Stefano Liberti
LIBIA
Ribelli contro ribelli: 12 morti
Crepe nel Cnt, mentre resiste una roccaforte di Gheddafi e il figlio Saadi fugge in Niger
Bani Walid non cade. Nonostante l’avanzata iniziale dei ribelli – e i raid aerei condotti dalla Nato – la cittadina a 180 chilometri da Tripoli rimane sotto il controllo dei soldati lealisti. Ieri sono continuati gli attacchi e le ritirate tattiche (per permettere ai bombardieri Nato di entrare in azione), ma in serata la città non era ancora espugnata.
La resistenza di Bani Walid – città strategica perché posta all’incrocio delle strade che da Tripoli e Misurata si dirigono verso sud – ha preso alla sprovvista i combattenti afferenti al Consiglio nazionale di transizione (Cnt) che, scaduto l’ultimatum sabato scorso, si erano detti convinti di poterla conquistare in 48 ore. Abitata prevalentemente da membri della tribù warfallah, a lungo alleata del regime, Bani Walid è probabilmente destinata a cadere nei prossimi giorni, anche se stupisce una resistenza molto più accanita di quella che si è registrata nell’attacco alla capitale Tripoli. Probabilmente al suo interno si sono rifugiati gli ultimi elementi più estremisti del regime, che non hanno voluto capitolare, fra cui Seif el Islam Gheddafi, il secondogenito del colonello trasformatosi dopo la rivolta di febbraio da riformatore a hard-liner.
Nel frattempo continua l’emorragia di pezzi importanti del gheddafismo. Domenica a Tripoli è stato catturato – o si è consegnato, la dinamica non è chiara – Bouzaid Dorda, capo del servizio di intelligence estera nonché ex primo ministro. Nello stesso tempo un altro figlio di Gheddafi, Saadi, ha sconfinato in Niger – circostanza confermata dal governo di Niamey. Ex calciatore, playboy, poi produttore hollywoodiano, Saadi si era caratterizzato in questi mesi come il figlio sempre a caccia di negoziati o di compromessi con i ribelli. Andato a Bangasi subito dopo lo scoppio della rivolta di febbraio, aveva cercato di convincere le folle che il padre era intenzionato a promuovere sviluppo e aperture democratiche, salvo venire smentito poco dopo dallo stesso colonnello, che promise in un discorso divenuto celebre una «caccia ai topi casa per casa, strada per strada». Anche dopo la caduta di Tripoli, Saadi aveva contattato il Cnt per offrire un negoziato (questa volta da una posizione assai più debole), nello stesso momento in cui il fratello Seif El Islam farneticava di un’imminente contro-offensiva che avrebbe riportato al potere il padre.
Per quanto velletario e poco influente all’interno della sua stessa famiglia e dell’establishment gheddafiano, Saadi ha cercato in questi mesi di mostrarsi come il volto accettabile del regime. La sua fuoriuscita dal paese è un’ulteriore dimostrazione che gli elementi più oltranzisti hanno deciso di combattere fino all’ultimo, a partire dalle roccaforti che ancora controllano – Bani Walid, Sirte e la città sahariana di Sebha. Lo stesso Gheddafi lo ha ribadito ieri nell’ennesimo messaggio, consegnato come d’abitudine all’emittente ar-Rai, con sede a Damasco. «Il popolo non ha che una scelta da fare, quella di respingere questo golpe, perché non possiamo sottometterci alla Francia. Non possiamo consegnare la Libia ai colonizzatori un’altra volta e non ci resta che combattere fino alla vittoria e sconfiggere questo complotto», ha detto l’ormai ex rais.
Intanto, nell’attesa di assumere il controllo di tutto il paese, anche il fronte ribelle comincia a mostrare le prime crepe. L’altroieri c’è stato uno scontro tra gruppi rivali. Secondo quanto riporta il giornale arabo al-Sharq al-Awsat, due diverse fazioni ribelli si sono affrontate a colpi d’arma da fuoco sui monti del Nefusa, da dove è partita la conquista di Tripoli per cacciare Gheddafi. Ad affrontarsi da un lato i ribelli dei villaggi di Gharyan e Kakla e dall’altro quelli di al-Asabaa. Negli scontri si sono registrati 12 morti.
Nei giorni scorsi sono arrivati a Tripoli i membri più eminenti del Cnt, dal premier transitorio Mahmoud Jibril al presidente (anche lui transitorio) Mustafa Abdel Jalil. Jibril ha detto che un nuovo governo sarà annunciato entro i prossimi dieci giorni e si è sforzato di negare le voci di fratture all’interno della compagine ribelle – in particolare tra gli ex gheddafiani, di cui lui è parte, e gli islamisti che fanno capo a Abdel Hakim Belhaj, comandante generale militare di Tripoli.
La resistenza di Bani Walid – città strategica perché posta all’incrocio delle strade che da Tripoli e Misurata si dirigono verso sud – ha preso alla sprovvista i combattenti afferenti al Consiglio nazionale di transizione (Cnt) che, scaduto l’ultimatum sabato scorso, si erano detti convinti di poterla conquistare in 48 ore. Abitata prevalentemente da membri della tribù warfallah, a lungo alleata del regime, Bani Walid è probabilmente destinata a cadere nei prossimi giorni, anche se stupisce una resistenza molto più accanita di quella che si è registrata nell’attacco alla capitale Tripoli. Probabilmente al suo interno si sono rifugiati gli ultimi elementi più estremisti del regime, che non hanno voluto capitolare, fra cui Seif el Islam Gheddafi, il secondogenito del colonello trasformatosi dopo la rivolta di febbraio da riformatore a hard-liner.
Nel frattempo continua l’emorragia di pezzi importanti del gheddafismo. Domenica a Tripoli è stato catturato – o si è consegnato, la dinamica non è chiara – Bouzaid Dorda, capo del servizio di intelligence estera nonché ex primo ministro. Nello stesso tempo un altro figlio di Gheddafi, Saadi, ha sconfinato in Niger – circostanza confermata dal governo di Niamey. Ex calciatore, playboy, poi produttore hollywoodiano, Saadi si era caratterizzato in questi mesi come il figlio sempre a caccia di negoziati o di compromessi con i ribelli. Andato a Bangasi subito dopo lo scoppio della rivolta di febbraio, aveva cercato di convincere le folle che il padre era intenzionato a promuovere sviluppo e aperture democratiche, salvo venire smentito poco dopo dallo stesso colonnello, che promise in un discorso divenuto celebre una «caccia ai topi casa per casa, strada per strada». Anche dopo la caduta di Tripoli, Saadi aveva contattato il Cnt per offrire un negoziato (questa volta da una posizione assai più debole), nello stesso momento in cui il fratello Seif El Islam farneticava di un’imminente contro-offensiva che avrebbe riportato al potere il padre.
Per quanto velletario e poco influente all’interno della sua stessa famiglia e dell’establishment gheddafiano, Saadi ha cercato in questi mesi di mostrarsi come il volto accettabile del regime. La sua fuoriuscita dal paese è un’ulteriore dimostrazione che gli elementi più oltranzisti hanno deciso di combattere fino all’ultimo, a partire dalle roccaforti che ancora controllano – Bani Walid, Sirte e la città sahariana di Sebha. Lo stesso Gheddafi lo ha ribadito ieri nell’ennesimo messaggio, consegnato come d’abitudine all’emittente ar-Rai, con sede a Damasco. «Il popolo non ha che una scelta da fare, quella di respingere questo golpe, perché non possiamo sottometterci alla Francia. Non possiamo consegnare la Libia ai colonizzatori un’altra volta e non ci resta che combattere fino alla vittoria e sconfiggere questo complotto», ha detto l’ormai ex rais.
Intanto, nell’attesa di assumere il controllo di tutto il paese, anche il fronte ribelle comincia a mostrare le prime crepe. L’altroieri c’è stato uno scontro tra gruppi rivali. Secondo quanto riporta il giornale arabo al-Sharq al-Awsat, due diverse fazioni ribelli si sono affrontate a colpi d’arma da fuoco sui monti del Nefusa, da dove è partita la conquista di Tripoli per cacciare Gheddafi. Ad affrontarsi da un lato i ribelli dei villaggi di Gharyan e Kakla e dall’altro quelli di al-Asabaa. Negli scontri si sono registrati 12 morti.
Nei giorni scorsi sono arrivati a Tripoli i membri più eminenti del Cnt, dal premier transitorio Mahmoud Jibril al presidente (anche lui transitorio) Mustafa Abdel Jalil. Jibril ha detto che un nuovo governo sarà annunciato entro i prossimi dieci giorni e si è sforzato di negare le voci di fratture all’interno della compagine ribelle – in particolare tra gli ex gheddafiani, di cui lui è parte, e gli islamisti che fanno capo a Abdel Hakim Belhaj, comandante generale militare di Tripoli.
da “il manifesto” del 13 settembre 2011
*****
Manlio Dinucci
Dopo le bombe, arriva il Fmi a «ricostruire»
Al termine del G8 di Marsiglia, la neodirettrice del Fondo monetario internazionale, la francese Christine Lagarde, ha fatto un solenne annuncio: «Il Fondo riconosce il consiglio di transizione quale governo della Libia ed è pronto, inviando appena possibile il proprio staff sul campo, a fornirgli assistenza tecnica, consiglio politico e sostegno finanziario per ricostruire l’economia e iniziare le riforme».
Nessun dubbio, in base alla consolidata esperienza del Fmi, che le riforme significheranno spalancare le porte alle multinazionali, privatizzare le proprietà pubbliche e indebitare l’economia. A iniziare dal settore petrolifero, in cui l’Fmi aiuterà il nuovo governo a «ripristinare la produzione per generare reddito e ristabilire un sistema di pagamenti».
Le riserve petrolifere libiche – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale sono già al centro di un’aspra competizione tra gli «amici della Libia». L’Eni ha firmato il 29 agosto un memorandum con il Cnt di Bengasi, al fine di restare il primo operatore internazionale di idrocarburi in Libia. Ma il suo primato è insidiato dalla Francia: il Cnt si è impegnato il 3 aprile a concederle il 35% del petrolio libico. E in gara ci sono anche Stati uniti, Gran Bretagna, Germania e altri. Le loro multinazionali otterranno le licenze di sfruttamento a condizioni molto più favorevoli di quelle finora praticate, che lasciavano fino al 90% del greggio estratto alla compagnia statale libica. E non è escluso che anche questa finisca nelle loro mani, attraverso la privatizzazione imposta dal Fmi.
Oltre che all’oro nero le multinazionali europee e statunitensi mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad.
Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato la Libia, che ha costruito una rete di acquedotti lunga 4mila km (costata 25 miliardi di dollari) per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1.300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere (Bengasi è stata tra le prime) e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre desertiche. Non a caso, in luglio, la Nato ha colpito l’acquedotto e distrutto la fabbrica presso Brega che produceva i tubi necessari alle riparazioni. Su queste riserve idriche vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi – le multinazionali dell’acqua, soprattutto quelle francesi (Suez, Veolia e altre) che controllano quasi la metà del mercato mondiale dell’acqua privatizzata.
A riparare l’acquedotto e altre infrastrutture ci penseranno le multinazionali statunitensi, come la Kellogg Brown & Root, specializzate a ricostruire ciò che le bombe Usa/Nato distruggono: in Iraq e Afghanistan hanno ricevuto in due anni contratti per circa 10 miliardi di dollari.
L’intera «ricostruzione», sotto la regia del Fmi, sarà pagata con i fondi sovrani libici (circa 70 miliardi di dollari più altri investimenti esteri per un totale di 150), una volta «scongelati», e con i nuovi ricavati dall’export petrolifero (circa 30 miliardi annui prima della guerra). Verranno gestiti dalla nuova «Central Bank of Libya», che con l’aiuto del Fmi sarà trasformata in una filiale della Hsbc (Londra), della Goldman Sachs (New York) e di altre banche multinazionali di investimento. Esse potranno in tal modo penetrare ancor più in Africa, dove tali fondi sono investiti in oltre 25 paesi, e minare gli organismi finanziari indipendenti dell’Unione africana – la Banca centrale, la Banca di investimento e il Fondo monetario – nati soprattutto grazie agli investimenti libici. La «sana gestione finanziaria pubblica», che l’Fmi si impegna a realizzare, sarà garantita dal nuovo ministro delle finanze e del petrolio Ali Tarhouni, già docente della Business School dell’Università di Washington, di fatto nominato dalla Casa bianca.
Nessun dubbio, in base alla consolidata esperienza del Fmi, che le riforme significheranno spalancare le porte alle multinazionali, privatizzare le proprietà pubbliche e indebitare l’economia. A iniziare dal settore petrolifero, in cui l’Fmi aiuterà il nuovo governo a «ripristinare la produzione per generare reddito e ristabilire un sistema di pagamenti».
Le riserve petrolifere libiche – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale sono già al centro di un’aspra competizione tra gli «amici della Libia». L’Eni ha firmato il 29 agosto un memorandum con il Cnt di Bengasi, al fine di restare il primo operatore internazionale di idrocarburi in Libia. Ma il suo primato è insidiato dalla Francia: il Cnt si è impegnato il 3 aprile a concederle il 35% del petrolio libico. E in gara ci sono anche Stati uniti, Gran Bretagna, Germania e altri. Le loro multinazionali otterranno le licenze di sfruttamento a condizioni molto più favorevoli di quelle finora praticate, che lasciavano fino al 90% del greggio estratto alla compagnia statale libica. E non è escluso che anche questa finisca nelle loro mani, attraverso la privatizzazione imposta dal Fmi.
Oltre che all’oro nero le multinazionali europee e statunitensi mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad.
Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato la Libia, che ha costruito una rete di acquedotti lunga 4mila km (costata 25 miliardi di dollari) per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1.300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere (Bengasi è stata tra le prime) e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre desertiche. Non a caso, in luglio, la Nato ha colpito l’acquedotto e distrutto la fabbrica presso Brega che produceva i tubi necessari alle riparazioni. Su queste riserve idriche vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi – le multinazionali dell’acqua, soprattutto quelle francesi (Suez, Veolia e altre) che controllano quasi la metà del mercato mondiale dell’acqua privatizzata.
A riparare l’acquedotto e altre infrastrutture ci penseranno le multinazionali statunitensi, come la Kellogg Brown & Root, specializzate a ricostruire ciò che le bombe Usa/Nato distruggono: in Iraq e Afghanistan hanno ricevuto in due anni contratti per circa 10 miliardi di dollari.
L’intera «ricostruzione», sotto la regia del Fmi, sarà pagata con i fondi sovrani libici (circa 70 miliardi di dollari più altri investimenti esteri per un totale di 150), una volta «scongelati», e con i nuovi ricavati dall’export petrolifero (circa 30 miliardi annui prima della guerra). Verranno gestiti dalla nuova «Central Bank of Libya», che con l’aiuto del Fmi sarà trasformata in una filiale della Hsbc (Londra), della Goldman Sachs (New York) e di altre banche multinazionali di investimento. Esse potranno in tal modo penetrare ancor più in Africa, dove tali fondi sono investiti in oltre 25 paesi, e minare gli organismi finanziari indipendenti dell’Unione africana – la Banca centrale, la Banca di investimento e il Fondo monetario – nati soprattutto grazie agli investimenti libici. La «sana gestione finanziaria pubblica», che l’Fmi si impegna a realizzare, sarà garantita dal nuovo ministro delle finanze e del petrolio Ali Tarhouni, già docente della Business School dell’Università di Washington, di fatto nominato dalla Casa bianca.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa