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La Libia diventa un Iraq

«La nuova Libia sarà uno Stato unitario, democratico, pluralista, protagonista di una politica di pace e cooperazione nel Mediterraneo». Lo assicura Abdul Hafiz Ghoga, vicepresidente del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt), in un’intervista su «L’Unità», sottolineando come non vi siano possibilità di una deriva intregralista nel Paese in quanto «non abbiamo combattuto una dittatura per veder poi realizzato un regime teocratico, jiihadista». Nonostante Gheddafi stia cercando di fuggire, l’avvocato di Bengasi che da sempre si batte per il rispetto dei diritti umani nel suo paese ammette che «l’insurrezione potrà dirsi conclusa solo con la sua cattura. Gheddafi infatti può contare ancora su alcune brigate di fedelissime – sottolinea – e su un manipolo di mercenari. Quello che sta cercando di fare è ricattare il popolo libico e la Comunità internazionale. Un ricatto di sangue – incalza – degno di un criminale di guerra». A giudicarlo saranno però i libici spiega Ghoga: «Noi non siamo animati da uno spirito di vendetta. Vogliamo solo che sia fatta giustizia e che Gheddafi risponda dei suoi crimini in un’aula di tribunale. Un tribunale libico perchè – conclude – non possiamo essere un Paese a sovranità limitata». Forse non hanno ancora letto l’opinione di Adriano Sofri, secondo cui a “sovranità limitata” si è perfettamente “liberi”…

Violenti combattimenti a un centinaio di chilometri da Sirte, la città natale di Muammar Gheddafi. Stando alla Bbc, dopo il lancio di alcuni razzi dalla zona degli scontri tra lealisti del colonnello e ribelli si vedono levarsi colonne di fumo.

La Nato sta fornendo assistenza al Consiglio nazionale transitorio dei ribelli libici per le operazioni di intelligence e di ricognizione nella caccia a Muammar Gheddafi e ai suoi figli. È quanto ha confermato il ministro della Difesa britannico, Liam Fox parlando con Sky News. Fox ha rifiutato invece di commentare quanto riportato sul quotidiano Daily Telegraph, secondo il quale forze speciali britanniche sarebbero presenti sul terreno libico per aiutare i ribelli nella ricerca del colonnello. I ribelli libici hanno usato un mini-drone per spiare i movimenti delle truppe di Muammar Gheddafi. Lo riferisce la società canadese Zariba che gligelo ha fornito. «Quando i ribelli si spostavano sulla strada, venivano presi di mira dai colpi delle forze di Gheddafi che loro stessi stavano cercando. Hanno quindi cercato disperatamente delle soluzioni per poter individuare i soldati da lontano», ha detto all’Afp Charles Barlow, ex ufficiale dell’esercito canadese e oggi presidente della società di sicurezza Zariba che a luglio scorso si è recato a Misurata per insegnare i ribelli l’uso del drone. «Avevano pure tentato di mettere delle telecamere su dei modellini di elicottero ma non funzionava molto bene», ha aggiunto. Dopo aver studiato diverse proposte, soprattutto europee, i ribelli hanno scelto la tecnologia del gruppo canadese Aeryon Labs che ha firmato un contratto con la Zariba per fornire questo equipaggiamento strategico al Consiglio nazionale transitorio libico. Il mini-drone è una sorta di robot volante telecomandato, che pesa meno di un chilo e mezzo e che può essere facilmente trasportato in uno zaino. Gli insorti ne hanno acquistato uno solo, del valore di circa 100 mila dollari.

Calma apparente stamani a Tripoli, dove dopo l’ingresso dei ribelli e la presa di Bab al-Aziziya, sacche di resistenza dei lealisti continuano a costituire una minaccia. Secondo la Bbc, stamani a Tripoli l’atmosfera sembra calma, mentre proseguono gli scontri a sud della capitale libica. Intanto ad Ajdabiya i ribelli sperano di poter negoziare una tregua con i lealisti di Muammar Gheddafi di Sirte, città natale del colonnello. Anche se, sottolinea la tv, alcuni lealisti sembrano determinati a continuare a combattere.

Per la prima volta fonti della difesa britannica hanno confermato che uomini dei Sas (Special Air Services), i corpi d’elite britannici, sono da diverse settimane in Libia, dove hanno avuto un ruolo chiave nel coordinare la presa di Tripoli da parte dei ribelli e ai quali è stato ordinato ora di mettersi sulle tracce di Muammar Gheddafi. È quanto scrive il sito del Telegraph. Secondo le fonti citate dal giornale, l’ordine è venuto dal premier David Cameron e soldati dei Sas da vari reggimenti sono stati mandati. Sul posto le «teste di cuoio» britanniche vestono come i ribelli e portano le stesse armi.

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da “il manifesto”

Alessandro Dal Lago
LIBIA
La favolosa guerra dei media. E quella vera

Il figlio di Gheddafi che viene catturato e poi ricompare baldanzoso nella notte. Tripoli che insorge, mentre invece la città è assalita da combattenti venuti da fuori. Festeggiamenti a Bengasi fatti passare per l’esultanza dei tripolini. Un regime dato per finito che dopo tre giorni continua a bombardare il centro della città. Inviati in elmetto che mettono in posa i combattenti per riprenderli. Dirette dalla battaglia in cui si vedono solo tetti e il fumo in lontananza…
Più che di «nebbia della guerra» si dovrebbe parlare di una guerra televisiva che ha ben poco a che fare con quello che succede, ma rientra in una strategia mediale mirata a confondere le acque sia agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, sia a quelli del regime di Tripoli. D’altronde si sa che al Jazeera è la voce dei regimi arabi moderati, a partire dal Quatar, molto attivo sul campo nell’assistenza (anche militare) ai ribelli libici, e che i conservatori inglesi hanno strettissimi rapporti con Murdoch, il padrone di Sky. Fatti i conti, è chiaro che gran parte dei media racconta una guerra immaginaria, mentre i loro sponsor, Cameron, Sarkozy e Obama incrociano le dita sperando che la guerra vera vada proprio come sperano.
Ma la guerra vera è tutt’altra cosa da quella raccontata in prima pagina. CONTINUA|PAGINA7
Basta analizzare i servizi più meditati sulle pagine interne dei grandi quotidiani internazionali.
L’avanzata dei ribelli è stata resa possibile (al 70 per cento, dice il Corriere della sera) dalla Nato, con tanto di istruttori e forze speciali in prima linea (francesi, inglesi, americani, quatarioti: la conferma è venuta ieri da «fonti» dell’Alleanza atlantica citate dalla Cnn). Quelli dell’ovest hanno ben poco a che fare con i bengasini, guidati da gente come Jalil e Jibril (e forse Jalloud), che se mai Gheddafi fosse processato, si troverebbero al suo fianco sul banco degli imputati (ed ecco spiegata la taglia sul Colonnello). E poi, anche se i gheddafiani smettessero domani di combattere, nessuno ha un’idea di quelle che succederebbe dopodomani, con un paese diviso in fazioni armate, inferocito, pullulante d’armi, con una quantità di conti da regolare con i perdenti e tra i vincitori (l’eliminazione dell’ex-comandante Younes insegna).
Come tutto questo sia fatto passare, anche a sinistra, per una mera lotta di liberazione o un risultato della primavera araba si spiega solo, anche da noi, con la confusione che regna in un’Europa preoccupata da un’economia traballante e guidata da un paio di leader ossessionati dalla rielezione (Sarkozy) o che hanno le loro gatte da pelare (Cameron).
Saranno bastati i bombardamenti «mirati» o umanitari, come straparlano gli Henry-Levy o i giustizialisti da prima pagina di casa nostra, a gettare le premesse di una società civile o democratica in Libia?
Non c’è da crederci molto.
Ci rallegriamo quando cade un dittatore, certamente. Qualsiasi cosa è meglio di Gheddafi, forse. Ma, come ha scritto ieri un commentatore sul Guardian, se i mezzi sono sbagliati, questo alla fine influisce sul risultato. Inglesi e americani hanno creato un’instabilità senza fine in Iraq. La Nato si è impantanata in Afghanistan. In attesa che qualche anima bella proponga di intervenire in Siria, ecco che si suggerisce a mezza bocca la permanenza di forze Nato in Libia per «stabilizzare» il paese.
Tutto questo ha a che fare con la «rivoluzione»?
Ma non è solo una questione di parole. Quello che semmai stupisce è che, a parte qualche conservatore d’esperienza come Sergio Romano, ben pochi in Italia, e soprattutto a sinistra, si interroghi sulle prospettive di questa crisi libica. E cominci a interrogarsi sull’incredibile distonia tra una guerra magnificata dai media e quella vera, in cui gli uomini muoiono, anche se non ne sapremo mai il numero.

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Anche Stefano Liberti, che di strabosmi acentuato aveva dato ampia prova nei suoi pezzi come inviato in Libia, sembra ora tornato a una visione meno manichea ed “empatica” con il “ribelli” protetti dalla Nato.

Stefano Liberti
Propaganda/ UNA RAFFICA DI PANZANE DA UNA PARTE E DELL’ALTRA
La prima vittima delle guerra è la verità? Mai così vero come nella guerra libica
Non è solo per via della nebbia della guerra o per «tenere alto il morale del popolo». Forse c’è anche una peculiarità tutta libica

«La prima vittima della guerra è la verità», diceva Eschilo già nel V° secolo avanti Cristo. Un’affermazione confermata più che mai dalla vicenda libica, dove il tenore delle menzogne, delle versioni discordanti, delle vere e proprie fanfaronate ha raggiunto dall’una e dall’altra parte vette forse inarrivabili. Prendiamo le ultime dichiarazioni. «Oggi Tripoli è per l’80% in nostro controllo», sostengono fiduciosi i ribelli. «Abbiamo respinto i ratti, Tripoli è nostra», li ha rintuzzati Seif al Islam, il secondogenito del colonnello, di cui i «giovani rivoluzionari» avevano annunciato in pompa magna l’arresto domenica, salvo vederselo comparire libero come l’aria a spasso per Tripoli la notte dopo.
Questo è solo l’ultimo episodio di una lunghissima serie, cominciata il 15 febbraio scorso, quando la popolazione di Bengasi si è sollevata in massa contro l’arresto dell’avvocato per i diritti umani Fathi Terbil. Subito dopo lo scoppio delle manifestazioni, un Gheddafi bellicoso si era affrettato a sostenere che queste erano fomentate niente di meno che da al Qaeda, capace di organizzare la distribuzione capillare tra i giovani della Cirenaica di grandi stock di droghe allucinogene. Archiviata la ribellione come un delirio lisergico, il raìs mandava i propri carri armati a snidare i drogati «strada per strada», «casa per casa».
Dall’altra parte, i rivoltosi anti-Gheddafi non dimostravano meno inventiva. Quando l’intervento francese, il 19 marzo, ha salvato in extremis Bengasi dall’avanzata altrimenti inesorabile dei carri armati del regime, i vari portavoce del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) hanno annunciato ai giornalisti che nei tank bruciati avevano trovato grandi quantitativi di viagra e di profilattici, come prova di uno stupro collettivo che i nemici si preparavano a perpetrare contro la città ribelle.
Solo tre giorni prima, il numero due del Cnt Abdul Hafiz Gogha aveva giurato e spergiurato contro ogni evidenza che l’armata ribelle controllava il centro di Ajdabiya, proponendo di portarci in tour i giornalisti. All’appuntamento al palazzo del tribunale la mattina successiva alle 11, non si è presentato nessuno del Cnt. Il giorno dopo, i tank di Gheddafi erano alla periferia di Bengasi. Passato ancora qualche giorno, e ribaltate le sorti della guerra dall’intervento internazionale, un Gogha trionfante annunciava alla folla riunita nella Piazza del Tribunale dopo la preghiera del venerdì che «Ajdabiya è stata riconquistata». Il che, a verifica sul terreno, si sarebbe rivelato niente di più che un wishful thinking, dal momento che la città a 160 chilometri da Bengasi sarebbe tornata sotto il controllo dei ribelli solo una settimana dopo – e dopo un efficace bombardamento delle forze Nato sulle postazioni dei lealisti.
Messi di fronte all’infondatezza delle loro affermazioni, i ribelli usavano un ritornello che tra i giornalisti a Bengasi era diventato una specie di barzelletta: quello della «ritirata tattica». Così aveva definito la perdita di Brega il portavoce militare degli insorti a uno stuolo di reporter allucinati che aveva assistito a una fuga di massa dei «giovani rivoluzionari» in tutte le direzioni, che sembrava avere ben poco di tattico. Così peraltro ha definito lo stesso colonnello Gheddafi solo ieri la sua fuga dal compound di Bab El Aziziya.
I portavoce più accorti, interrogati in privato, affermavano che si tendeva a esagerare un po’ le affermazioni per «tenere alto il morale del popolo». Ma, a ben guardare, il fatto più significativo non è l’enorme quantità di bugie che sono state profuse nel corso della guerra, quanto l’assoluta impunità con cui queste sono state proferite. E la velocità con cui una bugia – o un’affermazione non verificata – diventata verità assoluta o parte di un mito fondante. Tanto per dire, nessuno ha mai visto le schiere di «mercenari africani» che, secondo i ribelli, sarebbero sul libro paga del colonnello. Eppure, tutti a Bengasi ci metterebbero la mano sul fuoco. Tanto per dire ancora, il giorno in cui si è diffusa nella capitale della Cirenaica la notizia, non confermata da nessuno, che un aereo si era abbattuto su Bab El Aziziya uccidendo un figlio del colonnello, si è scatenata una gigantesca manifestazione notturna alla Piazza del Tribunale. Il giorno dopo, tutti giuravano che la notizia era vera, anche se nessun network internazionale l’aveva ripresa.
Cosa spiega questo travisamento quasi patologico della verità? Certo, ci sono le nebbie della guerra. C’è l’impossibilità spesso della verifica. Ma c’è anche qualcosa di più. Secondo l’efficace definizione di David Kirkpatrick e Rod Nordland sul New York Times di ieri, il problema sarebbe più profondo. Retta per 42 anni da un autocrate che ha cercato di convincere i propri concittadini di vivere nella «migliore democrazia del mondo», in cui lui si limitava a dare qualche indicazione senza ricoprire alcun incarico pubblico, la Libia sarebbe una sorta «repubblica delle bugie». I ribelli, che sono cresciuti in questo contesto, sarebbero quindi schiavi di questa dinamica. Secondo l’analisi del giornale statunitense, il loro unico modello di riferimento è la bugia istituzionale. E in questi mesi non avrebbero fatto altro che riprodurlo. Il che non promette nulla di buono per il futuro della Libia democratica.

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Manlio Dinucci
TRIPOLI Decisivo anche il ruolo delle truppe del Qatar
Ecco le forze Nato impegnate a terra

L’ambasciata del Qatar a Tripoli – mostra un video (http://www.youtube.com) – è stata riaperta tre giorni fa da uomini armati che, entrati nell’edificio danneggiato, vi hanno subito affisso la bandiera nazionale. Viene così documentata la presenza in Libia di forze speciali qatariane. Forze speciali di Gran Bretagna, Francia e Qatar, scrive The New York Times (23 agosto), stanno fornendo appoggio tattico alle forze ribelli e consiglieri della Cia stanno aiutando il governo di Bengasi a organizzarsi. Commandos britannici e francesi, conferma un alto ufficiale della Nato, sono sul terreno con i ribelli a Tripoli. E, alla domanda se vi sono anche agenti della Cia, risponde che certamente è così.
Viene in tal modo sconfessata la Nato, che solo ieri è stata costretta ad ammettere, di fronte all’evidenza e con un «funzionario anonimo» citato dalla Cnn, che le forze militari atlantiche combattono sul campo a Tripoli. Perché finora aveva giurato di non avere «boots on the ground», ossia militari sul terreno in Libia. Le forze speciali britanniche – indicano le inchieste del Guardian e del Telegraph – hanno svolto un ruolo chiave nell’attacco a Tripoli. Esso è stato preparato a Bengasi dal servizio segreto britannico MI6, che ha predisposto depositi di armi e apparecchiature di comunicazione attorno alla capitale, nella quale ha infiltrato propri agenti per guidare gli attacchi aerei. L’offensiva è iniziata quando, sabato notte, Tornado Gr4 della Raf decollati dall’Italia hanno attaccato, con bombe di precisione Paveway IV, un centro di telecomunicazioni e altri obiettivi chiave nella capitale. Secondo un’inchiesta riportata da France Soir, operano in Libia almeno 500 commandos britannici, cui si aggiungono centinaia di francesi. Questi ultimi vengono trasportati in Libia dagli elicotteri della Alat (Aviation légère de l’armée de terre), imbarcati sulla nave da assalto anfibio Tonnerre.
Importante anche il ruolo che svolge in Libia il Qatar, uno dei più stretti alleati degli Usa: ha speso oltre un miliardo di dollari per potenziare la base aerea Al-Udeid secondo le esigenze del Pentagono, che se ne serve per la guerra in Afghanistan e come postazione avanzata del Comando centrale. Non stupisce quindi che Washington abbia dato a questa monarchia del Golfo l’incarico di fiducia di infiltrare in Libia commandos che, addestrati e diretti dal Pentagono, si possono meglio camuffare da ribelli libici grazie alla lingua e all’aspetto. Il Qatar ha anche il compito di rifornire i ribelli: un suo aereo è stato recentemente visto a Misurata, dove ha trasportato un grosso carico di armi. Da fonti attendibili risulta che, insieme a quelle del Qatar, operino in Libia anche forze speciali giordane e probabilmente anche di altri paesi arabi. Va ricordato che negli Emirati arabi uniti sta nascendo un esercito segreto che può essere impiegato anche in altri paesi arabi del Medio Oriente e Nordafrica (v. il manifesto del 18/5).
Mentre prosegue gli attacchi aerei per spianare la strada ai ribelli, la Nato conduce sul terreno una guerra segreta per assicurarsi che, nella Libia del dopo-Gheddafi, il potere reale sia nelle mani delle potenze occidentali, affiancate dalle monarchie del Golfo. In quel caso le forze speciali alzeranno la bandiera del peacekeeping e indosseranno i caschi blu.

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Dal Corriere della sera

Quattro giornalisti italiani
nelle «mani» dei lealisti: ucciso l’autista

Fermati da un gruppo di civili e poi consegnati ai militari fedeli a Gheddafi. Sono ora in una casa privata

MILANO – Bloccati da una banda armata, sequestrati e tenuti in una casa privata. Quattro giornalisti italiani sono finiti nelle mani di miliziani libici, in apparenza lealisti, nella mattinata di mercoledì. Due inviati del Corriere della Sera, Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, uno della Stampa, Domenico Quirico, e uno di Avvenire, Claudio Monici, stavano viaggiando sulla stessa auto tra Zawiyah e Tripoli (80 chilometri dalla capitale), quando un gruppo di civili li ha bloccati, uccidendo l’autista che li accompagnava. La notizia del sequestro è stata confermata dalla Farnesina.

HANNO CHIAMATO – Due dei quattro reporter italiani rapiti hanno chiamato casa: lo scrive nella notte il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli in un suo tweet. Si tratta di Claudio Monici, di Avvenire, e Domenico Quirico, de La Stampa.

RAPITI – I giornalisti sono stati derubati di tutto quello che avevano, compresi i telefoni satellitari. La banda di civili, dopo aver malmenato i reporter, li ha consegnati a un gruppo di militari fedeli a Gheddafi che li hanno portati in una casa privata. Solo nel primo pomeriggio il giornalista di Avvenire ha potuto comunicare con l’Italia, parlando con la madre e con il proprio giornale raccontando in maniera sommaria l’accaduto e dando assicurazioni sullo stato di salute dei quattro giornalisti. Poi qualsiasi comunicazione si è interrotta. «Ci ha raccontato che sono stati presi, rapinati di tutto e che forse era stato ucciso il loro autista – riferiscono da Avvenire -. Secondo quanto abbiamo potuto capire, sarebbero stati rapiti da civili, che poi li hanno passati a militari, presumibilmente lealisti». I colleghi di Avvenire raccontano il breve contatto con Monici: una telefonata di circa cinque minuti, avvenuta attraverso un telefono satellitare del proprietario della casa nella quale sono detenuti. «Avevo sentito Claudio stamattina alle 10 – racconta ancora un collega della redazione esteri -, avevamo concordato il pezzo. Non sapeva ancora se sarebbero andati a Tripoli, perché c’era il problema di trovare un autista fidato». Nella telefonata successiva al sequestro, comunque, sottolineano ancora ad Avvenire, «Claudio non era trafelato, aveva la voce ferma: d’altronde lui di queste situazioni ne ha vissute parecchie». Poco prima della mezzanotte si è poi saputo che anche Domenico Quirico è riuscito a telefonare a casa in Italia e a rassicurare sulle condizioni sue e degli altri tre rapiti.

IN CONTATTO CON IL CONSOLE – «I quattro si trovano in un appartamento a Tripoli, tra Bab Al-Aziziya e l’Hotel Rixos»: così rassicura il console di Bengasi Guido De Sanctis, dopo essere riuscito a mettersi in contatto con uno dei giornalisti. Gli inviati «stanno bene» e hanno fatto sapere, nella telefonata, che al termine del Ramadan «sono stati anche rifocillati con cibo e acqua». Dall’appartamento, ha aggiunto, si vede un noto centro commerciale di proprietà della figlia di Gheddafi.

APPELLO UE – «Auspichiamo che i giornalisti italiani rapiti siano rilasciati sani e salvi il prima possibile». È l’appello lanciato dall’Ue per bocca del portavoce dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza comune Catherine Ashton. Il rapimento dei quattro cronisti italiani in Libia «è una notizia davvero molto preoccupante», ha sottolineato Michael Mann, ricordando che per Bruxelles i giornalisti presenti sul posto «stanno facendo un lavoro estremamente coraggioso e dovrebbe essere permesso loro di svolgerlo in sicurezza». La Presidenza del Consiglio, fa sapere con una nota Palazzo Chigi, è in continuo contatto con la Farnesina, segue di minuto in minuto la vicenda. Grande preoccupazione e fiducia ha espresso Franco Siddi, segretario della Fnsi, che ha annunciato di avere attivato contatti con la sezione araba della Federazione internazionale della stampa.

 

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da La Stampa

La guerra dei giornalisti

Domenico Quirico, giornalista de «La Stampa», ex corrispondente da Parigi.

FRANCESCO MOSCATELLI

«Ore 4.52 p.m. La crisi è finita. Tutti i giornalisti sono fuori!». Le diplomazie e le redazioni di mezzo mondo, nel leggere l’umanissimo e poco giornalistico punto esclamativo con cui l’inviato di guerra della Cnn Matthew Chance concludeva la sua corrispondenza via Twitter dall’hotel Rixos, avevano tirato un sospiro di sollievo.

La giornata nera dei giornalisti, in Libia, era cominciata bene. Prima che un gruppo di banditi sequestrasse quattro inviati italiani (Domenico Quirico de La Stampa, Claudio Monici di Avvenire, Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera), uccidendo il loro autista per poi «venderli» a un gruppo di soldati fedeli al raiss, si era infatti appena conclusa positivamente l’odissea di 36 loro colleghi dei principali media internazionali. Che da quattro giorni erano prigionieri all’interno dell’hotel Rixos, nel centro di Tripoli. Per i giornalisti rinchiusi nell’albergo, infatti, sono state giornate di paura, scandite dai colpi di mortaio e dalle esplosioni che rimbombavano al di fuori dell’edificio: al Rixos, abbandonato dal personale ma scelto come base logistica dai soldati lealisti che giravano armati di kalashnikov per i corridoi, mancavano acqua ed elettricità. Nelle ultime 24 ore anche il cibo. I giornalisti, inoltre, sono stati costretti a tappare le finestre delle camere con i materassi per evitare il rischio di proiettili vaganti. «Nei giorni in cui siamo rimasti rinchiusi nel Rixos, vi sono stati momenti di tensione, ma c’è stata anche molta solidarietà – ha raccontato dopo la liberazione Rolando Segura, inviato della tv statale venezuelana Telesur -. Nelle ultime ore avevamo approntato un piano per impossessarci delle auto che erano state abbandonate fuori dell’hotel, per recarci alle rispettive ambasciate, ma poi è arrivata la Croce Rossa». E tutti hanno ripreso fiato.

La tranquillità, negli uffici di «Reporters sans frontières», l’organizzazione internazionale per la difesa della libertà di stampa fondata nel 1985, è durata poco. E pensare che Rsf aveva appena lanciato un appello per invitare le «parti coinvolte a garantire la sicurezza dei giornalisti, sia libici che stranieri, che stanno seguendo le vicende libiche».

Intorno alle 19 sono arrivate altre cattive notizie: la prima è che due giornalisti francesi sono rimasti feriti a Tripoli negli scontri intorno al quartier generale di Gheddafi. Non sarebbero in pericolo di vita. Lo hanno riferito le due testate per cui lavorano, l’emittente televisiva pubblica France 2 e il settimanale Paris Match, precisando che i due saranno presto rimpatriati. Bruno Girodon, cameraman di France 2, è stato colpito da una pallottola mentre faceva riprese nei pressi del complesso di Bab al-Aziziya. Alvaro Canovas, fotografo di Paris Match, è stato colpito da un proiettile di kalashnikov alla coscia, durante l’ingresso dei ribelli nel compound.

La seconda è quella del rapimento dei quattro colleghi italiani. A darla è stato uno di loro, l’inviato di Avvenire Claudio Monici. I suoi sequestratori gli hanno permesso infatti di fare diverse telefonate, per informare il suo giornale e l’Italia dell’accaduto. È stato lui stesso a chiarire che si trovava con Domenico Quirico, Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina a bordo di un’auto, quando qualcuno li ha fermati e, dopo averli rapinati e malmenati, li ha consegnati ai soldati lealisti. Il console italiano a Bengasi, Guido De Sanctis, dopo essere riuscito a mettersi in contatto con loro, ha detto che stanno bene. «Al termine del digiuno quotidiano del Ramadan – ha spiegato il diplomatico, che sta seguendo il rapimento in stretto contatto con la Farnesina – sono stati rifocillati con cibo e acqua». I reporter sarebbero imprigionati in un appartamento che si trova fra Bab Al-Aziziya e l’Hotel Rixos, da cui si vede un noto centro commerciale di proprietà della figlia di Gheddafi, Aisha. De Sanctis ha aggiunto che il fatto che al giornalista sia stato concesso di fare più di una telefonata «può essere interpretato come un buon segno».

 

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