Lunedì mattina in conferenza stampa un graduato affermava “le violenze dei militari sono un’invenzione dei media, i manifestanti che attaccano le sedi ufficiali (Ministero dell’Interno e il Parlamento, ndr) hanno un piano per affossare il Paese”. E’ un’escalation in linea con quanto detto due giorni or sono dal premier Ganzouri che per giustificare la strage di venerdì sconfessava gli attivisti di Tahrir bollandoli come controrivoluzionari. Così i militari ‘garanti del processo di transizione’ anziché tranquillizzare animi già esasperati sembrano soffiare sul fuoco. Intenti a non cedere un centimetro del sessantennale potere si mostrano cinici e sanguinari. Il momento di maggiore partecipazione democratica rappresentato dalle attuali elezioni potrebbe riservare alla nazione coercizioni ancora più dure. Allora c’è da chiedersi: la fase più libera dell’Egitto moderno può vedersi cadere addosso un golpe? L’azzardata ipotesi può rappresentare l’extrema ratio di una casta deprivata di quella centralità cui tanto tiene. Sarebbe l’atto disperato di chi sentendosi messo da parte rilancia un gesto che, pur in linea con la sua storia, va a ripercorrerla a ritroso. Eppure quel pezzo di società in divisa, che si auto-assegna il ruolo di traghettatore della rinascita rappresentativa e costituzionale del Paese, sembra usare la classica escalation di chi vuol giustificare soluzioni forti.
Cerca di cancellare il dissenso usando una repressione omicida, s’abbandona alla brutalità della tortura sui fermati, all’inciviltà del maltrattamento femminile, all’umiliazione e all’insulto del credo con la lacerazione dei chador. E’ di queste ore la proposta di vietare ogni genere di riunione di piazza. Alle limitazioni personali s’aggiunge quella dell’informazione con minacce ai reporter, ostacolo all’esecuzione del lavoro giornalistico, denigrazione di quanto finora è stato possibile mostrare al mondo. C’è poi un’intimidazione alla stessa componente islamista attuata con l’assassinio di Emad Effat, imam della maggiore moschea cairota, quella di Al-Azhar. Conosciuto dai killer che l’hanno colpito in pieno petto perché inveiva contro la violenza poliziesca. Sicuramente gli uomini di Tantawi cercheranno anche altre soluzioni. Accanto a ciò che i consiglieri e consigliori (leggiamo pure Stati Uniti e Cia) suggeriranno loro sarà interessante seguire il rapporto col potenziale nuovo establishment. Il panorama elettorale ha assunto contorni ormai netti. Il secondo spoglio, che alcuni preventivavano meno islamista, si scopre ancora più favorevole al Partito della Libertà e Giustizia, leader col 40%, e A-Nour, salito addirittura al 35%. Il prossimo Parlamento potrà avere i 2/3 della Camera Bassa controllati dall’Islam politico molto più che in Tunisia e in Marocco, nazioni meno popolate dove le contraddizioni, pur presenti, non raggiungono l’acme conflittuale mostrato da quest’autunno egiziano.
I prim’attori di governo s’apprestano a essere i Fratelli Musulmani e forse i salafiti, che in questi giorni insieme ai laici accusano i militari intimandogli le scuse alla nazione e il risarcimento alle famiglie di morti definiti martiri. Quegli uomini e ragazzi qualsiasi che non saranno ricordati per nome come Emad Effat e neppure come Mohamed Bouazizi e che da dieci mesi non esitano a dare la vita per l’Egitto del domani. Se, come c’è da augurarsi, nessuna soluzione golpista verrà attuata i generali dovranno cercare l’assenso di quella politica che ha il consenso dell’urna. Un consenso non necessariamente schierato con la piazza di questi mesi che è laica, giovanile, esasperata e in molti casi disillusa dai partiti. I “cani sciolti” di cui abbiamo parlato, non amati da quei ceti egiziani che reclamano una transizione non traumatica. Perciò i leader della Fratellanza, e il risorto ambiente salafita tanto perseguitato da Mubarak, potrebbero virare verso una real politik che ne garantirebbe un inserimento in molti posti di potere e patteggiare il futuro con la lobby delle divise in nome dell’ordine e del quieto vivere. Bisognerà vedere se fra le parti prevarrà una “trattativa” o un braccio di ferro e se i militari accetteranno d’invertire il ruolo e passare da tutelante della politica a tutelato dalla medesima. Com’è accaduto ai colleghi turchi sottoposti alla “cura Erdoğan”. Una parziale diminutio rivolta a un compromesso che accontenta ciascuno ed è in sintonia con la voglia di ordine dell’egiziano medio che ad Al Arabiya dichiara di “voler solo lavorare, vivere in pace e guardare al futuro mentre questo clima di violenza rende tutto complicato”. Un desiderio che può essere usato dalla politica moderata, islamista e laica, per accantonare le rivendicazioni radicali. E dal vecchio Egitto, in uniforme e abiti civili, per schiacciare gli agitatori di Tahrir e dintorni con o senza la tentazione del colpo di mano.
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