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“Una puttana picchiata da un bruto”: Napoli tra liberazione e occupazione dal 1943 al 1945. Una lettura controcorrente

All’indomani delle Quattro Giornate le truppe alleate (inglesi, americane e francesi) trovano una Napoli completamente devastata. Napoli era stata la città più bombardata d’Italia e la distruzione bellica cui andò incontro a partire dal 1940 ebbe degli effetti, materiali e sociali, che si trascinarono per lunghissimo tempo ridisegnando le coordinate economiche e il futuro prossimo della città e della regione circostante.

Questo è quanto racconta Keith Lowe in un saggio recentemente pubblicato in Italia da UTET dal titolo “Napoli Liberata. Caos, eroismo e barbarie dal 1943 al 1945”.

Keith Lowe è uno storico inglese che si è specializzato nello studio della Seconda Guerra Mondiale. Guardando il suo sito e scorrendo le sue pubblicazioni si evince un approccio decisamente diverso da quello che ci si aspetterebbe da una voce d’”oltremanica”.

In questo testo, come in tanti altri suoi lavori (ad esempio Continente selvaggio, Inferno) Lowe cerca di smontare (in maniera rigorosamente scientifica, con abbondante utilizzo di fonti e testimonianze di quel periodo) le mistificazioni e semplificazioni che l’impalcatura propagandistica occidentale ha costruito attorno agli avvenimenti della seconda guerra mondiale durante e dopo vicende topiche e significative come quella dell’occupazione della città di Napoli.

Il saggio di Lowe si presenta come un racconto ricco e appassionato, che comincia narrando gli antefatti all’arrivo degli alleati a Napoli il 1 Ottobre del 1943, quando nella notte dell’8 settembre 1943 sbarcarono sulle coste del Salernitano ed ebbero inizio quelle che furono delle sanguinose battaglie contro i tedeschi, sebbene questi fossero in progressiva ritirata verso Nord.

Ciò che gli alleati trovarono a Napoli però fu ben diverso da quello che si aspettavano. I giornali di propaganda statunitense, per preparare anche psicologicamente le truppe dipingevano Napoli con i colori degli stereotipi del Grand Tour e della narrativa paesaggistica d’evasione culturale. Napoli – invece – era diventata la meta del “piacere”, quasi a riprendere la denominazione di “regina del Mediterraneo” che lo stesso Benito Mussolini usò per definire Napoli il 24 ottobre 1922 davanti al pubblico del Teatro San Carlo per accattivarsi il consenso del popolo napoletano.

L’idea di un paradiso pieno di sole, canti e piaceri spensierati deve essere una stata una gradita distrazione per i giovani soldati terrorizzati e pieni di nostalgia che stavano sbarcando nel Mediterraneo per la prima volta.

Le truppe alleate non aspettavano altro che un’oasi felice dove poter soddisfare i bisogni più elementari: “A Napoli potevi comprare cose nei negozi, potevi ubriacarti, potevi avere una donna, potevi ascoltare musica”. Ma quello che trovarono fu cosa ben diversa.

I tedeschi avevano fatto terra bruciata attorno a loro nella brusca ritirata verso Nord: distrutto tutto quanto potesse avere un minimo di valore non solo per le truppe alleate in arrivo ma anche per il popolo napoletano stesso: distrutte le fabbriche, saccheggiati tutti i beni di prima necessità e addirittura l’università, pesantemente umiliata la popolazione con i rastrellamenti, le esecuzioni di massa e i massacri di civili (si ricordano il massacro di Ponticelli e quello di Acerra tra gli ultimi giorni di settembre e iprimi di ottobre).

Mentre si ritiravano, Kesselring emanava ordini intimando ai suoi uomini di sottrarre al paese qualsiasi cosa avesse valore economico o militare. Tutto quello che non poteva essere trasportato doveva «essere distrutto insieme con il territorio da abbandonare».

In quei giorni i tedeschi dimostrarono non soltanto con chiarezza di intenti palesemente mancante alla loro controparte italiana, ma anche uno spietato disprezzo per le leggi di guerra. I prigionieri venivano regolarmente facilitati per il reato di aver “difeso se stessi e i loro beni” o per rappresaglia per i tedeschi caduti combattendo.

Il libro di Lowe va molto oltre il racconto di queste vicende perché cerca di delineare nel dettaglio non soltanto quello che gli alleati trovarono al loro arrivo ma anche e soprattutto quale fu l’effetto della loro permanenza nella città rinvenuta in queste condizioni. È vero che l’accoglienza che trovarono gli alleati fu di gioia ed euforia generale ma è riduttivo pensare che i napoletani avessero visto all’unanimità con questo arrivo l’avvento di una vera e propria liberazione.

[…] non tutti erano contenti di vedere i britannici e gli americani. E la gente di Napoli non era necessariamente quella folla di persone che cantavano e facevano baldoria immaginata dagli alleati: molti erano in lutto per amici e familiari rimasti uccisi di recente sotto le bombe, e ampi settori della città erano stati completamente distrutti prima dai liberatori e poi dai tedeschi in procinto di andarsene. Che motivi avevano queste persone per rallegrarsi? 

Il 1 ottobre del 1943 il popolo napoletano si ritrovava stremato, dopo oltre tre anni di guerra e dopo quella che fu una delle imprese di guerra più strenuamente combattute fino a quel momento. Le Quattro Giornate di Napoli hanno segnato non soltanto la storia della città ma anche il corso della guerra da quel momento in poi.

Sulle Quattro Giornate tanto è stato detto e scritto tanto e si può anche dire che tanto è stato travisato. Il clima all’alba del 27 settembre era esplosivo. I tedeschi avevano cominciato a perlustrare casa per casa i quartieri storici della città per catturare i maschi adulti da internare in campi di lavoro e di concentramento più a nord.

Nei giorni turbolenti che portarono al 27 settembre i napoletani erano già spinti al limite. Erano stati sconfitti e umiliati, privati del cibo e cacciati di casa. Avevano guardato i loro posti di lavoro e le loro istituzioni culturali finiti in cenere. Ma l’asservimento forzato dei giovani fu l’ultima goccia.

In quattro giorni (dal 27 al 30 settembre) si sarebbe consumata una lotta che avrebbe mostrato “tutte le caratteristiche diventate poi familiari ad altri italiani nei mesi successivi. Attacchi segreti, battaglie accanite, tradimenti, lotte intestine, guerra civile, atrocità e trionfo finale, cioè tutte le forze di lotta comune messe in campo nel nord del paese per buona parte dei due anni successivi si videro prima qui, concentrati in pochissimi, intensi giorni.”

Parlare di insurrezione spontanea non rende giustizia agli eventi di quei giorni. Davvero ci fu una grande partecipazione di popolo e che le battaglie che si consumarono nei vari quartieri della città hanno avuto i caratteri della guerriglia – ma sicuramente le azioni non erano né improvvisate né avevano i caratteri di una jacquerie, per cui una folla agguerrita si scagliava senza mezzi contro i carrarmati tedeschi.

Determinante fu l’organizzazione di mesi antecedenti da parte delle forze politiche antifasciste, i comunisti, i socialisti e il partito d’azione in primis. Tra le tante “operazioni sulla memoria” parlare di scugnizzi che avrebbero diretto e determinato le sorti di quei giorni è diventato un tentativo di mitizzare quegli eventi ma anche di infantilizzare il popolo napoletano e il lungo lavoro di accumulo di forze e di costruzione di organizzazioni coscienti e combattive compiuto durante gli anni della dittatura fascista.

Il mito degli scugnizzi conveniva molto agli alleati. Svolgeva la stessa funzione del mito dei “lazzaroni contenti” di epoca borbonica e di quello degli “africani d’Italia” dopo il Risorgimento: faceva apparire inferiore la gente di Napoli. Secondo questo mito, tale gente doveva essere governata da persone più consapevoli: i bambini magari si erano liberati da soli, ma quello di cui avevano bisogno era che arrivassero gli adulti a occuparsi di loro”.

Ma quanto fu vera questa cosa? Quanto – e come – si occuparono gli alleati del popolo napoletano?

Subito dopo il loro arrivo in città i comandi alleati, politici e militari, si insediano e cominciano a prendere possesso della città: gli effetti di quella che fu una vera e propria occupazione militare non solo furono veloci a manifestarsi ma ebbero delle conseguenze di lungo periodo.

Il primo governatore militare, il colonnello Edgar Erskine Hume così descrisse la situazione all’arrivo degli alleati:

All’epoca del nostro arrivo la città era immersa nel buio. Mancavano energia elettrica, gas, smaltimento di liquami, servizi per la raccolta dei rifiuti e per l’inumazione dei cadaveri, gli allarmi antiaerei, telefoni, ambulanze, protezione antincendio, telegrafi, posta, automobili, autobus, taxi, funicolari, ferrovie e una fornitura d’acqua regolare. L’organizzazione della polizia si era disgregata, e dopo giorni di terrore si era imposto quasi uno stato di anarchia […]. Nessuna scuola era aperta. I tribunali non operavano. Il grande porto, il secondo in Italia per grandezza, era distrutto quasi completamente. Tutte le banche erano chiuse e  il sistema finanziario della città era in stallo. La sporcizia invadeva le strade e tutti i negozi erano chiusi. Era impossibile procurarsi da mangiare, e la gente faceva la fame […]. Il tutto nella devastazione degli uffici distrutti. La disperazione era ovunque.

Gli alleati si misero immediatamente a lavoro per ripristinare condizioni minime di funzionamento dei servizi – la rete idrica, la rete elettrica, la riapertura del porto, la rete fognaria, l’individuazione delle mine lasciate nascoste dai tedeschi – i pochi mezzi a disposizione in loco e a portata degli alleati furono celermente adoperati per risolvere i disagi portati dalla distruzione che i tedeschi e 3 anni di pesanti bombardamenti anglo-americani avevano lasciato dietro di sé.

Tuttavia, come ricorda anche l’autore, questi grandi sforzi furono motivati per gran parte da scopi militari e per facilitare il proseguimento della guerra contro i Tedeschi. Per esempio, strade e ponti ricostruiti erano a uso esclusivo dei militari e per evitare che i civili li intasassero se un italiano voleva allontanarsi di più di 10 chilometri necessitava di un permesso speciale rilasciato dalla nuova attività occupante.

Insomma all’illusione che lo stato materiale delle cose potessero migliorare si affermò una condizione strutturale per certi aspetti peggiore.

La distruzione di tantissimi edifici aveva lasciato migliaia di persone sfollate, costrette ad abitare in rifugi quali le cisterne e le grotte della “Napoli Sotterranea” che oggi è diventata tappa del tour turistico del centro antico. La condizione di elevatissimo sovraffollamento (già caratteristica del centro di Napoli da sempre), la fame, la mancanza di acqua e la scomparsa del sapone dal mercato crearono tutte le condizioni per far esplodere una emergenza sanitaria senza precedenti. E infatti nell’autunno del 1943 il tifo cominciò a diffondersi.

Grazie all’importazione dagli USA di DDT e altri pesticidi (che servivano a eliminare i pidocchi portatori del virus mortale) seppur con grandi difficoltà la malattia fu debellata. Ma il tifo fu solo una delle tante crisi che scoppiarono all’arrivo degli Alleati.

In generale qualsiasi provvedimento preso dall’AMG in quei mesi fu fatto solo ed esclusivamente per garantire ordine pubblico ed efficienza nelle operazioni militari in cui gli alleati erano ancora pesantemente coinvolti: di qui poi un governo dalla “mano leggera”, che non riusciva a nascondere la impreparazione ad affrontare i problemi e i caratteri della regione, un certo grado di incompetenza e indecisione, nonché, talvolta, un atteggiamento di superiorità nei confronti delle istituzioni e forze politiche che in quei mesi stavano riorganizzandosi per ricostruire il paese.

La mancanza di derrate alimentari fu una strage silenziosa che tradusse i suoi effetti non soltanto sullo stato di salute fisico della popolazione ma soprattutto incidendo su un disagio psicologico collettivo. La presenza degli alleati che potevano spendere largamente in città aveva messo ulteriormente in ginocchio l’economia cittadina.

L’inflazione toccò le stelle e molti beni di prima necessità già poco reperibili divennero merce rara. Il mercato nero non fu soltanto un meccanismo di sopravvivenza per la popolazione ma diventò un vero e proprio “sistema”, volendo usare un termine derivante dal lessico camorristico il quale però ben descrive le regole e i dispositivi gerarchizzanti che tale dinamica meta-economica determinava.

Una catena di distribuzione vera e propria al cui vertice non potevano che esserci mezzi potenti diretti dall’intreccio e dalla evidente complicità della criminalità organizzata locale e del governo alleato. La merce in circolazione non poteva che essere trafugata dal porto e questa grande mole di spostamenti non poteva non accadere senza l’assenso compiacente anche dell’AMG.

Malgrado quelle che potevano sembrare le migliori intenzioni da parte dell’AMG e di tutti gli apparati governativi delle forze militari alleate, tanti furono gli errori. Nessun controllo vero e proprio fu fatto ad esempio sui militari stessi e il comportamento che ebbero nei confronti della popolazione locale. L’arrivo improvviso di così tanti soldati in pochissimo tempo in una città non soltanto sovraffollata di suo ma nelle condizioni peggiori che sono state anche solo brevemente descritte non poteva non avere effetti, anche disastrosi sul versante delle relazioni individuali, materiali e di “comunità”.

Le parole del regista americano John Huston, in città per girare film di propaganda sono sintetiche e rappresentative dello stato fisico e morale della città in quelle settimane: «Napoli era come una puttana picchiata da un bruto: occhi neri, denti spezzati, naso rotto, puzza di sporcizia e vomito. L’anima della gente era stata stuprata, una città senza Dio».

Lo stupro non è solo una metafora in questo caso – la violenza e lo sfruttamento sessuale che si consumò in maniera capillare negli strati popolari della città sono un dato che per anni è stato trascurato volutamente nel bilancio dell’esperienza dell’occupazione americana.

Le condizioni economiche erano talmente infime che il corpo delle donne divenne la merce di scambio più comune per accedere a un po’ di cibo extra e qualsiasi tipo di servizio. Si è registrato che nell’autunno del 1943 circa il 10% delle donne napoletane si prostituisse (cioè 40mila donne in età compresa tra 15 e 50 anni).

Napoli sembrava trasformarsi in un parco divertimenti per le truppe alleate.

Furono coinvolte donne di tutte le età e persino bambine – ma anche uomini e bambini che “battevano” le strade per vendere ai soldati inglesi e americani le loro madri, mogli, sorelle e figlie. Il dilagare di malattie veneree fu l’unico sintomo che mise in allarme le autorità alleate, perché rischiava di compromettere la salute dei soldati e la loro eleggibilità sul campo.

Furono effettuati veri e propri rastrellamenti di donne condotte a forza in ospedali per controllare il loro “stato infetto”: passò praticamente il messaggio per cui tutte le napoletane fossero prostitute, mentre carovanate di soldati potevano aggirarsi ubriachi e con fare molesto ed apertamente violento per la città senza conseguenze.

Queste vicende, per non dimenticare gli episodi di violenza sessuale di massa perpetrate dalle truppe nordafricane nell’entroterra campano e nel basso Lazio (si ricordi il riferimento de La Ciociara), hanno rappresentato un trauma collettivo che ha stravolto gli equilibri di intere comunità. La mancata elaborazione di questi eventi – volutamente nascosti o sminuiti anche da una certa storiografia antifascista ha rappresentato un’ulteriore violenza che si è sommata a quella di quel drammatico periodo.

La prostituzione e lo sfruttamento sistematico delle donne seguirono gli alleati in tutto il loro “percorso di liberazione” in Europa come un’ombra oscura. Lo stesso vale per saccheggi, furti, ubriachezza molesta, mercato nero e livelli rovinosi di inflazione che frequentemente hanno caratterizzato l’azione anglo-americana.

La tesi del libro di Lowe, che quella degli alleati sia stata una vera e propria occupazione sottende anche un’altra verità: la finestra storica di Napoli in quel periodo e molti degli eventi che ne seguirono hanno subito nel tempo una manipolazione. Semplificazioni, mistificazioni, amnesie selettive hanno procurato un rimosso nella memoria collettiva che ha voluto sminuire il processo storico di quel frangente in tutta la sua complessità.

Una dinamica non meramente storiografica o di precisione filologica e/o accademica ma una colpevole operazione di rimozione della memoria collettiva – operata dai nuovi gruppi dirigenti repubblicani del nostro paese – la quale ha prodotto lacerazioni sociali, culturali ed antropologiche che, a distanza di molti decenni, ancora sono rintracciabili nelle pieghe di una composizione di classe e nei fattori di “storia orale” che costituiscono un importante fattore di identificabilità del “popolo napoletano”.

Siamo oramai dentro un tempo storico in cui – quanti aspirano ancora a processi di trasformazione e di emancipazione popolare – devono assumere un compito necessario, probabilmente anche poco “politicamente corretto”, che è quello di riappropriarsi di quella storia e restituire la giusta dignità al popolo napoletano.

In quei tornanti di metà Novecento, in quei mesi serrati ma ricchi di avvenimenti, Napoli ha subito innumerevoli crimini, dalle truppe naziste ma anche dai liberatori di oltreoceano, ma ha saputo anche alzare la testa lottando con dignità per la libertà e per una sua possibile autodeterminazione.

Come afferma Lowe “La storia di Napoli è la storia d’Italia”. Tale asserzione va ribadita e riqualificata ulteriormente, con buona pace di una storiografia incartapecorita ed ingessata al bon ton del neocapitalismo post Seconda guerra mondiale e, soprattutto, contro tutti i tentativi di declassare e infantilizzare il processo di trasformazione a Napoli e al Sud.

Un esercizio di verità, di giustizia sociale, di risarcimento, anche postumo, a quanti soffrirono oltremisura da ricordare senza nessun retropensiero – consapevole o meno – di subalternità.

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