All’incrocio “Biffi” qualcuno ha lasciato per terra un piatto di datteri e dei biscotti come offerta ai passanti. Un fatto comune durante il ramadan, il mese di digiuno diurno (di cibo e acqua) iniziato il primo agosto. Siamo verso il quartiere Tajura, fin dall’inizio pluribombardato dalla Nato: il nigerino Abu che risiede nella zona come giardiniere dice che non c’è più niente da colpire, salvo la polvere. Eppure ogni notte e anche di giorni aerei volano e qualche missile o bomba si schianta.
Comunque a Tripoli non c’è coprifuoco malgrado i bombardamenti. La gente spera che prima o poi la Nato smetterà di bombardare se non altro per il rispetto del ramadan. Questo spera anche monsignor Giovanni Martinelli che si dice convinto che in questo mese succederà qualcosa a livello di negoziati. I “ribelli” però (il “legittimo governo della Libia” secondo 30 governi del mondo) hanno già detto che anche il profeta combatteva durante il ramadan. “Sì ma combatteva contro non musulmani, e per difendere il territorio attaccato” replica Hana, cittadina libica. Fatto sta che i bombardamenti continuano. Il 30 luglio all’alba sono morti tre giornalisti, e altri quindici feriti, quando la Nato ha colpito la tivù nazionale, considerata surrealmente “centro di propaganda con la quale Gheddafi minaccia i civili”. Il rumore degli aerei anche di giorno ricorda continuamente alla famiglia Lagrari, nel quartiere Suq El Jorma, zona Arrada, il bombardamento un mese fa della loro casa, in un quartiere senza nulla di militare. Sei i morti fra i quali una donna, una bambina e un bambino. Adesso i Lagrari superstiti vivono in un appartamento fornito dal governo. Il loro massacro è stato finora l’unico “errore” riconosciuto dalla stessa Nato. La strage di 15 persone fra cui 3 bambini della famiglia al Kweidi al Hamedi a Sorman è stata giustificata con il fatto che si trattava di “obiettivo militare”, un “comando di alto livello”.
I mezzi pubblici (pulmini con quindici posti circa, chiamati “Ifico” (Iveco: in arabo la “v” e la “e” non ci sono) erano già scarsi prima (paese petrolifero, la Libia ha un tasso elevato di automobili pro capite; non come quello italiano, tuttavia), ma adesso sono ancora più rari. Manca il carburante. Il paese non ha capacità di raffinazione sufficienti e l’embargo navale rende più difficile l’arrivo anche delle merci diverse dalle armi. I rifornimenti da altre zone sono interrotti dagli scontri. Ridotte le scorte del gas di cucina perché i ribelli sulle montagne Nafusa hanno tagliato gli approvvigionamenti. Frequenti anche i black-out elettrici, il petrolio su cui sta seduta la Libia deve comunque arrivare alle centrali. L’unica notizia positiva è che la gente adesso pensa un po’ di più prima di prendere l’auto (e la raffresca con il vento dai finestrini anziché con l’aria condizionata). Circolano perfino delle biciclette.
Nadia e Walid mi danno un passaggio sul loro camioncino mentre aspettavo in “ifico” che tardava. Allungano la strada: un’azione onerosa adesso vista la scarsità di benzina, ma il dovere di aiutare l’ospite è sacro. Tanto più durante il ramadan. L’assedio militare della Nato e “civile” dell’Onu (con le sanzioni decise in primavera) si vede. Il pane è l’unico alimento (qui si dice “mangiaria”, una delle reminiscenze della colonizzazione italiana) il cui prezzo non è cresciuto, venti pezzi per un dinaro. Ma allora perché quella coda per il pane? In poche parole in arabo Nadia spiega che sono partiti gli egiziani che facevano i panettieri; Al Jazeera li ha spaventati troppo. Nadia indica i cumuli di rifiuti per strada, non raccolti (del resto non ne fanno pochi. E le buste di plastica, qui a righe bianche e nere, sono onnipresenti). Più tardi qualcun altro dirà che erano gli africani a raccogliere i rifiuti. Anche l’Italia si fermerebbe senza il lavoro dei migranti. Ma è probabilmente anche un problema di organizzazione.
Su un altro bus Kiria dice “Italia, Nato, Nato” e scuote la testa. Ma poi vuole pagare lei il biglietto. Il giorno prima a insistere è stata un’altra passeggera, una donna del Ghana.
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