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I tanti «ma» dei militari che impediscono la svolta

Ma vista la piega che stanno prendendo gli avvenimenti, è doverosa un’ammissione. La rivolta popolare cominciata il 25 gennaio che ha visto milioni di egiziani sfidare la polizia, chiedere e ottenere l’uscita di scena del raìs Hosni Mubarak da 30 anni al potere, è stata esaltante e coinvolgente, un esempio per arabi ed occidenta li, ma non è stata una rivoluzione.

Se per rivoluzione intendiamo il crollo di un regime e la ricostruzione su nuove fondamenta di un paese e delle sue istituzioni, allora quel la del Cairo non è stata una vera rivoluzione. Soltanto riconoscendolo è possibile immaginare il futuro politico dell’Egitto. Certo Mubarak non è più al potere, molti degli uomini che lo circondavano si sono fatti da parte e qualcuno è persino finito in carcere. Ma il regime è ancora lì, rappresentato proprio dal Consiglio supremo delle Forze Armate (Csfa) che due mesi fa si è fatto garante delle aspirazioni del «popolo di Tahrir». I generali egiziani non si oppongono (per ora) all’instaurazione di un sistema semidemocratico e al pluripartitismo, ma il loro ingresso in campo l’11 febbraio è stato imposto anche dalla necessità di evitare che l’ostinazione di Mubarak nel rimanere aggrappato alla presidenza provocasse una rivoluzione a tutti gli effetti, con lo stravolgimento completo della struttura non solo politica ma anche economica del potere, con riflessi sostanziali sul ruolo dell’Egitto in Medio oriente (questione che sta a cuore a Stati Uniti e Israele).

Delusione, disappunto e la determinazione a continuare la lotta per un nuovo Egitto, hanno portato venerdì centinaia di migliaia di persone di nuovo in piazza Tahrir e nelle strade di Alessandria. A due mesi dalla caduta di Mubarak, i manifestanti hanno chiesto che l’ex presi dente e il suo entourage vengano portati davanti i giudici. Ma sono stati scanditi slogan anche contro il generale Hussein Tantawi, il volto più noto del Csfa, accusato di non fare abbastanza per portare a giudizio Mubarak e la sua famiglia e di non spingere per l’attuazione di tutte le richieste della «rivoluzione del 25 gennaio»: la sospensione dello stato di emergenza, la restituzione degli ingenti fondi pubblici intascati dagli uomini di Mubarak, la liberazione di tutti i prigionieri politici e una nuova Costituzione.

A ciò Tantawi e gli altri componen ti del Csfa hanno risposto con mezze misure varate solo per le costanti pressioni dei giovani di piazza Tahrir, i protagonisti della rivolta. I militari vogliono la stabilità, non cambiamenti radicali. Lo si è capito già due mesi fa, quando hanno tenuto in vita l’ultimo governo nominato da Mubarak (del quale facevano parte alcuni degli uomini più odiati del regime), per poi nominarne un altro di fronte alle proteste popolari. Hanno fatto emendare la Costituzione, ma si sono rifiutati di scriverne subito una nuova di zecca e hanno lasciato intatto l’articolo 2 che indica l’islam come religione di Stato (come chiedevano i Fratelli musulmani). Hanno aperto la strada della presidenza a più candidature, ma hanno creato ostacoli che impediranno la partecipazione di personalità di prestigio, come l’ex direttore dell’Agenzia atomica internazionale, Mohammed ElBaradei, e il Premio Nobel Ahmed Zweil, «colpevoli» di avere doppia cittadinanza.

Nei giorni scorsi il Csfa ha rila sciato l’attesa «dichiarazione costi tuzionale» che regolerà i rapporti tra i poteri politici fino alle prossi me elezioni parlamentari, previste per settembre. Poi dovrebbe essere la nuova Assemblea del Popolo a scrivere la carta costituzionale tramite una commissione costituente. Se i Fratelli musulmani hanno commentato con favore sia la dichiarazione costituzionale che la nuova legge sui partiti, le forze laiche e la sinistra hanno espresso non poche perplessità. In particolare a proposito dell’articolo 56 della dichiarazione, che di fatto lascia il controllo sul quadro politico egiziano saldamente in mano ai generali. Non ci sarà infatti al cun passaggio di poteri a commissioni civili nel periodo di transizione gestito, assieme al governo, dai militari decisi a limitare al minimo il coinvolgimento della società civile. Un atteggiamento che sul piano dell’economia e del lavoro si è materializzato nel recente decreto del governo di Essam Sharaf che, se applicato, renderebbe illegale ogni forma di assembramento, inclusi gli scioperi dei lavoratori. Chi incita la protesta o interromperà un’attività lavorativa rischia fino ad un anno di detenzione e una multa salata.

Da quando è in carica il primo ministro non ha fatto altro che in vocare il «ritorno alla normalità», in giro per il Cairo dominano i manifesti con la scritta «Nabna Masr» (costruiamo l’Egitto) facendo eco al generale Tantawi, apertamente schierato contro gli scioperi in cor so nel paese da metà febbraio, una linea sostenuta anche dagli islamisti. I nuovi sindacati egiziani protestano e gli scioperi, anche se su scala più ridotta, proseguono nonostante il decreto governativo e il rischio di sanzioni. Ma l’adalaigti maiyya (Giustizia sociale) non rientra nell’idea del futuro Egitto che hanno il Csfa e Sharaf, preoccupati evidentemente di garantire il capitale finanziario e gli investitori locali e internazionali. «Non abbiamo fatto una rivoluzione per perdere il diritto alla protesta e al lo sciopero» dicono tanti attivisti di piazza Tahrir che cominciano a comprendere che il regime è rimasto al suo posto e che solo il completamento della «rivoluzione del 25 gennaio» permetterà la costruzione dell’Egitto che sognano.

da “il manifesto” del 10 aprile 2011

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