Guido Ambrosino – BERLINO
Il socialdemocratico Klaus Wowereit, sebbene la sua Spd perda 2,5 punti fermandosi al 28,3%, resterà per un terzo mandato borgomastro di Berlino, verosimilmente in coalizione con i verdi al 17,6%, in crescita nella capitale tedesca (+4,5). Non ci sono più i numeri per continuare a governare, come da dieci anni a questa parte, con la Linke, che perde anch’essa 1,7 punti arretrando all’11,7%. Troppo moderati, troppo accomodanti e pronti a piegarsi alle esigenze della Realpolitik in tempi di casse vuote, i socialisti non riescono più a mobilitare tutta la loro base, potenzialmente assai più ampia soprattutto nell’est della città.
La più spettacolare novità è il successo del Piratenpartei, il partito dei pirati, una formazione nata per protesta contro ogni tentativo di controllare e di censurare internet. Il nome è un ironico riferimento all’accusa di «pirateria informatica» che gli viene rivolta da chi vorrebbe difendere la proprietà privata anche nel web. Per la prima volta in corsa alle regionali di Berlino, hanno totalizzato l’8,9%, superando alla grande la barriera del 5% per cento, pensata proprio per rendere più difficile l’approdo nei parlamenti di nuovi partiti. Tutti i quindici candidati in lista hanno conquistato un seggio. Tra loro una sola donna.
I pirati non erano degli sconosciuti. Alle politiche del settembre 2007 avevano già fatto parlare di sé con un rispettabile 2%. Ma a lungo erano sembrati assorbiti da beghe interne: caotiche assemblee di base – gli iscritti sono ora 12.000, di cui mille a Berlino – faticavano a esprimere una linea comune e un gruppo dirigente. Tuttavia a Berlino, vivaio di subculture antagoniste, i pirati hanno trovato un habitat eccezionalmente favorevole. Pressati dall’incombenza di darsi un programma politico, una volta deciso di candidarsi alle regionali, si sono liberati dalla fissazione monotematica sui temi della «pirateria» informatica, e si sono fatti portavoce di un diffuso senso comune radicaldemocratico e libertario.
I pirati berlinesi propugnano una democrazia diretta, con la partecipazione dei cittadini alle decisioni di governo tramite referendum digitali. Parafrasando lo slogan «soviet e elettrificazione» caro a Lenin, il loro potrebbe essere «soviet e internet». Si battono per un reddito di cittadinanza garantito a tutti, nonché per l’introduzione di salari minimi per legge, per contrastare la piaga delle miserabile paghe per i lavori precari. Vogliono liberalizzare le droghe leggere e mezzi di trasporto pubblici gratuiti. Sono per una rigida separazione laicista tra stato e chiesa, che spazzi via i molti residui di biconfessionalismo parastatale in Germania, a vantaggio sia della chiesa cattolica che di quelle protestanti: qui è ancora lo stato a riscuotere la Kirchensteuer, la tassa ecclesiastica, per conto delle chiese.
Insomma nei pirati è tornato a esprimersi un conglomerato di utopie di nuova sinistra, ripudiato dai verdi, che pure vi si rifacevano alle origini, e colpevolmente trascurato dai socialisti della Linke. Fatto sta che dei 129.795 voti raccolti dai Piraten, buona parte viene da persone deluse da altre formazioni della sinistra: tra loro, secondo gli analisti dell’istituto demoscopico Infratest-dimap – circa 17.000 ex elettori dei verdi, 13.000 ex elettori della Spd, 12.000 ex elettori della Linke. Il seguito maggiore i pirati l’hanno trovato tra persone che prima non andavano a votare, deluse dai partiti tradizionali: circa 23.000. Il nuovo partito ha più consensi nell’est della città, il 10,1%, contro l’8,1% a ovest.
Nonostante questa nuova proposta anti-establishment, l’astensione resta altissima: è andato a votare appena il 60,2%. Cinque anni fa era andata ancora peggio, con una partecipazione al voto del 58%. Berlino, a dispetto della facciata opulenta dei nuovi quartieri, ha grosse sacche di emarginazione. Un abitante su cinque vive di assistenza sociale. L’industria è in buona parte scomparsa dopo l’unificazione del 1990 (non più sovvenzionata nell’ovest della città, non più concorrenziale a est e ben presto smantellata dai «privatizzatori»). Un’intera generazione di operai, e di immigrati poco qualificati, è rimasta tagliata fuori dal circuito economico, e non si sente più espressa dai partiti.
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