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Libano: un Tribunale che frena il futuro

Alla richiesta di cattura per quattro militanti del Partito di Dio, accusati dal Tribunale Speciale per il Libano (TSL) d’essere gli esecutori della strage del 2005, è seguita l’aspra contestazione del segretario generale Nasrallah nei confronti del provvedimento e del Tribunale stesso. Il suo “né 30 giorni e neppure 30 o 300 anni” per consegnare gli imputati è una levata di scudi a difesa non solo dell’intoccabilità di miliziani considerati eroici combattenti che difendono da anni il suolo patrio, fra i quattro c’è Mustafa Badr Al Din, capo militare e cognato dell’ancor più celebre comandante Imad Moughniyem assassinato nel 2008 in un attentato a Damasco. Il leader sciita difende la centralità della sua organizzazione nel rinato panorama politico libanese che taluni vorrebbero nuovamente azzerare. In questi giorni si gioca il futuro di un’ipotesi governativa che il Movimento 14 marzo, passato all’opposizione, sta apertamente osteggiando. E’ una scelta nuova, se vogliamo di parte rispetto alla soluzione finora praticata dell’unità nazionale che ha avuto come premier sino a gennaio scorso Saad il figlio di Rafiq. Una soluzione che per due anni è parsa ingessata e incapace di decidere qualsiasi cosa. Il nuovo esecutivo è retto dal moderato Miqati che pare rivolto più a intenti nazionali che ad accondiscendenze verso interessi esterni e forse per questo avrà vita difficile. A rendergliela tale sembra proprio l’iniziativa del TSL che, tirando in ballo Hezbollah componente centrale di questa maggioranza, può indirettamente ostacolare la nascita del nuovo governo che a metà luglio si sottoporrà al voto del Parlamento.

Il Partito di Dio, forte della sua consistenza, ha tenuto un basso profilo riguardo a ministeri e cariche. Ha accettato che l’anziano e presuntuoso Aoun ottenesse dicasteri pesanti (difesa, giustizia) e un altro politico per ogni stagione e alleanza, Jumblatt, si gloriasse più della sua reale capacità aggragativa. Eppure nonostante la finezza strategica il movimento diretto da Nasrallah così attento all’immagine di giustizia può pagare pegno nell’attuale fase che attraversa la regione. Lo zelo con cui ha ribadito la vicinanza al regime di Assad scosso dalle poteste popolari e da una sorta di scontro civile può diventare un boomerang. E offuscare uno dei cavalli di battaglia che dagli anni Novanta accompagna l’esponenziale crescita politica sciita in Libano: la lotta degli oppressi contro gli oppressori. Un’ingenuità o una rigidità ammissibile per formazioni di vecchio stampo come Amal, rimasta per trent’anni su posizioni schematiche, non per l’astuzia di Hezbollah. La cui dirigenza si distingue per la duttilità tattica con cui sa alternare l’uso della parola, e anche delle rinunce, a quello della forza. Ma gli occhi e le menti critiche degli arabi, non solo maghrebini, in questa fase assai sensibili al desiderio di libertà, possono avere un peso negativo sulla leadership di Hezbollah nella regione. Resta certamente il ruolo guida nella resistenza al pericolo israeliano che gran parte dei libanesi, anche sunniti e taluni cristiani, riconoscono alle milizie sciite. Pur non volendo considerare fazioso l’uso del mandato di cattura del TSL, che ha sede in Olanda e che difficilmente riuscirà ad attuare il progetto di arresto dei quattro incriminati, resta la parzialità di questa struttura nata per iniziativa statunitense, composta da elementi tutt’altro che super partes, operante in maniera discutibile.

A dirlo non è solo l’interessato Nasrallah ma più d’un analista internazionale. Il Tribunale nasce nel 2007 come alter ego di quella presenza occidentale, che in certi casi sfiora l’ingerenza, rappresentata non tanto dalle milizie dell’Unifil che presidiano il sud del Libano bensì dall’ampio fronte di agenti dei Servizi (Cia e Mossad) che controllano l’area per i propri disegni geopolitici. Naturalmente a Beirut – che un fortunato romanzo di un paio di anni fa definiva la città più sicura del mondo (sic) ma non è detto che resti tale – agiscono anche spie iraniane, siriane e gli agenti di re Abdullah. Loro però non hanno dato vita a un Tribunale internazionale. Ecco la composizione del TSL presieduto dal giurista italiano Antonio Cassese, che voci di parte definiscono “amico d’Israele”. Lì siedono: l’australiano Nick Caldas, esperto d’investigazioni internazionali che ha lavorato in Iraq per creare un’Intelligence locale durante l’occupazione statunitense; Darrel Mendez, americano, ex marine, con un passato nella Cia e nell’Fbi; Robert Baer, ex funzionario della Cia già inviato in Libano nel 1984; il libano-francese Doreid Bcherraoui, consigliere giuridico del procuratore, ostile alla resistenza antisraeliana e favorevole a lanciare accuse contro la Siria sin dai primi giorni dell’attentato a Hariri. Il più neutrale sembra il britannico Michael Taylor, esperto di terrorismo islamico, formatosi a Scotland Yard. Simili curricula aiutano non poco le tesi di rigetto di Nasrallah, però se da una parte non è bene valutare il presente di professionisti sulla base dei loro impegni trascorsi come non notare che le prove su cui il Tribunale basa i mandati di cattura verso gli sciiti sono basate esclusivamente su dati acquisiti da inchieste giornalistiche.

Sono i reportage del quotidiano tedesco Der Spiegel e della tv canadese CBC che a loro volta citavano le indagini sulla strage fornite dai Servizi libanesi. Nei due report si ometteva di dire che all’epoca quelle strutture erano zeppe di agenti doppiogiochisti o al soldo di Tel Aviv. L’accusa la lanciò con la consueta enfasi Nasrallah in persona nell’agosto 2010, in più mostrò filmati di spionaggio effettuato dall’aviazione israeliana tramite droni che volavano su Beirut e che vennero abbattuti. Il TSL non ha voluto acquisire queste prove giudicate di parte. Una virata verso i due pesi e le due misure.

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