Sulle pagine de Il Manifesto è comparso un dialogo di alto livello, se si parla della sfera culturale italiana. Il 23 ottobre Carlo Ginzburg, a Milano, ha letto un discorso per il centesimo anniversario della Hebrew University di Gerusalemme. Il testo lo ha poi proposto al giornale che lo ha dunque pubblicato tre giorni dopo.
Un altro nome di altissimo livello dell’accademia italiana, Giorgio Mariani, ha deciso di rispondere sulle colonne de Il Manifesto il 29 ottobre. Lasciamo al lettore qui sotto i due articoli, per analizzarne in proprio il contenuto e fare le proprie valutazioni. Come Redazione, sentiamo di sottolineare un paio di aspetti.
Non vogliamo certo dare giudizi sull’emozione dello storico Ginzburg nel ricevere la laurea honoris causa della Hebrew: ognuno è libero di provare le sensazioni che vuole, e anche provarne vergogna, se lo ritiene opportuno. Ma è Ginzburg a scrivere che “per comprendere le azioni e i pensieri di un individuo, presente o passato, è necessario esplorare l’interazione tra gli insiemi, specifici e via via più generici, ai quali quell’individuo appartiene“.
E allora non possiamo non sottolineare delle incongruenze, o almeno delle dimenticanze, quando parla di quella “interazione tra gli insieme” che è il sistema universitario sionista in Palestina, affermando invece che, oggi più che mai, gli appelli al boicottaggio delle università israeliane vanno respinti.
Il ruolo che quegli atenei hanno nella pulizia etnica di cui lui stesso dice di provare vergogna glielo ricorda Mariani, appunto, citando uno straordinario studio di Maya Wind, ebrea israeliana. Ma Mariani fa di più: ricorda a Ginzburg che il boicottaggio non è nemmeno rivolto verso gli accademici tutti, con cui in coscienza ognuno può continuare a parlare e collaborare, ma verso gli accordi con delle istituzioni.
Ginzburg è storico, ha studiato la relazione tra istituzioni e figure marginali, insignificanti delle società del passato per comprende proprio quelle interazioni tra insiemi che spesso si nascondevano nelle fonti. Non può fare finta di non sapere che quelle istituzioni che anche lui ha studiato non fossero modellate da determinati processi storici, secondo le forme e gli indirizzi del potere.
Ginzburg è storico, e dovrebbe saperlo. E qui c’è il secondo nodo da evidenziare. Perché lo stesso Ginzburg sottolinea il suo mestiere, per parlare del 7 ottobre e della necessità di non oscurare il passato. Però poi parla di una reazione israeliana all’attacco di Hamas, e dunque cancella non solo i crimini continuamente commessi da Tel Aviv, l’occupazione e l’apartheid, ma con un colpo di spugna fa sparire anche oltre 75 anni di pulizia etnica.
Lo dicono le fonti, nonostante il Malmab, un’unità del ministero della Difesa israeliano, tra gli altri compiti, si occupi anche di far sparire i documenti d’archivio ritenuti scomodi. È stato lo stesso Manifesto, qualche anno fa, a scriverne: Ginzburg dovrebbe andare a rileggere i pezzi usciti sul giornale a cui ha affidato la sua riflessione.
E allora qui, a cascata, emergono molti altri interrogativi: perché citare il “ritorno in patria degli ostaggi israeliani sopravvissuti” e non di quelli palestinesi, che sono a migliaia e che ancora sono sottoposti alle più indicibili torture nelle carceri sioniste, come anche recenti fatti di cronaca hanno mostrato?
Perché parlare delle università genericamente come di un “luogo di riflessione, di discussione, di insegnamento rivolto a studentesse e studenti di etnie diverse“, dimenticando di accennare a come, già ben prima del 7 ottobre, questi istituti non rappresentavano nulla di tutto ciò per gli studenti palestinesi, come documentano varie inchieste (qui ne trovate una di +972 Magazine, la famosa rivista a cui lavorano giornalisti sia palestinesi sia israeliani)?
Tutto ciò dimostra come, semmai, le università israeliane siano state l’esempio che ha seguito poi Trump nel suo attacco alla libertà di ricerca e di insegnamento negli Stati Uniti. Ed è possibile che, nonostante lo stesso Ginzburg dica che “definire antisemitismo le critiche radicali nei confronti della politica israeliana è assolutamente inaccettabile“, non abbia trovato il modo di affermare esplicitamente la sua contrarietà al ddl 1627, che ha proprio questo obiettivo? Vogliamo credere che rimedierà presto.
Concludiamo dicendo che, con dispiacere, intravediamo sintomi di qualunquismo nelle parole di Carlo Ginzburg, inteso secondo una delle definizioni dell’Enciclopedia Treccani: “atteggiamento di generica svalutazione di qualsiasi impegno ideologico e politico“. Tutto finisce con una sensazione personale, per Ginzburg, la vergogna, e le università sono tratteggiate come esistessero solo nelle aspirazioni che ne ha lo storico. Nella realtà, nella Storia, sono un’altra cosa.
Non possiamo che accodarci alle parole finali di Mariani, dunque, quando chiede al collega: “qual è il significato politico della vergogna per i crimini commessi da Israele?“. Se la politica è ciò che la Storia la cambia, perché in essa e su di essa agisce, allora il significato di tale vergogna dovrebbe essere una battaglia senza tregua per la fine del genocidio, l’abbattimento dell’apartheid e il boicottaggio di tutte le istituzioni che partecipano a questi crimini.
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Ricordo l’emozione che provai quando, nel 2006, mi venne conferita la laurea honoris causa da parte della Hebrew University di Gerusalemme. Per un ebreo diasporico come me, ricevere quel riconoscimento da un’istituzione così prestigiosa, insieme a figure che ammiravo, e ammiro, profondamente come Amos Oz e il cardinale Carlo Maria Martini, aveva un significato speciale.
Oltre al ricordo di quel giorno indimenticabile ho ben poco da aggiungere. Mi preme però sottolineare che nel corso degli anni ho sempre rifiutato di condividere gli appelli al boicottaggio delle università di Israele da parte di università italiane.
Questi appelli dovevano, e devono, essere respinti: oggi più che mai. Perché «oggi più che mai»?
La notizia che recentemente ha occupato la rete, i giornali, le televisioni è quella del ritorno in patria degli ostaggi israeliani sopravvissuti. Bellissima notizia. Ma chi, come me, fa di mestiere lo storico, deve sottolineare che il presente non può oscurare il passato: un passato rappresentato, in questo caso, dall’orrendo pogrom del 7 ottobre organizzato da Hamas, e dalla risposta criminale, accompagnata da stragi di civili, adulti e bambini, costretti alla fame, decisa da Netanyahu.
È lecito parlare, a questo proposito, di genocidio? Mi limiterò a citare la risposta data qualche giorni fa, a questa domanda, da Tatiana Bucci, 88 anni, sopravvissuta ad Auschwitz: «È un massacro. Lo vuole chiamare genocidio? Cosa cambia? Non vi colgo alcuna differenza».
Perché evocare in questa sede gli orrori che hanno segnato e continuano a segnare da due anni la striscia di Gaza? Per un motivo molto semplice: perché nella fragilissima situazione che si sta delineando, le università potranno avere più che mai, in Israele come altrove, un’importanza fondamentale, in quanto luogo di riflessione, di discussione, di insegnamento rivolto a studentesse e studenti di etnie diverse.
L’attacco di Donald Trump alle università degli Stati Uniti è una conferma, in chiave negativa, di tutto ciò. Troncare i contatti con le università di Israele sarebbe pazzesco. Ma dobbiamo renderci conto di un fatto doloroso: questa proposta, che si ripete da anni, si inscrive oggi in un antisemitismo crescente, alimentato dagli orrori di Gaza.
L’antisemitismo è un fenomeno ripugnante, che niente può giustificare; ma definire antisemitismo le critiche radicali nei confronti della politica israeliana è assolutamente inaccettabile.
Concluderò con una nota personale. Quindici anni fa scrissi un saggio in inglese intitolato The Bond of Shame, «Il vincolo della vergogna», cercando di esplorare un’idea che mi aveva afferrato improvvisamente: e cioè che il paese al quale apparteniamo non è, come vuole la retorica, quello che si ama, ma quello di cui ci si vergogna, o di cui ci si può vergognare.
La vergogna può essere un legame più forte dell’amore. Ho verificato quest’ipotesi con amici provenienti da diversi paesi. Tutti hanno reagito allo stesso modo: con un moto di sorpresa iniziale seguito da un pieno consenso, come di chi è stato messo di fronte a una verità evidente. Certo, il peso della vergogna varia enormemente da un paese all’altro. Ma il legame della vergogna – la vergogna come vincolo – agisce, per un numero maggiore o minore di individui.
Avevo analizzato le radici di quest’idea riflettendo sulle pagine indimenticabili che Primo Levi dedicò ai temi della vergogna e della colpa. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, Levi parlò della vergogna per il male commesso da altri, come quella, nata dal senso di appartenenza al genere umano, che i soldati dell’Armata Rossa provarono di fronte ai superstiti di Auschwitz.
Partendo dalla situazione estrema descritta da Primo Levi cercai di affrontare il tema dei confini dell’io. Sottolineare che ogni essere umano ha due corpi – quello fisico e quello sociale, quello visibile e quello invisibile – non basta. È necessario considerare l’individuo come il punto di convergenza di più insiemi. Un individuo non può essere identificato con le caratteristiche che lo rendono unico.
Per comprendere le azioni e i pensieri di un individuo, presente o passato, è necessario esplorare l’interazione tra gli insiemi, specifici e via via più generici, ai quali quell’individuo appartiene. Ma quando ho tradotto in italiano il saggio che darà il titolo a un libro Il vincolo della vergogna – che verrà pubblicato da Adelphi tra qualche mese, ho ripensato alle parole di Primo Levi, che dichiarava di sentirsi, in diversa misura, «italiano ed ebreo». La vergogna che provo di fronte alle stragi di Gaza fa parte della mia duplice identità di ebreo diasporico.
Carlo Ginzburg
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Ho sempre ammirato e imparato molto dal lavoro intellettuale di Carlo Ginzburg. La lettura del suo intervento in occasione del centenario della fondazione della Hebrew University apparso sul manifesto domenica scorsa mi ha però non solo amareggiato, mi ha sinceramente addolorato.
Perché se a prima vista non si può non ammirare il coraggio con cui dichiara di provare vergogna, in quanto ebreo diasporico, per quel che è accaduto e accade a Gaza, dall’altro lato l’articolo contiene un attacco a quel movimento di studenti e docenti che, negli atenei italiani (così come in quelli di tanti altri paesi), si batte per la sospensione di ogni collaborazione istituzionale con le università israeliane (senza per questo opporsi alla collaborazione e al dialogo con singoli docenti israeliani) sino a quando il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione non sarà riconosciuto e garantito.
Perché, secondo Ginzburg, non si dovrebbe interrompere la collaborazione con gli atenei israeliani? Perché questi «potranno avere più che mai, in Israele come altrove, un’importanza fondamentale, in quanto luogo di riflessione, di discussione, di insegnamento rivolto a studentesse e studenti di etnie diverse».
Giustissimo, in linea teorica, ma come può Ginzburg mettere sullo stesso piano l’attacco portato da Trump (ma anche da altri, in altri luoghi) contro le università, a partire proprio dalla solidarietà che queste hanno manifestato alla causa palestinese, con la richiesta che viene dai movimenti d’isolare un paese (e dunque anche le sue università) che commette da decenni crimini di guerra, e che ha instaurato da oltre mezzo secolo nei territori occupati un regime di apartheid?
Né è lecito dimenticare che le università israeliane sono in larga parte ben lungi dall’aver assolto – oggi come ieri – questa ideale funzione democratica.
Ginzburg non può non sapere che proprio la Hebrew University dalla quale ha ricevuto la laurea honoris causa, al pari di altri atenei israeliani, ha avuto un ruolo cruciale nel legittimare il progetto coloniale sionista. Lo scrive l’ebrea israeliana Maya Wind in Torri d’acciaio e d’avorio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese (Edizioni Alegre, 2024). Non è certo un caso che, dal 1967, la Hebrew abbia esteso illegalmente il suo campus a Gerusalemme Est.
Mi limito a ricordare solo alcuno dei fatti che Wind documenta ampiamente. Il dipartimento di archeologia della Hebrew University è impegnato da decenni nel progetto di «giudaizzazione» della Palestina.
Questo ateneo collabora stabilmente con l’esercito israeliano e lo Shin Bet a molteplici livelli, ed è sede di un programma di intelligence militare di élite, denominato Havatzalot. L’università sottopone a sorveglianza continua gli studenti palestinesi, limitandone o impedendone qualsiasi manifestazione di dissenso, e nel corso degli ultimi due anni ha non solo cercato di licenziare ma ha fatto arrestare la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, rea di aver protestato contro il genocidio a Gaza.
Ecco, se si prova vergogna per la condotta di Israele, non sarebbe necessario interrogarsi su cosa consente sul piano prettamente socioculturale a questo stato di comportarsi in modo criminale? Come hanno ampiamente documentato, tra gli altri, Gideon Levy, Nurit Peled-Elhanan, Ilan Pappé, la disumanizzazione dei palestinesi viene da lontano ed è frutto di un’egemonia culturale con profonde radici nel sistema educativo del paese.
Se si leggesse quanto scrivono questi coraggiosi studiosi israeliani, forse sarebbe più facile comprendere le ragioni di chi – dentro e fuori Israele – si batte affinché, sino a quando permarrà questa situazione, non si collabori con le università israeliane. Perché questo vorrebbe dire legittimare la loro continua e fattiva partecipazione alla sistematica distruzione del popolo palestinese.
Concludo con un breve cenno a una questione che, per essere affrontata seriamente, richiederebbe ben altro spazio. Nel suo articolo Ginzburg riassume quanto, con la consueta erudizione e intelligenza, argomenta in un saggio sul «vincolo della vergogna» (the bond of shame) apparso sulla New Left Review nel 2019.
Per quanto trovi le questioni che Ginzburg solleva in quella sede stimolanti, la sua tesi di fondo, per cui «il paese cui si appartiene non è, come vuole un’abituale retorica, quello che si ama ma quello di cui si prova vergogna» temo possa minare la portata etica e politica della critica rivolta ad Israele.
Se provare vergogna della comunità cui si appartiene (o s’immagina di appartenere) è la regola, qual è il significato politico della vergogna per i crimini commessi da Israele?
Giorgio Mariani
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Ettore Cauli
Concordo e condivido la risposta Di Mariani a Ginzburg. Le università israeliane sapevano che l’esercito israeliano a Gaza era pronto a bombardare e radere al suolo l’Università di Gaza, eppure nessuna università israeliana è intervenuta per impedire questo crimine, questa distruzione, la detenzione e uccisione del personale universitario. Non sarà l’antisemitismo a trionfare, visto che i palestinesi e gli arabi sono semiti, ma l’antiebraismo. Saranno gli ebrei di tutto il mondo a farne le spese e la stessa religione ebraica trattata dai sionisti come fede di una razza, di una nazione, Israele, mai esistita. Si tratta non di un semplice Genocidio, ma di un “Genocidio Programmato” contro il popolo palestinese e i sionisti lo sanno. Nonostante 5 bombe atomiche gettate su Gaza, la Palestina ha resistito. Onore alla Palestina.
massimo
Grande tristezza leggere le parole di un uomo che paragona un un suo ricordo per una laurea avuta da un universita
che oltre ad aver abbracciato in pieno il piu becero sionismo lavorava all interno di un sistema educativo criminale gia nel 2006.IL Sistema educativo israeliano inizia il suo abominio gia’ dai primi anni di scuola per portare gli studenti ad accettare i tre anni di leva obbligatoria usando plagio e violenza per creare mostri. Un vincolo di crimine in cui l unica uscita è la chiara denuncia al mondo, senza dubbi.