livrea stazzonata, in attesa delle mance padronali.
Uno spettacolo deprimente. Dal quale intellettuali, artisti, uomini come Volonté, Bene, Godard si sarebbero certamente sentiti indignati. E noi con loro.
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Leonardo Bargigli
La questione dei distinguo e delle ritrattazioni comporta diverse sfumature e contraddizioni, che richiedono di essere sezionate in maniera più oggettiva possibile. Da una parte, la realtà del genocidio ha fatto irruzione nel salotto buono del cinema italiano e questo è ovviamente positivo. Distinguo e ritrattazioni ne sono una conseguenza fisiologica. In questo senso, gli anatemi sono a mio avviso poco produttivi. Non tutti gli artisti hanno la stessa visione, la stessa sensibilità, la stessa estrazione. Così è sempre stato e così sempre sarà. Per questo i tentativi di policitizzare l’arte hanno sempre prodotto più danni che benefici. Sta ad una diversa sensibilità artistica il compito di farsi “senso comune” con la qualità del proprio lavoro, così come può essere oggi “senso comune” una malriposta difesa della libertà di esprimere il proprio sostegno …a un genocidio. Ho sentito Verdone dire che “tutti fanno il militare in Israele”. Ignora quindi l’esistenza delle centinaia di giovani refusnik che si fanno la galera per non essere complici di genocidio. Ecco, conoscenza e sensibilità non si improvvisano, si coltivano nel tempo. Viceversa, tanta ignoranza e insensibilità fanno giustamente sorgere dubbi sulla qualità artistica e umana di certi personaggi. Questo dovrebbe essere di stimolo a una nuova generazione di artisti e esseri umani che speriamo siano migliori di così.
Angelo Di Rosa
Ma dove covava tutto questo astio? Forse è stato punto dalla terribile sanzara contraria agli artisti, che inocula rabbia a chi “artefice” non è…….
Angelo Di Rosa, San Felice a Cancello (Caserta)
Redazione Contropiano
cos’è, una teorizzazione del divieto di critica?
Vincenzo Morvillo
Ahi ahi Di Rosa. Da dove le viene quest’improvviso estro retorico? Forse che lei sia stato morso dalla piattola pubica che inocula frustrate velleità intellettuali a chi colto non è, per sostenere tale inutile ed arzigogolato pensiero? Il quale pensiero immagino le sarà costato una fatica partorire. Lasci stare la critica della critica critica. Sono studi troppo seri. E si dedichi ad altro. Vincenzo Morvillo. Rione Sanità (Napoli)