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Libia, affari ed equilibri di potere

Ma intanto si assestano poteri, di confermano o riscrivono contratti di sfruttamento, un’elite esplicitamente a disposizione del neo-colonialismo europeo – più ancora che statunitense – si accomoda guardinga su poltrone che aveva già occupato al finaco di Gheddafi.

Vi proponiamo alcuni articoli che, abbassatasi la retorica del “salviamo i civili”, danno conto della realtà attuale soprattutto futura.

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Maurizio Matteuzzi
DOPO LA GUERRA UMANITARIA Il Cnt: 20 mesi di transizione democratica. Il premier inglese euforico
«Pronti a usare di nuovo la forza»

Nicolas Sarkozy l’aveva già detto giovedì sera a Parigi a conclusione della kermesse soldi-democrazia fra «gli amici della Libua»: con la guerra umanitaria contro Gheddafi siamo entrati in «una fase nuova», quella in cui l’intervento militare dell’occidente (ex, post colonialista) è «al servizio del popolo». Il dado è tratto, la strada è (ri)aperta. Ieri ci ha pensato il premier inglese David Cameron a ribadirlo in termini thatcheriani (o blairiani, che poi non fa molta differenza): Gheddafi era «un mostro» e «il mondo sarebbe migliore senza Gheddafi» – le stesse parole e ragioni etiche che spinsero il laburista Tony Blair a giustificare l’attacco del 2003 contro l’Iraq di Saddam. Quindi, qui sta la morale della «nuova fase», Cameron si è detto pronto a usare di nuovo la forza. A due condizioni: una, che l’uso della forza sia «moralmente giustificato» e, due, che ci sia l’appoggio «della comunità internazionale». Et voilà. Avanti il prossimo (la Siria? l’Iran?).
La spartizione della grande torta libica è cominciata a Parigi ancor prima che la guerra in Libia sia finita. Gheddafi, per quanto ancora introvavile, è sconfitto, Tripoli ritorna poco a poco alla «normalità» ma la Nato sostiene che la sua «missione» non è ancora conclusa (per questo continua a battere l’assediata Sirte, l’ultimo fra i principali bastioni gheddafisti, dove secondo voci per ora incontrollabili e in ogni caso inascoltate, le bombe e i missili starebbero facendo carne di porco della popolazione civile). In attesa o della resa dei gheddafiani o dell’attacco finale degli insorti che, nonostante la liquefazione del regime hanno ancora bisogno – come è stato per la «liberazione» di Tripoli – dell’aiuto fraterno della Nato per vincere anche gli ultimi fuochi di resistenza.
Gli insorti, il governo (in pratica costituito solo dal «presidente» Abdel-Jalil e dal «premier» Jibril) e il misterioso Cnt (di cui si annuncia da giorni il trasferimento a Tripoli ma che resta sempre, «per ragioni di sicurezza», a Bengasi) hanno ottenuto la patente democratica da parte dell’occidente ma i dubbi e le inquietudini non mancano. Ieri il Cnt ha rivelato la sua «roadmap» verso la «nuova Libia» democratica: «un periodo di transizione di 20 mesi», fra 8 mesi elezioni per una costituente dei 200 membri che dovranno redigere la nuova costituzione da approvare con un referendum popolare e poi nell’arco di un altro anno elezioni parlamentari e presidenziali. All’inizio del 2013 i giochi saranno fatti.
Forse a livello economico ci vorrà meno tempo. Dopo l’annuncio, rivelato da Libération, dell’accordo Cnt-Francia che garantisce ai francesi il 35% del petrolio libico, le smentite sono state labili. Anche se Gaddur, il vecchio-nuovo ambasciatore libico in Italia, si dà da fare per smentirlo («A me non risulta», «un’invenzione giornalistica»). Poi c’è sempre il fantasma islamista che incombe sull’anima occidentalizzante del Cnt. Quell’Abdul Hakim al-Hasadi, capo del neonato Tripoli Military Council, e quell’altro Abdelhakim Belhaj, l’uomo che ha guidato le milizie berbere alla conquista del compound gheddafiano di Bab al-Aziziya e che è un esponente di spicco dell’ala militare del Cnt…, entrambi combattenti in Afghanistan con i mujaheddin impegnati a cacciare i sovietici, fondatori del Gruppo islamico di combattimenti libico (Lifg), entrambi per un certo periodo assai vicini a al Qaeda. Adesso dicono che loro mai e poi mai… e (intervista di ieri al Washington post di Belhaj) pieno sostegno alla transizione verso una Libia democratica e di mercato.
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Tommaso Di Francesco
DOPO PARIGI
Il lamento della Libia

Ma non bisognava proteggere i civili?
Invece la conferenza di Parigi, piuttosto che un preoccupato vertice della comunità internazionale è apparso come il pranzo di gala a casa dell’ospite vincitore Sarkozy, senza alcun ruolo delle Nazioni unite e addirittura senza gli Stati uniti nella conferenza stampa conclusiva. Che ha ribadito che la guerra dell’Alleanza atlantica continua, l’obiettivo resta prendere Gheddafi vivo o morto e «pacificare» il paese.
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Ma non bisognava consegnarE Gheddafi al Tribunale penale internazionale, come avevano chiesto gli Stati uniti che pure quel tribunale non riconoscono?
Si apre così ora la spartizione del ricco bottino libico, si precipitano anche Germania, Russia e Cina, prima contrarie e dubbiose sulla guerra. Unico interlocutore il Cnt di Bengasi, un governo che se è mai esistito, adesso non esiste più, si è autodimissionato dopo la crisi di fine luglio che ha visto l’assassinio «intestino» del capo militare degli insorti Younes, e ora è ridotto a due soli rappresentanti, il «premier» Jibril e il «presidente» Jalil, entrambi già ministri del regime di Gheddafi. Che ora decidono su tutto. La voce che il 35% del petrolio e gas della Libia sarà concesso per la prima volta alla Francia è una certezza, comincia lo sblocco dei fondi sovrani investiti all’estero, già si parla di consiglieri e basi britanniche, di nuove commesse militari, delle multinazionali impegnate sulle ricchezze del sottosuolo, a partire dall’acqua. La coalizione anglofrancese la fa da padrona, diementicando il summit si è svolto nella stessa area monumentale parigina dove il raìs libico piantò la tenda nel 2007 dopo essere stato abbracciato da Sarkozy. E l’Italia del voltafaccia che con Berlusconi baciava le mani al tiranno e con Frattini lo elogiava come «esempio per tutta l’Africa», è corsa sul carro della vittoria. Per salvaguardare i due «affari» che contano, il petrolio e il contenimento dell’immigrazione africana. E il Cnt garantisce su tutto, anzi ha ri-sottoscritto con l’Italia lo stesso Trattato anti-immigrazione che il colonnello libico aveva alla fine accettato e che prevede i famigerati campi di concentramento per i disperati in fuga dalla miseria africana. Ora l’Eni, con lo stesso Scaroni protagonista di tanti rapporti con il regime di Gheddafi, sostiene che «la Libia sarà più ricca». Ci sono i dati dell’ultimo rapporto Censis sul Mediterraneo che dicono che il reddito dei libici, finora, era tre volte quello della Tunisia e del Marocco, quattro volte quello dell’Egitto e probabilmente tra i più alti, se non il più alto dell’Africa. Bisognerà tornare tra due anni a chiedere a Scaroni a quanto ammonterà la nuova ricchezza della Libia.
Con la guerra non si esporta la democrazia. Era già chiaro e vero per l’Iraq di Saddam Hussein che, come tiranno, era sicuramente peggio di Gheddafi, resta confermato per la Libia. Con la guerra si esporta solo il dominio sulle risorse nell’epoca della crisi. E nel Medio Oriente mediterraneo la guerra ha contribuito a congelare, a sospendere le «primavere» arabe in una situazione d’incertezza, sotto l’incombere di un ruolo predominante dei militari e delle forze tradizionaliste dei vari paesi, in un contesto di conflitto armato dentro i confini della stessa crisi. Pregiudicando una soluzione politica al dramma sanguinoso che si consuma in Siria.
Ma non bisognava proteggere i civili? Perché i pogrom contro gli immigrati neri, accusati di essere stati «mercenari» al soldo del tiranno continuano per le strade e le città libiche ed è legittimo chiedere che fine abbiano fatto quelle centinaia di persone finite nelle nuove galere. In Libia prima della guerra c’erano quasi un milione e mezzo di immigrati, che lavoravano. Ne sono fuggiti, per paura della guerra e delle sue conseguenze, nella piccola e povera Tunisia, almeno 700.000. Altre decine di migliaia hanno raggiunto l’Italia e Malta. Il resto è rimasto in Libia. Chi protegge questi civili? Nessuno. Eppure l’agenzia dell’Onu per gli immigrati – l’Oim, che non sa quando partirà la prossima nave per portarne una parte in salvo -, la Croce rossa internazionale, Amnesty e Human Right Watch raccontano di violenze indiscriminate, di uccisioni, di esecuzioni sommarie, di arresti in massa e lo stesso Foreign Office ha denunciato stragi di civili «lealisti» a Zawiya.
Viene dalla Libia un lamento flebile, distante, ma straziante, insistente e doloroso. Basta saperlo ascoltare. E’ quello delle centinaia di migliaia di migranti africani o neri libici disprezzati dagli insorti «libici doc», è quello dei vinti, ora assediati a Sirte o sotto minaccia di una condizione che durerà stagioni di assenza di legge e diritto, è il pianto silenzioso di tutti quelli che – e sono la maggioranza – non hanno combattuto né da una parte né dall’altra e vedono il loro paese in brandelli.
Noi siamo stati contro l’ennesima invenzione di una guerra «umanitaria», ma ora sarebbe giusto che una forza di pace, di peace-keeping, i tanto disprezzati caschi blu delle Nazioni unite, intervenisse al più presto. Lo ha fatto intendere lo stesso inviato dell’Onu, parlando di corridoi umanitari, di forze di interposizione capaci di fermare la legge delle vendetta e costruire un futuro per ora improbabile. Ma siccome l’Onu non a caso proprio nella globalizzazione non esiste più, non rappresentando davvero un consesso di nazioni aventi eguale diritto internazionale, nessuno solleva questa necessità. Peraltro respinta subito dai rappresentanti degli insorti, che si avviano ad un duro confronto interno – racconta l’International Herald Tribune – tra un’ala filo-atlantica (ma basta perché siano «democratici»?), una islamico-radicale, una più credibile e veridica senussita dei combattenti del Jebel che denuncia le strumentalità, anche militari, della leadership screditata di Bengasi.
Si vedono solo le vittime e le ferite, vecchie, quelle inferte dal raìs, e quelle nuovissime e non meno sanguinose, di cui sono protagonisti gli insorti e la «nostra» Nato con la guerra aerea per «proteggere i civili».

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Anna Maria Merlo – PARIGI
Libia
Parigi guida l’arraffa-arraffa
Qualche imbarazzo, ma neanche tanto, per la lettera pubblicata da Libération in cui il Cnt garantisce alla Francia il 35% del petrolio libico (con Gheddafi aveva il 3.5%) Sarkozy mena le danze e riceve gli «amici» della «nuova Libia». 57 delegazioni e paesi ma Cina e Russia mandano comparse e il Sudafrica nessuno. Frattini sogna e assicura che «non c’è nessuna corsa per chi arriva prima» nell’eldorado petrolifero libico

Nicolas Sarkozy, in co-presidenza con David Cameron, delinea i contorni della «nuova Libia», con una conferenza internazionale degli «amici», a cui hanno partecipato 57 delegazioni. Nel giorno anniversario della presa di potere di Gheddafi 42 anni fa, cinque mesi dall’inizio dell’intervento Nato, il pomeriggio è iniziato con una riunione ristretta dei paesi, Italia compresa, più implicati in Libia. Ha poi fatto seguito la riunione plenaria, dove a fianco di 12 capi di stato, 17 primi ministri, una ventina di ministri degli esteri (per gli Usa c’era Hillary Clinton) e 8 organizzazioni internazionali (dalla Ue alla Lega araba) la Cina e la Russia erano rappresentante in tono minore, rispettivamente dal vice-ministro degli esteri e da un semplice senatore. Per Pechino e Mosca è stato questo un modo per significare che rimangono forti reticenze rispetto alla gestione degli occidentali. La Germania, invece, che si era astenuta al voto della risoluzione 1973 all’Onu e non ha partecipato all’intervento, ieri a Parigi con Angela Merkel è rientrata a pieno titolo nel gioco. Invece, il Sudafrica non è venuto a Parigi (come Israele, pare non invitato). Era presente l’Algeria, che pure non ha riconosciuto il Cnt.
Ufficialmente, Sarkozy ha convocato la conferenza mentre l’intervento non è ancora finito e la guerra civile continua, per «ascoltare» il Cnt, che ieri anche la Russia ha riconosciuto come legittimo rappresentante del popolo libico, in vista degli «aiuti» da devolvere al paese. La Francia, con questa conferenza, mira alla dissoluzione del «gruppo di contatto» nato nel marzo 2011 per l’intervento Nato, per sostituirlo con il gruppo allargato di «amici della Libia». Per il Cnt e il presidente Abdel Jalil è stata l’occasione di avere una tribuna internazionale, mentre per Parigi è anche un modo per legittimare a posteriori l’intervento, annunciato il 19 marzo scorso sempre all’Eliseo. Sarkozy ha anche un’altra arrière pensée: se la transizione si rivelerà caotica, ormai la responsabilità della situazione non è più solo sulle spalle di Francia e Gran Bretagna, i due paesi che hanno spinto di più per l’intervento, ma di tutta la comunità internazionale, ampiamente rappresentata alla conferenza.
Il tema principale della riunione che ha avuto luogo a porte chiuse è stato quello economico. Il Cnt preme per uno sblocco rapido degli averi libici, una cinquantina di miliardi di dollari congelati dalle sanzioni della risoluzione Onu 1970. Ma Russia e Cina frenano e legano il loro consenso alla revoca anche dell’altra risoluzione, la 1973, che ha permesso l’intervento. C’è poi il timore che questi soldi non servano solo per rilanciare l’attività e per scopi umanitari, ma finiscano in acquisti di armi incontrollati. Per il momento, gli sblocchi, al contagocce, avvengono caso per caso, grazie a dure trattative in sede Onu tra chi vorrebbe andare più in fretta e Russia e Cina, oltre ad alcuni emergenti (Sudafrica, India, Brasile), che frenano. La Francia ha sbloccato 1,5 miliardi di averi libici (sui 7,5 miliardi libici che si trovano nelle casse delle banche francesi). La Gran Bretagna ha già fatto pervenire dei soldi di Gheddafi ai ribelli, sbloccando, grazie al superamento del veto cinese, 1,6 miliardi di dollari. 1,5 miliardi sono stati sbloccati dagli Usa. L’Olanda chiede lo sblocco di 2 miliardi di euro per la «ricostruzione».
L’Italia è al traino, sembra che ci sia l’intenzione di sbloccare 500 milioni, ma le pratiche richieste non sono ancora state espletate. Dietro le parole incoraggianti sulla «nuova Libia», ci sono difatti gli affari. La Gran Bretagna ha inviato a giugno nella Libia liberata degli esperti in ricostruzione, per piazzare le proprie imprese. L’Eni lunedì ha firmato un accordo con il Cnt per riprendere l’attività e Frattini si consola dicendo che «non c’è una corsa per sapere chi arriva primo in Libia».
Ma Roma teme di perdere il ruolo di primo produttore straniero di idrocarburi in Libia con la fine del regime di Gheddafi. Ieri, sia l’inviato speciale del Cnt a Parigi, Saif al-Wasr che il ministro degli esteri Alain Juppé hanno affermato di non essere a conoscenza dell’accordo segreto che, stando a una lettera pubblicata in fac simile da Libération, la Francia avrebbe concluso con i ribelli nell’aprile scorso: il Cnt si sarebbe impegnato ad attribuire il 35% del greggio libico a società francesi, che con Gheddafi erano solo al 3,5%, in cambio del completo appoggio francese alla loro causa. Christophe de Margerie, presidente di Total, minimizza e parla di «discussioni tecniche», ma il ministro dell’industria, Eric Besson, non giudica «choccante» che «la Francia sia ricompensata» per aver preso la testa dell’intervento.
Intanto, ieri la Ue ha annullato una parte delle sanzioni, contro 28 «entità economiche», tra porti, banche e società del settore energetico libico.

da “il manifesto del 2 e 3 settembre 2011

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