Israele sequestra i fondi dell’Anp
Dopo quattro anni nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania i dipendenti pubblici senza stipendio
GERUSALEMME
L’altro giorno al Movenpick Hotel di Ramallah il gotha della finanza palestinese si rallegrava per il «nuovo successo» conseguito dall’«economia nazionale». La Padico Holding, (che possiede mezza Palestina, dalla telefonia mobile alle costruzioni), del magnate Munib Masri, ha emesso il primo corporate bond (obbligazione di società privata) della storia palestinese. Alla celebrazione c’era anche il premier dell’Anp Salam Fayyad. Ma il primo ministro aveva altro per la testa. È passata appena una settimana dalla firma dell’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas al Cairo e dall’annuncio della prossima formazione di un governo di unità nazionale (formato da tecnocrati) e le ritorsioni di Israele già fanno sentire il loro effetto. «Il governo Netanyahu non può bloccare i fondi palestinesi, sono nostri non di Israele. Quella misura è illogica, poichè viviamo una situazione ben diversa rispetto qualche anno fa», ha detto Fayyad rivolgendosi alla sala gremita, in apparente riferimento al 2006 e 2007 quando, dopo la vittoria elettorale di Hamas, Israele bloccò per molti mesi i fondi derivanti dalla raccolta ai valichi per Gaza e Cisgiordania dei dazi e delle tasse destinati all’Anp (come stabilito dal Protocollo economico di Parigi). E in ogni caso, ha aggiunto il premier, la fine della divisione tra la Cisgiordania sotto l’Anp e Gaza controllata da Hamas, è essenziale per arrivare nelle condizioni migliori alla proclamazione unilaterale di indipendenza palestinesi, il prossimo settembre alle Nazioni Unite.
E invece per Israele non è cambiato proprio nulla. Non solo, per l’esecutivo guidato da Netanyahu (o per gran parte di esso) l’accordo tra Hamas e Fatah significa anche la fine di fatto della cooperazione di sicurezza con l’Anp e della caccia spietata che i corpi speciali palestinesi hanno dato in questi quattro anni agli islamisti in Cisgiordania. Due giorni fa il ministro degli esteri Avigdor Lieberman ha chiesto ad Abu Mazen di rigettare la riconciliazione con Hamas se dialogare con Israele che da parte sua, ha aggiunto, non rinuncerà in alcun caso, anche per solo per poche ore, ad espandere le sue colonie nella Cisgiordania palestinese. Così quattro anni dopo, 150mila dipendenti dell’Anp (60mila dei quali a Gaza) sono di nuovo senza stipendio perchè i dazi trattenuti da Israele rappresentano il 70% delle entrate dell’Anp. Fayyad non ha i 170 milioni di dollari necessari per pagare gli stipendi agli impiegati dei vari ministeri e agli agenti di polizia e forze di sicurezza, e si ritrova nella stessa condizione del governo di Hamas, anzi peggio visto che il movimento islamico in questi anni ha dovuto fare di necessità virtù per resistere al blocco israeliano di Gaza e alla mancanza di fondi.
Il governo Netanyahu non cede e si aspetta che gli Stati Uniti seguano la sua strada, bloccando attraverso i tanti amici di Israele al Congresso i fondi destinati all’Anp «per evitare che finiscano nelle tasche dei terroristi». Con l’Ue il discorso è più complesso. Non tutti i paesi europei condividono il sostegno incondizionato di Italia, Repubblica Ceca e Olanda a tutte le politiche di Israele. Si vedrà, ma intanto venerdì la Commissione europea ha annunciato una donazione extra di 85 milioni di euro all’Anp, in parte finalizzati proprio a pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici. E fondi aggiuntivi potrebbero arrivare anche da Parigi. Ma è chiaro che l’Europa non potrà versare al nuovo governo dell’Anp con Hamas (potrebbe nascere entro una decina di giorni), le centinaia di milioni di dollari palestinesi che Israele intende bloccare a tempo indeterminato.
I palestinesi hanno predisposto un piano B? Non pare, stando a quanto ci dice Samir Huleileh, amministratore della Padico, con un corposo passato ai vertici dell’Anp. «Credo che si finirà nella situazione del 2006, quando i dipendenti pubblici ricevevano solo quel poco che il governo riusciva a mettere insieme», dice laconico il manager. E siamo solo all’inizio, le ritorsioni si faranno ancora più pesanti a settembre con la proclamazione di indipendenza palestinese, senza dimenticare che la fine della cooperazione di sicurezza probabilmente porterà ad una escalation di operazioni militari israeliane in Cisgiordania (peraltro mai cessate completamente). Una pressione che, temono molti, potrebbe ripercuotersi sulle relazioni tra Fatah e Hamas, dando fiato a quelli che, nelle due parti, non hanno applaudito alla riconciliazione.
L’altro giorno al Movenpick Hotel di Ramallah il gotha della finanza palestinese si rallegrava per il «nuovo successo» conseguito dall’«economia nazionale». La Padico Holding, (che possiede mezza Palestina, dalla telefonia mobile alle costruzioni), del magnate Munib Masri, ha emesso il primo corporate bond (obbligazione di società privata) della storia palestinese. Alla celebrazione c’era anche il premier dell’Anp Salam Fayyad. Ma il primo ministro aveva altro per la testa. È passata appena una settimana dalla firma dell’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas al Cairo e dall’annuncio della prossima formazione di un governo di unità nazionale (formato da tecnocrati) e le ritorsioni di Israele già fanno sentire il loro effetto. «Il governo Netanyahu non può bloccare i fondi palestinesi, sono nostri non di Israele. Quella misura è illogica, poichè viviamo una situazione ben diversa rispetto qualche anno fa», ha detto Fayyad rivolgendosi alla sala gremita, in apparente riferimento al 2006 e 2007 quando, dopo la vittoria elettorale di Hamas, Israele bloccò per molti mesi i fondi derivanti dalla raccolta ai valichi per Gaza e Cisgiordania dei dazi e delle tasse destinati all’Anp (come stabilito dal Protocollo economico di Parigi). E in ogni caso, ha aggiunto il premier, la fine della divisione tra la Cisgiordania sotto l’Anp e Gaza controllata da Hamas, è essenziale per arrivare nelle condizioni migliori alla proclamazione unilaterale di indipendenza palestinesi, il prossimo settembre alle Nazioni Unite.
E invece per Israele non è cambiato proprio nulla. Non solo, per l’esecutivo guidato da Netanyahu (o per gran parte di esso) l’accordo tra Hamas e Fatah significa anche la fine di fatto della cooperazione di sicurezza con l’Anp e della caccia spietata che i corpi speciali palestinesi hanno dato in questi quattro anni agli islamisti in Cisgiordania. Due giorni fa il ministro degli esteri Avigdor Lieberman ha chiesto ad Abu Mazen di rigettare la riconciliazione con Hamas se dialogare con Israele che da parte sua, ha aggiunto, non rinuncerà in alcun caso, anche per solo per poche ore, ad espandere le sue colonie nella Cisgiordania palestinese. Così quattro anni dopo, 150mila dipendenti dell’Anp (60mila dei quali a Gaza) sono di nuovo senza stipendio perchè i dazi trattenuti da Israele rappresentano il 70% delle entrate dell’Anp. Fayyad non ha i 170 milioni di dollari necessari per pagare gli stipendi agli impiegati dei vari ministeri e agli agenti di polizia e forze di sicurezza, e si ritrova nella stessa condizione del governo di Hamas, anzi peggio visto che il movimento islamico in questi anni ha dovuto fare di necessità virtù per resistere al blocco israeliano di Gaza e alla mancanza di fondi.
Il governo Netanyahu non cede e si aspetta che gli Stati Uniti seguano la sua strada, bloccando attraverso i tanti amici di Israele al Congresso i fondi destinati all’Anp «per evitare che finiscano nelle tasche dei terroristi». Con l’Ue il discorso è più complesso. Non tutti i paesi europei condividono il sostegno incondizionato di Italia, Repubblica Ceca e Olanda a tutte le politiche di Israele. Si vedrà, ma intanto venerdì la Commissione europea ha annunciato una donazione extra di 85 milioni di euro all’Anp, in parte finalizzati proprio a pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici. E fondi aggiuntivi potrebbero arrivare anche da Parigi. Ma è chiaro che l’Europa non potrà versare al nuovo governo dell’Anp con Hamas (potrebbe nascere entro una decina di giorni), le centinaia di milioni di dollari palestinesi che Israele intende bloccare a tempo indeterminato.
I palestinesi hanno predisposto un piano B? Non pare, stando a quanto ci dice Samir Huleileh, amministratore della Padico, con un corposo passato ai vertici dell’Anp. «Credo che si finirà nella situazione del 2006, quando i dipendenti pubblici ricevevano solo quel poco che il governo riusciva a mettere insieme», dice laconico il manager. E siamo solo all’inizio, le ritorsioni si faranno ancora più pesanti a settembre con la proclamazione di indipendenza palestinese, senza dimenticare che la fine della cooperazione di sicurezza probabilmente porterà ad una escalation di operazioni militari israeliane in Cisgiordania (peraltro mai cessate completamente). Una pressione che, temono molti, potrebbe ripercuotersi sulle relazioni tra Fatah e Hamas, dando fiato a quelli che, nelle due parti, non hanno applaudito alla riconciliazione.
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Annullate 140mila residenze palestinesi
Tra il 1967 e il 1994 Israele ha usato criteri, mai resi noti alla popolazione sotto occupazione militare, per annullare lo status di residente in Cisgiordania a circa 140mila palestinesi. Lo rivelava ieri il quotidiano israeliano Haaretz riferendo le ammissioni fatte al Centro per la Difesa dei Diritti dell’Individuo, dal consigliere legale dell’ufficio del ministero della giustizia israeliano competente per la Cisgiordania. Fino al 1994, anno della nascita dell’Anp, le autorità militari israeliane imponevano ai palestinesi della Cisgiordania che si recavano in Giordania di lasciare i loro documenti al valico di Allenby. In cambio ricevevano un permesso per attraversare il confine. Quel permesso era valido tre anni e poteva essere rinnovato solo tre volte, ogni volta per un anno. La carta di identità dei palestinesi non rientrati in Cisgiordania sei mesi prima della scadenza del permesso, veniva inviata al Registro della popolazione e timbrata con la sigla NLR (no longer resident, non più residente). Tutto ciò avveniva all’insaputa degli interessati. Il Centro per la Difesa dei Diritti dell’Individuo ha spiegato che il numero totale dei palestinesi che hanno perduto il diritto a vivere nella loro terra è rimasto segreto sino ad oggi.
Intanto pare aver raggiunto un altro risultato la campagna “Bds” (Boycott, Divestment, Sanctions) messa in atto da attivisti internazionali nei confronti di Israele, sino a quando Tel Aviv non porrà fine all’occupazione e alle sue politiche anti-palestinesi. La tedesca Deutsche Bahn, azienda che opera nel settore dei trasporti ferroviari, si è ritirata dal progetto di costruzione di una linea israeliana ad alta velocità (28 minuti da Gerusalemme a Tel Aviv) perché per 6,5 km entra all’interno della Cisgiordania. I primi cantieri della Tav israeliana sono stati aperti nel 2005 e dal progetto trae profitto anche l’italiana Pizzarotti & C. SpA di Parma, incaricata di scavare un lungo tunnel, di fronte ai villaggi palestinesi di Beit Surik e Beit Iksa. In origine la costruzione di questa parte di linea era stata aggiudicata all’impresa israeliana Shapir in partnership con l’austriaca Alpine. La costruzione è stata ferma per anni a causa delle obiezioni degli ambientalisti israeliani. Nel frattempo la Alpine ha fatto retromarcia, dando spazio all’italiana Pizzarotti che non sembra aver alcun problema ad operare contro la IV Convenzione di Ginevra che vieta lo sfruttamento delle terre di un popolo da parte di una potenza occupante.
Intanto pare aver raggiunto un altro risultato la campagna “Bds” (Boycott, Divestment, Sanctions) messa in atto da attivisti internazionali nei confronti di Israele, sino a quando Tel Aviv non porrà fine all’occupazione e alle sue politiche anti-palestinesi. La tedesca Deutsche Bahn, azienda che opera nel settore dei trasporti ferroviari, si è ritirata dal progetto di costruzione di una linea israeliana ad alta velocità (28 minuti da Gerusalemme a Tel Aviv) perché per 6,5 km entra all’interno della Cisgiordania. I primi cantieri della Tav israeliana sono stati aperti nel 2005 e dal progetto trae profitto anche l’italiana Pizzarotti & C. SpA di Parma, incaricata di scavare un lungo tunnel, di fronte ai villaggi palestinesi di Beit Surik e Beit Iksa. In origine la costruzione di questa parte di linea era stata aggiudicata all’impresa israeliana Shapir in partnership con l’austriaca Alpine. La costruzione è stata ferma per anni a causa delle obiezioni degli ambientalisti israeliani. Nel frattempo la Alpine ha fatto retromarcia, dando spazio all’italiana Pizzarotti che non sembra aver alcun problema ad operare contro la IV Convenzione di Ginevra che vieta lo sfruttamento delle terre di un popolo da parte di una potenza occupante.
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da “il mnifesto” del 12 maggio 2011
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