Il chierico, come altri presenti venerdì per le strade attorno a piazza Tahrir, è stato colpito in pieno petto. Stamane altra folla s’è riversata nelle vie centrali della capitale sebbene tutta la zona attorno al Parlamento sia sigillata da blocchi e sbarramenti di filo spinato disposti dall’esercito. Mentre sono in corso le operazioni di spoglio nelle nove province che hanno votato a metà settimana e che vedono una conferma per le due formazioni islamiste – il Partito della Libertà e Giustizia e Al-Nour – divampa la polemica sull’uso della forza e il controllo dell’ordine pubblico. Il nuovo premier Ganzouri ha dichiarato che in strada ci sono solo facinorosi “Coloro che sono in piazza Tahrir non sono i giovani della rivoluzione. Questa che abbiamo davanti è una contro-rivoluzione”. Parole conformi a dittatori passati e tuttora presenti. Il Partito della Libertà e Giustizia contesta apertamente il primo ministro accusandolo di totale incoerenza. I leader della Fratellanza Musulmana ricordano che finora Ganzouri si diceva tollerante verso il dissenso pacifico simile al sit-in permanente di Tahrir, ma di fatto non ha ostacolato nuovi agguati come quelli di ieri. Si vuole capire se certe decisioni dei vertici militari non siano state prese di concerto con l’Esecutivo.
Forti d’una conferma al secondo turno elettorale egiziano i Fratelli Musulmani chiedono a gran voce un’inchiesta per i nuovi crimini di cui s’è macchiato il Supremo Consiglio delle Forze Armate. Pur concentrati esclusivamente sul voto che li sta ampiamente ripagando solidarizzano col movimento laico d’opposizione a un esercito responsabile di reiterata, gratuita violenza. Dicono “I generali dello Scaf devono scusarsi con la nazione e risarcire i familiari delle vittime, occorre indagare e colpire i responsabili del nuovo spargimento di sangue, proseguire le consultazioni per stabilire il nuovo volto degli organi rappresentativi, concludere entro il prossimo giugno il passaggio delle consegne per la guida del Paese”. Una posizione netta a difesa della libertà d’espressione dei pacifisti del presidio permanente di Tahrir che hanno subìto l’esecrabile attacco dei militari. Paradossali ma non meno cruente, visto la continuazione dell’uso di armi, le dinamiche del conflitto di ieri. Gli agenti appollaiati sui tetti dei palazzi attigui alle strade di Tahrir – soprattutto ad Al Kasr e dintorni dove si sono concentrati gli scontri più duri – per ore hanno scagliato sassi, tegole e addirittura mobili sulla folla sottostante. Dopo la morte di 42 fra attivisti e gente comune negli scontri di novembre si erano sollevate ampie polemiche sull’uso dei gas tossici da parte di polizia ed esercito: l’opposizione accusava lo Scaf di utilizzare lacrimogeni con una miscela di nervino, gli interessati e il Ministero della Salute smentivano. Così in questo venerdì gli strumenti di aggressione sono cambiati e si è giunti alla sassaiola coi manifestanti pur da punti di lancio assolutamente favorevoli.
Ma ciò che ha ucciso più d’un attivista e lo sheik Effat sono proiettili esplosi da qualche agente-cecchino che, sui tetti e in strada, coadiuvava i commilitoni. La totale discrasia fra quanto accade e l’ufficialità governativa diffusa dalla tivù di Stato appare nelle dichiarazioni offerte nella tarda serata di ieri “L’Esercito non vuole impedire né limitare la protesta, i militari sono dotati di autocontrollo e non hanno fatto uso di armi da fuoco”. Sic!
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