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Cina. Dieci anni vissuti da dragone


PECHINO
«Dieci anni dopo, sembra che la Cina si stia allontanando dall’Organizzazione mondiale per il commercio». Questa sorprendente affermazione è arrivata qualche giorno fa – durante un congresso per ricordare l’evento – da Long Yongtu, uno dei negoziatori dello storico ingresso, l’11 dicembre 2001, di Pechino nella Wto. Un abbraccio che contribuì a rivitalizzare il capitalismo ferito dall’11 settembre e aprì ufficialmente quello che secondo molti analisti sarà «il secolo cinese». Long esprime la delusione di chi sperava in un’apertura rapida e completa al mercato e constata invece che terre, banche e grandi industrie sono ancora nelle mani dello Stato. E teme che, per effetto di un’eventuale seconda ondata di recessione negli Stati Uniti e della crisi dell’euro, le tensioni degli ultimi tempi possano sfociare in vere e proprie guerre commerciali.
Chin Leng Lim, docente di diritto all’Università di Hong Kong, ha riassunto così alla Reuters il percorso accidentato della Wto: «Come la si potrebbe definire Organizzazione mondiale del commercio senza la Cina? E allora, dobbiamo cambiare le regole della Cina o piuttosto modificare le regole globali per adattarci alla Cina?».
Contrordine compagni
L’investimento previsto è di quelli colossali: 1.700 miliardi di dollari, due volte e mezzo lo “stimolo” varato per uscire dalla crisi del 2008. Una montagna di denaro che, in linea con il piano quinquennale 2011-2016, dovrebbe archiviare il decennio in cui la Repubblica popolare ha rifornito il resto del mondo di prodotti a basso costo e far decollare nuovi settori definiti “strategici”: l’economia verde e l’industria hi-tech. Che non si tratti di un semplice annuncio è stato confermato dal Segretario per il commercio John Bryson, che in un recente incontro con la controparte cinese ha rivendicato una fetta della torta per le aziende Usa. Proprio mentre l’Amministrazione Obama indagava per dumping i marchi cinesi che vendono “sottocosto” pannelli solari negli Usa e Pechino replicava accusando Washington di protezionismo.
Dai manufatti low cost alle auto verdi, alle biotecnologie, alle energie alternative: quanto questa trasformazione riuscirà a essere “indolore”? Nei giorni scorsi gli operai di un’azienda che a Shanghai produce per Apple, Motorola e Hp hanno scioperato contro l’aut aut dei padroni: essere trasferiti assieme allo stabilimento o licenziati senza indennizzi. A Shenzhen e Dongguan, nel Sud di più antica industrializzazione, migliaia di lavoratori stanno protestando per la diminuzione delle ore di straordinario, conseguenza del rallentamento della produzione.
L’imperativo è: riequilibrare il sistema. La Cina cresce ininterrottamente da trent’anni, dalle riforme di Deng Xiaoping. Col 9,6% del totale è il primo esportatore del Pianeta, ha accumulato 3.200 miliardi di dollari di riserve in valuta estera ma anche grossi squilibri sociali: il reddito medio è di 4.400 dollari annui pro capite e l’indice Gini sulla diseguaglianza allo 0.41. Con la flessione della domanda dall’estero, per mantenere alta la crescita il Partito comunista (Pcc) punta a sviluppare i consumi interni.
Censura, battaglia continua
La Repubblica popolare è arrivata in ritardo all’appuntamento con internet, alla quale – 77mo paese in ordine cronologico – si è agganciata nell’aprile del 1994. Ma ha recuperato in fretta e, con 485 milioni di utenti, è oggi lo Stato col maggior numero di cittadini connessi. Tra questi, 300 milioni hanno attivato un weibo. Nati un paio d’anni fa, sono la versione cinese di Twitter (oscurato, come gli altri social network stranieri) e rappresentano una delle forme di comunicazione preferite dai netizen. Se ne sono accorte anche le autorità e le corporation, che nelle ultime settimane hanno messo i weibo al centro di un’offensiva a base di censura e pubblicità. Bill Gates, Coca Cola, Unilever e Louis Vuitton sono stati i primi a lanciarsi in una vetrina virtuale osservata da una classe media in ascesa che il Pcc sollecita a consumare di più. I controllori sono costretti a inseguire un wangmin (popolo della rete) sempre più audace e a bilanciare gli obiettivi della censura e le esigenze del mercato.
Le autorità hanno dichiarato guerra ai rumor, balle del web come quella di Guo Meimei, giovane disoccupata che sul suo weibo si mostrava, borsa di Hermes in spalla, alla guida di una Maserati e sosteneva di essere un’impiegata della Croce Rossa (al centro di un grosso scandalo); o quella su 20 mila fantomatici terroristi uiguri sieropositivi, sguinzagliati per il Paese a diffondere l’Aids. Per stroncare i rumor, la polizia mette a tacere le discussioni online sui temi più scottanti e rimuove pagine scomode.
La maturità dello yuan
Gli Stati Uniti lo considerano tuttora artificialmente sottovalutato, almeno del 20% e tra i congressmen c’è chi sullo yuan è pronto a impostare la prossima campagna elettorale in difesa del made in Usa. Intanto la valuta – che negli ultimi anni si è apprezzata lentamente ma costantemente rispetto al dollaro – continua a rimanere debole favorendo le esportazioni, ma si prepara alla «maturità». Secondo l’ultimo rapporto della Commissione parlamentare per le relazioni Usa-Cina, Pechino negli ultimi anni ha allentato i controlli sull’utilizzo dello yuan nelle transazioni internazionali, utilizzando Hong Kong per la “sperimentazione”: nel giro di cinque-dieci anni le banconote col ritratto di Mao inizieranno a minacciare il dominio del dollaro sui mercati internazionali.
Fate scoppiare quella bolla
Pechino: da 4.557 yuan al metro quadro a 17.782 yuan (circa 2.000 euro), negli ultimi dieci anni. Shanghai: nello stesso periodo, da 3.326 a 14.400 yuan. Nella provincia di Zhejiang, da 1.758 a 9.249. Con l’accelerazione dell’industrializzazione e delle infrastrutture, la bolla immobiliare ha avvolto le megalopoli e le aree costiere più sviluppate, dove per le giovani coppie della classe media è ormai impossibile acquistare casa e milioni di lavoratori migranti sono costretti a vivere in baracche e alloggi di fortuna. Quello del mattone è uno dei settori trainanti l’economia (circa il 13% del prodotto interno lordo) anche perché il controllo governativo sui capitali ha spinto a investire in patria. Un affare per tutti tranne che per i cittadini: i palazzinari hanno fatto il loro ingresso tra gli uomini più ricchi della Repubblica popolare, i governi locali – tra non pochi casi di corruzione – hanno beneficiato delle vendite delle terre, lo Stato delle tasse. Da oltre un anno il governo ha messo in atto una serie di misure per frenare i rialzi. Lo scorso aprile, la Commissione di controllo (Cbrc) ha avvisato gli istituti di credito di effettuare stress test per un ipotetico crollo del 50% dei prezzi e del 30% del volume delle compravendite. Secondo i catastrofisti (e i developer, che chiedono di continuare a gonfiare la bolla) le restrizioni e la riduzione dei finanziamenti provocheranno fallimenti a catena di società e banche, aumento della disoccupazione, instabilità. Per molti analisti la bolla sarà al contrario l’ennesimo banco di prova delle capacità di gestione dell’economia da parte del Partito e dello Stato, che sarebbe in grado di riassorbire gli esuberi, ricapitalizzare le banche e alla fine otterrebbe una redistribuzione della ricchezza dagli speculatori alle famiglie, con la possibilità di aumentare i consumi interni.
Amici-nemici, vicini e lontani
Sono passati due anni da quando a Tokyo, il 14 novembre 2009, Barack Obama si autoproclamò «primo presidente pacifico» degli Stati Uniti. Pechino stava studiando già da tempo le mosse dell’avversario sullo scacchiere Asia-Pacifico e, mentre prepara il prossimo viaggio a Washington del presidente designato Xi Jinping (in programma dopo l’insediamento di quest’ultimo nell’autunno prossimo) risponde agli Usa con un’escalation retorica. Ieri il capo dello Stato, Hu Jintao, ha dichiarato che la marina, rimasta indietro nel complesso di forze armate tradizionalmente imperniate sull’esercito, «deve accelerare la sua modernizzazione e prepararsi alla guerra».
Qualche giorno fa Obama aveva annunciato la nascita di una base permanente di 2.500 marine a Darwin, il porto nel nord dell’Australia che, a 820 km dall’Indonesia, è considerato una via d’accesso al Sud-Est asiatico. Rispetto a Giappone e Corea del Sud (i due alleati degli Usa più forti nell’area), Darwin è più vicina al Mar cinese meridionale, epicentro di un annoso contenzioso territoriale (sugli arcipelaghi delle Spratly e delle Paracel) tra la Cina, da una parte, e le Filippine e il Vietnam, dall’altra.
Nei fondali delle Spratly e delle Paracel ci sono giacimenti di petrolio stimati intorno ai 150 miliardi di barili e di gas, per 3,4 trilioni di metri cubi. E nei mari del Pacifico, come nelle acque agitate dei mercati, a dieci anni dal suo ingresso nella Wto, la presenza della Cina è sempre più ingombrante.

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L’armonia che manda in bestia
Angela Pascucci

Arginata l’nflazione, adesso l’emergenza riguarda salari e disoccupazione. Ma i guai del resto del mondo non aiutano
Che cosa rischia oggi di destabilizzare maggiormente la società cinese, l’inflazione o la disoccupazione accompagnata dall’abbassamento dei salari? Il cruciale dilemma deve avere molto tormentato negli ultimi tempi i vertici di Pechino, giunti infine alla conclusione che la prima delle due bestie nere è stata quanto meno sedata ed è tempo di affrontare la seconda, che imperversa e accende scioperi e rivolte. Da qui l’allentamento dei vincoli sui prestiti bancari (una iniezione di liquidità pari a 50 miliardi di euro) nella speranza di far ripartire un’economia che, pur sempre in corsa, ha cominciato a inciampare nei guai del resto del mondo.
La Cina constata oggi che per cambiare asse di sviluppo e passare da un’economia sospinta dall’export a una alimentata dal consumo avrebbe bisogno di più tempo. Ma il paese va troppo veloce per poter domare le sue dinamiche interne, economiche, sociali e politiche, sempre più accelerate da intoppi strutturali che richiederebbero interventi profondi. Così la nuova fase somiglia, nelle misure con cui si cerca di arginarne i rischi, a quella precedente, avviata all’esplodere della crisi globale nel 2008 . Ma non si può ripetere lo stesso copione in uno scenario stravolto dalla rotta disordinata dell’Europa in fallimento e dall’affanno degli Usa entrati ormai in fase elettorale.
Le dinamiche internazionali rendono dunque assai più incerto che nel 2008 l’esito della nuova fase di rilancio dell’economia in Cina. Di conseguenza, considerato lo stretto legame tra il dentro e il fuori che da sempre condiziona l’avanzata cinese, il rovello della stabilità sociale interna ha ripreso ad assillare la leadership, alla vigilia del passaggio di poteri che ne cambierà i connotati (almeno quelli fisici).
Sono ripartiti scioperi e proteste ma diversamente dalla grande sollevazione operaia del 2010 che si batté per aumenti salariali notevoli e il riconoscimento del diritto ad avere rappresentanze sindacali elette, e li ottenne, quelle venute alla cronaca negli ultimi tempi sono soprattutto battaglie di resistenza all’arretramento. Contro la riduzione degli straordinari e l’erosione dei salari , contro la dislocazione delle fabbriche e i licenziamenti.
E come in ogni momento nevralgico è partito l’allarme ufficiale. Zhou Yongkang, gran capo dell’ordine pubblico, il 2 dicembre si è rivolto ai funzionari provinciali convocati a Pechino per un seminario sulla social management innovation incitandoli a trovare modi migliori per gestire «gli effetti negativi dell’economia di mercato», cioè i conflitti sociali che questa genera. Eppure sono anni che la costruzione della società armoniosa via social management è all’opera. Prima si chiamava wei wen, mantenimento della stabilità, avviato alla fine degli anni ’90 dopo le grandi rivolte operaie contro i licenziamenti seguiti alle privatizzazioni, Nel 2004 la strategia è stata potenziata. Le Olimpiadi la rendono più efficiente, più sofisticata. Si materializza in un enorme apparato la cui panoplia di strumenti comprende censura e controllo di Internet, repressione degli oppositori più accesi, una fitta rete di informatori, corpi speciali di sicurezza, sistemi di videosorveglianza capillari. Forte pressione è esercitata sulle organizzazioni di partito e i governi locali, premiati o puniti a seconda che riescano o meno a mantenere gli obiettivi di “armonia sociale” contenendo le proteste e il malcontento anche nelle loro forme meno aggressive, come le petizioni. Un apparato costoso, se in bilancio le spese per la sicurezza interna (oltre 70 miliardi di euro) ormai superano quelle per l’esercito.
L’esplosione delle “primavere arabe” provoca un nuovo giro di vite e ulteriori preoccupazioni. Il 19 febbraio 2011 in una riunione alla scuola centrale del partito il presidente Hu Jintao esorta a «capire correttamente i nuovi cambiamenti e le caratteristiche della nuova fase, interna e internazionale». È in quella occasione che lo stesso Zhou Yongkang raccomanda di «stroncare sul nascere conflitti e dispute».
Con una leadership preoccupata solo dell’autoconservazione del sistema, nel timore di una disintegrazione di tipo sovietico, sono caduti nel vuoto persino gli appelli più ragionevoli di chi chiede di istituire dispositivi e regolamenti efficaci che consentano l’espressione dei legittimi interessi di una società sempre più diversificata. Pensare di gestirli con un apparato che li criminalizza e li soffoca, può solo esasperare gli animi. (Si veda l’appello di un gruppo di sociologi cinesi pubblicato su Le Monde diplomatique, luglio 2011).
La maggioranza dei cinesi non medita lo scardinamento del sistema, né lo prepara. Non foss’altro che per mancanza di alternative. Però è innegabile che la “nuova fase” si manifesta oggi con intrecci che coinvolgono tutti gli strati sociali in modi impensabili solo 3 anni fa. Gli operai migranti che hanno spinto il carro sperando di salirci presto sopra temono oggi di essere lasciati per sempre a terra, la piccola borghesia urbana vive nuove ansie di aspettative crescenti frustrate (come l’acquisto di una casa reso impossibile dalla follia speculativa), persino i ricchi cominciano a temere e portano soldi e famiglie all’estero. Si incrinano i miti dell’arricchimento, necessari ad alimentare la mitologia dello sviluppo. Una crisi di sfiducia, si direbbe, che non è (ancora) l’anticamera del sovvertimento del sistema ma piuttosto di una resistenza sorda, socialmente cinica e violenta, che già emerge dalle cronache quotidiane.
Un lascito fallimentare per la leadership che predicava l’armonia.

da “il manifesto”

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