Sarà il clima della Primavera araba: si è finalmente liberi di credere tutto ciò che si vuole. Ma da quando è ripreso il campionato dopo la sosta forzata causa rivolte popolari, la gente dice che con Integ Harbijah gli arbitri sono molto tolleranti. Rigori a favore, niente cartellini gialli, fuorigioco come optional. Tutto si spiega, dicono, con il nome della squadra: Produzione Militare.
Questo significa infatti Integ Harbijah, che appartiene a quel ministero, una delle tre squadre delle Forze armate fra le 16 che giocano nella serie A egiziana. C’è anche il club del ministero degli Interni, quello della Polizia e della Polizia di frontiera che l’anno scorso ha vinto la Coppa d’Africa.
Lo Zamalek, squadra storica del Cairo, quest’anno celebra 100 anni ma non ha i soldi per pagare gli stipendi dei giocatori. Integ Harbijah e gli altri i mezzi invece li hanno. Sarà un caso – dice sempre la voce della curva da stadio – se cambiano i governi, passano le rivoluzioni ma il generale Saied Meshal è sempre il ministro della Produzione militare?
Quanto produca, quanti soldi versi alle casse dello Stato e quanti ne trattenga, è segreto militare. Anche dopo piazza al-Tahrir tutto ciò che riguarda la difesa resta segreto assoluto. Ma proprio tutto. Negli anni Sessanta Ismail Yasin era diventato l’attor comico più amato d’Egitto girando film come Yassin va in Marina, Yasin poliziotto militare. Qualcosa tipo Franco e Ciccio alla visita di leva. Poi, dopo la sconfitta nella guerra del 1967 più nulla, nemmeno un film sulle Forze armate.
È dunque un calcolo ipotetico sostenere che l’apparato militare-industriale egiziano valga un terzo del Pil nazionale. Paul Sullivan della National Defence University di Washington calcola sia fra il 10 e il 15% dell’economia egiziana, che vale 210 miliardi di dollari. Siamo lontani dagli ordini di grandezza dell’esercito popolare cinese e delle forze armate cubane: queste ultime controllano più del 60% dell’economa e tutte le produzioni che garantiscono valuta, dalla farmaceutica al turismo, ai sigari Habana.
Una volta il prodotto di maggior successo uscito dalle fabbriche militari egiziane era Furn, un forno domestico a gas. Poi negli anni 90 i tecnocrati di Gamal Nasser hanno liberalizzato il mercato e quasi allo stesso prezzo di Furn la gente può comprare i più solidi elettrodomestici coreani. Non è per le quote di mercato dei forni da cucina che è scoppiata la rivolta contro il regime: quello dei militari non arriva al 2 per cento. Ma per il controllo dell’economia nazionale forse sì. Era noto lo scontro fra il generale Mohamed Tantawi, capo delle Forze armate, ministro della Difesa nel governo di Hosni Mubarak (ora è al vertice del comitato che guida la transizione, conservando anche le vecchie cariche) e Gamal, il figlio del presidente. Il primo era un sostenitore dell’economia di Stato, il secondo della libera impresa. Difficile pensare che i servizi segreti militari non sapessero cosa stava covando fra i blogger innescati dal movimento 6 Aprile. Potevano fermarli prima di piazza al-Tahrir ma non è accaduto. Tantawi è più potente di prima, Gamal Mubarak è in galera.
Nel bilancio egiziano ufficialmente la quota per la Difesa è meno del 5 per cento. Non è mai stato spiegato – perché fino a ora nessuno faceva domande di questo genere – se Integ Harbiyah possieda risorse proprie o siano parte del bilancio strettamente militare. Poi c’è il miliardo e 300 milioni di aiuti americani: da quando sono iniziati nel 1979, sono circa 40 miliardi. Questo aiuto non c’entra con il piano di aiuti per Egitto e Tunisia che è stato appena discusso al G-8 a Deauville: il sostegno militare americano non si sommerà a quel pacchetto e continuerà anche quando gli aiuti civili saranno terminati: è una questione più strategica che economica.
Grazie a questo le Forze armate hanno potuto migliorare la qualità dei loro arsenali ma sul piano tecnologico restano arretrate. Una joint venture con la Chrysler permette di assemblare in Egitto le jeep Wrangler necessarie e di vendere ad alcuni Paesi arabi il surplus. L’apparato militare industriale resta tuttavia un prodotto dell’epoca socialista nella quale venne creato: quando fu deciso che ogni fabbrica della Difesa dovesse produrre un bene civile. Tutto continua come prima, perché le privatizzazioni di Gamal non sono arrivate a toccare le industrie militari. La produzione è vastissima: acqua minerale, latte, olio, pane, costruzioni, cemento, benzina. Ma è di scarsa qualità e minimale sul mercato dei consumi egiziano.
Anche nella produzione strettamente militare l’Egitto non è all’avanguardia: esporta munizioni, fucili Kalashnikov, mezzi leggeri per qualche milione di dollari. Le esportazioni militari israeliane ad alto valore tecnologico valgono 5 miliardi l’anno. Per questo la battaglia di Tantawi e dei militari forse non è tanto la conquista e la direzione dell’economia egiziana come a Cuba, quanto la salvaguardia dei benefici di categoria. La produzione militare industriale è qualitativamente discutibile ma in un Paese povero come l’Egitto conta. E l’industria militare non paga le tasse.
Sono 500mila i soldati in servizio attivo più un altro mezzo milione nella riserva. Poi ci sono i dipendenti dell’industria della Difesa, il più grande datore di lavoro pubblico del Paese. Gli stipendi non sono alti: un generale arriva a 800 dollari al mese; il manager civile di un’impresa statale prende fino a dieci volte di più. Ma molto spesso quei manager sono ex militari. Inoltre ci sono gli ospedali per militari, le case popolari, i centri di vacanza, gli spacci per militari.
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