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Europa al bivio: implosione o “super-stato”?

Al punto che sembra essere arrivato un momento di stallo e incertezza anche per i leader dei paesi più forti, spevantati dai costi del “salvataggio” (non tanto o non solo della Grecia, ma degli altri “pericolanti” nel loro insieme) e classicamente incerti tra il fare un passo avanti e uno indietro.

Il vertice a due tra Merkel e Sarkozy cerca di mettere ordine e punta a fare un “passo avanti” non facile. Sia per problemi istituzionali europei (bisgona mettere in camntiere un lunga serie di correzioni che implicano una drastica revisione dei trattati esistenti), che per problemi “nazionali” (sia la Merkel che Sarkozy sono già, di fatto, in campagna elettorale con grosse incertezze sulla riconferma. Di più, al momento la cancelliera tedesca sarebbe certamente battuta.

Dagli altri paesi “pesanti” dell’eurozona (Spagna e Italia) vengono solo problemi, non contributi alla soluzione. Sia sul piano economico (entrambi hanno conti pubblici problematici), che su quello politico (la Spagna vota tra un mese, l’Italia darebbe già un segno di saggezza se questo governo collassasse immediatamente). Gli altri “medi” (Olanda, Austria, ecc) possono dare idee e qualche contributo economico, ma non determinare alcunché.

Questa incertezza comincia a essere tematizzata in modo non banale anche sui media mainstream. Proponiamo qui alcuni articoli cha segnalano sia la preoccupazione che le evoluzioni possiibili.

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da La Stampa

A fianco del Consiglio europeo, su una centralina elettrica, hanno attaccato un manifesto formato A.3 con la scritta «Shine or die trying». Difficile che l’autore del volantino riflettesse sui tempi difficili che l’Europa sta vivendo, eppure il messaggio è perfetto per la stagione della nostra crisi. «Brilla o muori nel tentativo di farlo», come dire che non si può perdere tempo, perchè troppo se ne è andato col solo risultato di far salire il costo di una cura che mai è stata più necessaria.

Il messaggio è noto in tutte le capitali. E la vera novità è che Angela Merkel s’è risvegliata, ha messo da parte le insostenibili ritrosie legate all’incerto quadro politico interno. Ha capito che, se non brillerà, il suo destino e quello dell’Europa saranno uniti da una tragica fine. «La cancelliera vuole cambiare la Costituzione tedesca per renderla più omogenea con l’esigenza di una Unione monetaria più coesa – rivela un diplomatico -. L’altro passo è quello di riformare i Trattati dell’Ue e scolpire nella pietra un rigoroso legame economico fra i partner». Una delle soluzioni attese per novembre punta a proporre una Confederazione europea entro il 2020.

Preoccupata per i rischi che corrono i suoi signori del denaro esposti verso i greci «cattivi» – la sola corazzata Deutsche Bank ha dovuto svalutare 250 milioni di titoli greci nel terzo trimestre e e 155 nel secondo -, e per gli effetti di contagio già evidenti dei debiti sovrano sulle aziende di credito, Frau Merkel esige che l’offensiva cominci subito. «Prima del G20 d’inizio novembre», ha detto domenica col sodale francese Nicolas Sarkozy, con quale non pare comunque essere tutto rose e fiori.

La sostanza: patto comune di ricapitalizzazione delle banche; raffozarmento del fondo salvastati (Efsf) oltre i 440 miliardi di oggi; risoluzione del caso greco, con pesante «haircut» (rimborso sforciato) ai privati, e insolvenza pilotata di Atene che ormai pare scontata persino dai mercati; governo comune per economia e conti pubblici. Berlino si sforza di ostentare certezze e, non a caso, il nuovo tedesco della Bce, Jtòrg Asmimsen, all’Europarlamento ha affermato che la governance europea é ancora troppo debole e l’assenza di unione politica mina l’equilibrio dell’Eurozona. Ha chiesto un Efsf forte e dinamico, con un’Eurotower indipendente. E’ la linea del dopo Stark per salvare l’euro e le banche.

II problema è chi, e come. Merkel e Sarkozy risultano essere al lavoro su un piano su cui far convergere i soci del club di Bruxelles secondo l’adorato – da loro – metodo intergovernativo. «Guidano questi due paesi in contatto costante cogli altri», dice il portavoce della cancelleria. La Commissione Ue non vuole però essere scavalcata.

Ieri il presidente Barroso s’è chiuso con il responsabile economico Oli Rehn e il finanziario Michel Barnier per mettere già una proposta di intervento coordinato che, assicura una fonte, «potrebbe essere pronta in poche ore», magari anche domani. Fra Bruxelles e l’asse francotedesco si è insomma scatenata una corsa contro il tempo. Si rischia di avere due piani.

L’approccio intergovernativo ha scatenato malumori, a Bruxelles, come in molte capitali, Roma compresa. Il nervosismo istituzionale rende più complesso il processo, dando un contributo decisivo al rinvio del vertice europeo dal 17 al 23 ottobre. Herman Van Rompuy, presidente stabile dell’Ue, ha cercato di comporre il dissidio evocando «i piani della Commissione per la ricapitalizzazione» delle banche. Una questione «molto da vigilia di resa dei conti», dicono al Consiglio, convinti che «l’accordo si farà». Nessun vertice europeo, ricordano, è mai fallito veramente.

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da Il Sole 24 Ore (che deve avere problemi seri di interpretazione, se comincia a dare spazio anche a ultrasinistri come Emiliano Brancaccio)

Troppo credito alla Germania

di Emiliano Brancaccio

Tra le interpretazioni della crisi della zona euro ha finora prevalso quello che potremmo definire il punto di vista del creditore. Questo verte sul convincimento che, per salvaguardare il diritto dei creditori al rimborso, i debitori debbano tirare la cinghia e ridurre le spese senza invocare aiuti da parte delle istituzioni europee.

I piani di austerità adottati da tutti i Paesi europei per far fronte al pagamento dei debiti, l’avanzamento finora timido e contraddittorio del fondo salva-Stati e l’incertezza sull’ammontare degli acquisti di titoli che la Bce sarà disposta a effettuare per sostenere i Paesi in difficoltà, derivano esattamente dal prevalere di questa logica. Tuttavia, come stiamo ormai rilevando da diversi mesi, questo orientamento non appare in grado di attenuare la crisi dell’eurozona. Anzi, la sfiducia dei mercati cresce di giorno in giorno, e con essa aumentano i differenziali tra i tassi d’interesse.

Sarebbe ora di riconoscere che il punto di vista del creditore deriva dalla risibile pretesa di applicare le banali regole di un bilancio familiare alla complessità delle relazioni macroeconomiche che intercorrono tra i bilanci degli Stati. In realtà queste relazioni seguono regole ben diverse, tutt’altro che intuitive.

La prima consiste nel fatto che a livello macro il reddito dei creditori dipende in ultima istanza dalla spesa dei debitori, non dai risparmi di questi ultimi. Consideriamo, per esempio, la Germania: per lungo tempo, grazie a una superiore organizzazione dei capitali e a un’intensa politica di deflazione relativa dei salari, questo Paese ha esportato nel resto d’Europa molte più merci di quante ne importasse. In tal modo la Germania ha accumulato ingenti crediti nei confronti di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, della stessa Francia e di vari altri Paesi europei, i quali al contrario importavano più merci di quante ne esportassero.

Questo pesante squilibrio in seno all’Europa costituisce indubbiamente un sintomo della competitività del sistema produttivo tedesco. Ma rappresenta anche una prova del fatto che per anni la crescita della produzione e del reddito dei tedeschi è stata in larga misura stimolata dalla domanda e dal relativo indebitamento dei Paesi periferici. Ecco perché, nel momento in cui questi Paesi vengono chiamati a ridurre le spese, anche la Germania finirà per pagarne le conseguenze in termini di mancata crescita.

Il problema descritto evidenzia anche i limiti dello slogan “Facciamo come in Germania”. Il desiderio di emulare un competitore efficiente è perfettamente comprensibile. Ma se tutti davvero puntassero a imitare la tendenza della Germania ad aumentare le esportazioni nette e ad accumulare crediti verso l’estero, non vi sarebbe più una fonte di domanda interna alla zona euro. In tal caso, a meno di illudersi dell’imminenza di una robusta ripresa americana, le imprese europee si troverebbero ben presto senza sbocchi e il Vecchio continente piomberebbe in un’ulteriore, violenta recessione. Né la situazione cambierebbe se ci indebitassimo con la Cina anziché con la Germania. Il problema infatti non verte sull’individuazione di un nuovo creditore, ma consiste al contrario nel trovare una fonte di domanda. Sotto questo aspetto è bene comprendere che i cinesi non aiutano, non essendo disposti a rinunciare ai loro avanzi commerciali verso l’estero.

Le obiezioni elencate consentono anche di sgombrare il campo dall’idea ingenua secondo cui i creditori risiederebbero nel settore privato, mentre i debitori si situerebbero nel settore pubblico. In realtà, dal punto di vista contabile e macroeconomico, l’intreccio è più complesso. Basti pensare che lo squilibrio tra la Germania creditrice e i Paesi periferici debitori si riflette anche in una distribuzione asimmetrica delle sofferenze bancarie e della mortalità delle imprese private, che in molte zone del Sud Europa e della stessa Italia stanno raggiungendo livelli inquietanti. Ciò implica che se nel prossimo futuro in Bce dovesse prevalere il punto di vista del creditore, non solo i bilanci pubblici, ma anche i bilanci delle imprese e delle banche private situate nei Paesi periferici registrerebbero le perdite più ingenti.

Nel diritto romano si definiva favor debitoris quell’insieme di norme atte a stabilire un appropriato equilibrio tra le pretese del creditore e la pietà verso il debitore. L’odierna urgenza di ridefinire quell’equilibrio non è tuttavia questione di pietà, ma di razionalità. Al punto in cui siamo giunti, continuare a imporre la logica del creditore significa creare le premesse di una nuova crisi. Se si vuole evitarla, bisognerebbe ribaltare la logica che governa gli attuali indirizzi politici e attivare finalmente un “motore interno” dello sviluppo economico europeo.

Se la Banca centrale europea, le istituzioni comunitarie e i governi nazionali non si dispongono a questa inversione di marcia, il pericolo di un’ulteriore recessione e di una conseguente implosione della zona euro (e al limite dello stesso mercato comune) si farà concreto, con danni facilmente prevedibili per gli stessi creditori.

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dal Corriere della sera

Intervista a Guy Verhofstadt – “L’Europa bilaterale non basta per convincere i mercati”

di Sarcina Giuseppe

In questi giorni Guy Verhofstadt è in visita in Turchia. Da europeista di lungo corso mantiene vivo lo spirito comunitario che prescrive di coltivare al meglio le relazioni con i vicini, quando non è possibile ampliare i confini dell’Europa. In fondo è lo stesso criterio che l’europarlamentare applica alla crisi dell’euro: serve una risposta largamente condivisa e quindi occorre rilanciare «il metodo comunitario». Verhofstadt, 58 anni, è stato primo ministro del Belgio dal 1999 al 2008. Oggi è il leader del gruppo Alde, (Alleanza tra liberali e democratici per l’Europa) al Parlamento europeo.

Nicolas Sarkozy e Angela Merkel sembrano decisi a dettare all’Unione Europea le misure per uscire dalla crisi economica. Ieri hanno incassato l’appoggio di Barak Obama. Che cosa ne pensa?

«Ben vengano le loro proposte. Siamo tutti pronti a discuterne. Però mi pare evidente che non sarà con una soluzione intergovernativa che usciremo dalla crisi. Al di là di ogni considerazione politica o giuridica, faccio notare che non è che le turbolenze sui mercati si plachino ogni volta che viene annunciata un’iniziativa congiunta franmiliardi La dotazione del fondo europeo salva Stati Efsf. In origine ammontava a 250 miliardi di euro co-tedesca».

Qual è il punto critico?

«E’ difficile credere che i governi possano davvero tenere fede fino in fondo ai loro impegni. Sono comunque soggetti a pressioni, possono essere costretti a rimandare, rivedere eccetera. Non è questa la strada: i mercati non ci consentono più incertezze, decisioni dall’esito ambiguo».

Dall’altra parte, però, abbiamo assistito a una specie di afasia a livello comunitario. Finora non si è sentita la voce di Bruxelles. Se non per protestare contro gli sconfinamenti dell’asse franco-tedesco.

«Vero. Ma il presidente della Commissione Barroso ha promesso che presenterà un piano complessivo per salvare l’euro, perché deve essere chiaro che di questo stiamo parlando e dunque occorre coinvolgere tutti i soggetti politici e istituzionali toccati dalla moneta unica».

Parlamento compreso allora. Vi limitate ad aspettare le proposte di Barroso?

«Niente affatto. Stiamo lavorando a una risoluzione comune insieme con i gruppi del Ppe, dei socialisti e dei Verdi. Vale a dire le rappresentanze che coprono circa l’8o% del Parlamento europeo. La presenteremo proprio domani, mercoledì, e sarà un documento dettagliato per incalzare il lavoro della Commissione».

Di che cosa c’è bisogno?

«Innanzitutto serve procedere alla ricapitalizzazione delle banche che sono in difficoltà».

Con quali soldi? Tocca ai singoli governi intervenire o si può ricorrere al fondo finanziario per i salvataggi (European financial stability facility)?

«Sicuramente il fondo va potenziato e allargato, perché con queste risorse non è in grado di fare fronte a tutti i compiti di cui si vorrebbe caricarlo. Vale a dire: comprare sul mercato bond dei Paesi in difficoltà; prestare denaro alla Grecia ed eventualmente ad altri Stati e, appunto anche ricapitalizzare le banche».

Sarà un’impresa mettere tutti i Paesi d’accordo su un piano tanto ambizioso, non crede?

«Il vero problema è che le decisioni su come distribuire le risorse del fondo di salvataggio non possono più essere prese all’unanimità. Ancora una volta: non possiamo permetterci che una decisione importante sia bloccata da una piccola minoranza. Questo sarà un punto chiave del nostro documento comune».

Pensa davvero che le risorse del fondo, anche «rafforzato», sarebbero sufficienti?

«La nostra risposta deve anche guardare oltre l’emergenza. Per questo motivo chiediamo di adottare finalmente delle obbligazioni uniche per il mercato europeo. Gli Eurobond insomma, ma non è tutto…».

Come si chiude la lista?

«Tutte queste misure hanno senso se vengono accompagnate da un vero processo di integrazione economica. Dobbiamo costruire un percorso, una “road map”, per arrivare ad un’unione economica e monetaria integrata con l’unione fiscale».

Non si sta spingendo troppo in avanti?

«Il Parlamento, pressoché al completo, sottoscrive questo progetto. Penso che sarà questa la base su cui tutti si dovranno confrontare».

 

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